Layout 1 - page 20

20
L’11 luglio 1995, quando i serbi entrarono
a Srebrenica, circa 25.000 persone cercaro-
no rifugio nella base olandese di Potocari,
presso l’ex fabbrica di ricami. Circa 5.000
entrarono e furono ammassate in un capan-
none. Le altre furono fermate e lasciate fuo-
ri. Hasan Nuhanovic, che lavorava come in-
terprete alla base, tentò inutilmente di sal-
vare la sua famiglia.
Il brano che segue è tratto dal libro-testimo-
nianza di Hasan Nuhanovic
Under the UN
Flag. The international Community and
the Srebrenica Genocide
, Sarajevo, 2007.
«Solamente una porta separa l’ufficio dal-
l’enorme salone con migliaia di rifugiati. Il
capannone è stipato di gente. Si sente la
gente piangere e il puzzo -un tremendo fe-
tore di sudore di esseri umani spaventati,
misto al tanfo di feci- è soffocante. Non ci
sono servizi igienici. Le persone rinchiuse
sono costrette a fare i loro bisogni nel ca-
pannone. È umiliante. I miei genitori hanno
passato la prima notte tra l’11 e il 12 lì den-
tro, ma non lo permetterò più. Devono stare
con me nel nuovo ufficio degli Unmo, non
importa che cosa pensino De Haan o gli afri-
cani. Ho portato dentro anche mio fratello.
I miei genitori mi guardano, è circa mezza-
notte. Si sentono degli spari, lì fuori. Ogni
minuto che passa si sentono i colpi sparati
a caso, senza un ordine. Non c’è ritmo nel
modo in cui i serbi usano le armi. Non è un
DaDaDaDa. È più un suono simile a Tak...
Tak. Tak. I proiettili finiscono la loro corsa
in qualcosa, nel corpo di qualcuno. Stanno
ammazzando delle persone.
Questa è la nostra seconda notte nella base.
Me lo sentivo. I serbi stanno uccidendo tutti
gli uomini e i ragazzi là fuori. Saremo al si-
curo finché resteremo dentro. Questo è
chiaro. I serbi non osano entrare nella base.
Siamo al sicuro per il momento. Ieri ho pas-
sato quasi tutto il giorno a cercare di con-
vincere gli ufficiali olandesi al comando e i
tre Unmo a tenere mio fratello con me, in
modo che qualsiasi cosa farò io, come dipen-
dente dell’Onu, possa farla anche lui. Deve
pur esistere una procedura scritta da quei
burocrati dell’Onu a New York per una si-
tuazione come questa. Voglio dire, questa
di certo non è la prima missione Onu. Que-
sta è la mia famiglia, per l’amor del cielo!
La prenderò così: se devo scegliere tra salva-
re tutta la mia famiglia o mio fratello, sce-
glierò mio fratello. Riuscirò a convincere il
Dutchbat (battaglione olandese) e gli Unmo
(osservatori militari) a salvare la vita di tut-
ti e tre? Devo mettere in salvo mio fratello.
Anche se non si riescono a sentire grida da
fuori, il pensiero più tremendo è che i cetni-
ci stiano tagliando la gola alla gente, secon-
do il loro tradizionale modo di uccidere.
Guardo mio fratello. I suoi occhi azzurri e
la sua faccia così pallida lo rendono vulne-
rabile. Ed è proprio vulnerabile, in attesa.
Non voglio pensare a quell’eventualità. Che
aspetti la morte? Sembra molto calmo. Sta
solo facendo finta di non essere spaventato
perché anche la sua ex ragazza è alla base?
Quella ragazza magra con dei bellissimi ca-
pelli biondi. L’ha sicuramente vista, ieri,
tra la folla. Io l’ho vista.
E io? Mi uccideranno? Ci uccideranno tutti?
Ho maledetto quel pensiero che, per un mil-
lesimo di secondo, mi ha attraversato la
mente. È la preoccupazione per la mia vita.
La mia vita. Ehi! Come posso pensare alla
mia vita quando quelle di mio fratello e dei
miei genitori dipendono dal fatto se riuscirò
a convincere questi stranieri a salvarli? Io
sono, come dice il pezzo di plastica che pen-
de dal mio collo, un possessore della carta
d’identità Onu.
