Una Città n° 164 / 2009

Gaza

Paolo Bergamaschi - Gaza


A meno di un mese dalla fine dell’operazione "Piombo fuso”, all’accademia militare di Oranim, nel nord di Israele, Danny Zamir, responsabile del corso pre-militare "Yitzhak Rabin” ha organizzato una discussione tra gli ex allievi che avevano partecipato all’operazione a Gaza. I soldati sono stati invitati a parlare liberamente. I verbali sono poi stati pubblicati anche sul bollettino interno "Briza”. I nomi sono stati cambiati. Riportiamo la testimonianza del soldato Aviv:

Sono Comandante di una compagnia che non ha ancora terminato l’addestramento, facciamo parte della Brigata Givati. Siamo entrati in un quartiere, nella zona sud di Gaza City. Tutto sommato, la definirei un’esperienza particolare. Durante l’addestramento, aspettavamo il giorno in cui saremmo entrati a Gaza, ma alla fine non è stato per nulla come ce lo immaginavamo. Piuttosto era una cosa del tipo: arrivi, prendi una casa, cacci i proprietari e ti ci trasferisci. Noi siamo stati in una casa quasi un’intera settimana.
Sul finire dell’Operazione, il piano era di addentrarci in un’area più popolata di Gaza City. Durante i briefing, ci hanno parlato delle regole di ingaggio nella zona urbana, perché come sapete si è sparato molto, sono state uccise molte persone, per assicurarci di non venire colpiti e di non fare da bersaglio.
Dapprima, la nostra missione era entrare in una casa. Dovevamo entrare con un mezzo blindato chiamato Achzarit [letteralmente: crudele], che ci permette di sfondare e accedere al piano terra, e poi fare fuoco… e poi… per me, questo è omicidio… di fatto, dovevamo risalire il palazzo piano per piano, e sparare a quanti incontravamo sul nostro cammino. All’inizio mi sono chiesto: qual è la logica in tutto ciò?

Dalle alte sfere ci dicevano che eravamo autorizzati a farlo, perché quanti erano rimasti nel settore, e dentro Gaza City, erano già stati condannati, erano terroristi, altrimenti sarebbero fuggiti. Io non capivo proprio: queste persone non potevano andare da nessuna parte e loro ci dicevano che se non erano fuggiti era solo colpa loro… anche questo mi spaventava un po’. Ho provato a far pesare la mia posizione per cambiare le cose, per quanto possibile per un subordinato. Alla fine, l’ordine era di entrare nelle case, e col megafono avvisare gli inquilini: "Uscite tutti, avanti, avete cinque minuti, lasciate la casa, chi non esce verrà ucciso”.
Sono andato dai miei commilitoni e ho detto loro: "L’ordine è cambiato. Entriamo in casa, diamo loro cinque minuti per fuggire, perquisiamo chi esce per controllare che non sia armato, poi risaliamo l’edificio piano dopo piano per ripulirlo… Significa entrare, sparare a tutto ciò che si muove, lanciare granate, questo genere di cose.

C’è stato un momento in cui mi sono arrabbiato parecchio. Uno dei miei soldati è venuto da me a chiedermi "Perché?”. Io ho risposto: "Cos’è che non ti è chiaro? Certo non vogliamo uccidere civili innocenti”. E lui "Ah sì? Chiunque si trovi là dentro è un terrorista, questo è risaputo”. Io ho risposto: "Credi davvero che la gente là dentro scapperà? Nessuno scapperà”. Lui ha ribattuto: "Chiaro”. Ma poi gli altri soldati gli han dato man forte: "Dobbiamo uccidere chiunque si trovi là dentro. Sì, chiunque sia rimasto a Gaza è un terrorista”, e così via, con quel genere di cose con cui ti riempiono la testa i media.
Allora, io provavo a spiegare a questo ragazzo che non era vero che tutti quelli rimasti nella casa fossero terroristi, e che dopo aver ucciso, per dire, tre bambini e quattro madri, saremmo dovuti andare al piano di sopra a uccidere altre venti persone. Alla fine, per otto piani, con cinque appartamenti per piano, avremmo dovuto assassinare 40, 50 famiglie. Ho provato a spiegare a tutti il motivo per cui dovevamo lasciarli uscire, e solo poi entrare nelle loro case. Ma non ho avuto molto successo. E’ stato molto frustrante scoprire che a Gaza la sensazione era di poter fare quello che si voleva: buttare giù le porte delle case senza alcun motivo, solo perché era "cool”.
Gli ufficiali non mi hanno mai dato l’impressione che ci fosse una logica dietro questi ordini, comunque non ci spiegavano niente. Si scriveva "morte agli arabi” sui muri, si sputava sulle foto di famiglia, solo perché era possibile farlo. Credo che questo faccia capire quanto l’esercito israeliano sia scaduto sul piano etico, davvero. E’ questa la cosa che ricorderò di più.

Uno degli ufficiali, comandante di compagnia, ha visto qualcuno risalire la strada: una donna anziana. Camminava ed era ancora abbastanza lontana, ma non abbastanza da non poterla uccidere. Non so se fosse sospetta o meno. L’ufficiale, alla fine, ha mandato dei soldati sul tetto del palazzo per spararle addosso e ucciderla. Mi è sembrato un omicidio a sangue freddo.
Credo fosse proprio questa la cosa bella di Gaza. Vedevi una persona per strada, diretta chissà dove. Non c’era bisogno che avesse un’arma, né di identificarla: potevi semplicemente spararle. Nel nostro caso si trattava di una donna anziana, che non sembrava portare alcuna arma. L’ordine era di sparare alla donna a prima vista...
(www.haaretz.com)