Christina, senza presentarsi, si è avvicina-
ta a De Haan, sapendo che era il capo del
team e gli ha sussurrato all’orecchio: “Ha
visto quei nove morti fuori dalla base?”. Ho
sentito un dolore lancinante, come se qual-
cuno mi avesse pugnalato al cuore. Ce lo
aspettavamo tutti: sta parlando delle ese-
cuzioni che stanno avvenendo proprio in
quel momento. Mi giro e dico ai miei geni-
tori e a mio fratello: “Li stanno uccidendo,
là fuori. Ci uccideranno tutti”.
Mia madre è svenuta, proprio davanti a
me, ma sono riuscito a non lasciarla cadere
a terra e l’ho distesa su un tavolo al centro
dell’ufficio. Non ha per nulla un bell’aspet-
to. Mio fratello e mio padre sono saltati su
dalle loro sedie e hanno iniziato a chiedere
aiuto; io le tengo la testa e le controllo il
polso. Sappiamo quanto sia fragile e siamo
preoccupati che possa morire. Non è più in
grado di sopportare la situazione, di lottare
con il pensiero che i suoi due figli siano uc-
cisi dai serbi sotto i suoi occhi.
Tutto ciò fa paura, dopo quello che Franken
mi ha detto poche ore prima: che l’evacua-
zione dei rifugiati dall’area esterna alla ba-
se è terminata, che circa 20.000 persone so-
no state evacuate e che le altre 5.000 ver-
ranno evacuate domani mattina.
12 luglio. Con il passare del tempo ci sono
sempre meno rifugiati nello stanzone. Ci
torno ogni due minuti, per vedere quanti
sono rimasti. A un certo punto, tre o quat-
tro soldati olandesi entrano nell’ufficio de-
gli Unmo e mi dicono: “Hasan, la tua fami-
glia deve andarsene ora. Quasi tutti i rifu-
giati hanno lasciato la base. La tua fami-
glia non può rimanere”. Mio fratello si è al-
zato improvvisamente e ha detto: “Fanculo
tutti. Non starò qui a pregarli. Me ne vado.
Hasan non deve supplicarli per me mai più.
Che si fottano”. Io urlo: “Verrò con voi. Non
vi lascerò andare da soli”. I miei genitori si
preoccupano che io vada con loro nonostan-
te il mio permesso di rimanere. Entrambi
dicono: “Hasan lascia che tuo fratello venga
con noi. Andremo via come una famiglia.
Non preoccuparti, lui starà con i suoi geni-
tori. Non succederà nulla”.
Gemo e non riesco più a parlare. Abbiamo
camminato per circa 100 metri e abbiamo
raggiunto la zona dell’edificio principale di
Dutchbat. Lungo la strada ho dato a mio
fratello la mia vecchia carta d’identità Onu.
Gli ho detto di mostrarla ai serbi perché
forse qualche serbo che ero solito incontrare
alle riunioni con Dutchbat potrà essere pre-
sente e aiutarlo. Lo bacio piangendo. E di
nuovo gli grido: “Vengo con te”. E mi avvi-
cino per raggiungerlo verso il cancello. Lui
si gira e urla: “Tu non verrai con me. Tu
puoi rimanere: allora resta. Non verrai con
me”. Mia madre lo segue. Sto in piedi ac-
canto a mio padre che vuole dirmi addio.
Improvvisamente il maggiore Franken esce
dall’edificio principale e dice: “Hasan, dì a
tuo padre che può rimanere”. Un migliaio
di pensieri mi passano per la testa. Tutti i
tipi di possibilità mi sfilano davanti agli oc-
chi. Penso: “Dio, grazie, questa è una svol-
ta. Diranno che la mia famiglia può rima-
nere”. Franken continua: “Dì a tuo padre
che lui è uno dei tre rappresentanti e i loro
nomi sono sulla lista di quelli che possono
rimanere”. Mio padre risponde: “E la mia
famiglia?”, guardando mia madre e mio fra-
tello. Sono a circa 30 metri da noi e stanno
camminando verso il cancello. Penso che
Franken mi dirà che possono rimanere tut-
ti. Franken risponde: “Digli che se non vuo-
le rimanere, può anche andarsene con la
sua famiglia. È una sua scelta”. Mio padre
dà la mano a Franken e se la stringono a vi-
cenda. Gli sorride e cammina per raggiun-
gere mio fratello e mia madre».
Hasan Nuhanovic non li avrebbe più rivisti.
(Traduzione di Martina Lunardelli)
Testimonianza di Hasan Nuhanovic
Ci uccideranno tutti?
1...,10,11,12,13,14,15,16,17,18,19 21,22,23,24,25,26,27,28,29,30,...48
Powered by FlippingBook