Una Città279 / 2021
novembre


...al contrario noi dobbiamo partire dalla premessa opposta, che l’oppressione dispiaccia alla maggior parte degli uomini e che la libertà sia un bisogno assai diffuso nella società umana e fra gli individui normali, e non perdere nessuna occasione per comunicarlo agli interessati. Questa discussione non dovrebbe essere più necessaria dopo i casi
di Vorkuta, della Polonia e dell’Ungheria. Abbiamo ascoltato dalla viva voce degli scrittori ungheresi ex comunisti, ora esuli in Occidente, che cosa significasse per essi, all’epoca del terrore di Rakosi, ogni segno, ogni scritto, ogni voce di libertà proveniente dall’estero. E abbiamo le confidenze degli intellettuali italiani usciti negli ultimi mesi dal Pci. Se il loro gesto di ribellione è ancora recente, la loro cattiva coscienza, ci assicurano, durava però da anni. Non è vero, essi ci dicono, che fossero sordi ai richiami che ricevevano dall’esterno del loro partito; muti sì ma non sordi. Molti rimasti nel Pci si trovano ancora in quelle condizioni; non bisogna dare pace alle loro coscienze inquiete.
Ignazio Silone, “Conversazione tra amici” (con G. Berneri e C. Zaccaria)
(“Volontà” n. 8, 30 maggio 1957)
novembre 2021

Nulla di bello da dirvi
lettera di Irfanka Pasagic

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli...
Sul liberalismo inclusivo
intervista a Michele Salvati

50 centesimi l’ora, 14 ore al giorno
Su lavoro, sfruttamento e caporalato
intervista a Marco Omizzolo

I cortili non sono più quelli di un tempo
Una buona pratica a San Siro, Milano
una conversazione con Bianca Bottero, Francesca Cognetti, Anna Delera

Appunti sulla politica antitotalitaria in italia
Massimo Teodori

Ignazio Silone e il tarlo amorale della “politica politicante”
Sergio Soave

Il Matteotti della Puglia che lottava per i braccianti
Walter Galbusera

Quando verrà ristabilito il Parlamento?
La Tunisia a dieci anni dalle primavere arabe
intervista a Bochra Bel Haj Hmida

Venne addirittura Carniti a sconfessarci
Una storia di impegno politico e culturale
intervista a Maurizio Carbognin

Addio Giorgio
Gianni Saporetti

Il misticismo attivistico di Giovanni Gentile
Alfonso Berardinelli

Da oppressi a vittime
Vicky Franzinetti

Padri e figli
Emanuele Maspoli

Dove sono finiti tutti quanti?
Belona Greenwood

Un polacco a cui non piace il freddo
Wlodek Goldkorn

La visita è alla tomba di Hannah Arendt (p. 55)
 
La copertina è dedicata a tutti coloro che vivono in ristrettezze. Per il resto, auguri a tutti di buone feste.

In questo numero diamo l’addio a un carissimo amico, Giorgio Bacchin, uno dei fondatori della rivista “Una città” e, in seguito, della Fondazione Alfred Lewin. Ricoverato e operato d’urgenza per rottura dell’aorta, era uscito dalla terapia intensiva, sembrava fuori pericolo, ma dopo un mese ha avuto una ricaduta. Aveva 65 anni. L’addio alle pagine 46-47.

Questo numero ha cinquantasei pagine e, a mo’ di inserto, ne dedichiamo sedici all’Altra tradizione, un chiodo fisso del nostro impegno fin dagli inizi. In tanti, nel tempo, ci hanno chiesto che cosa intendessimo con questa espressione. La risposta è molto semplice: è la tradizione che annovera tutti coloro che, nel passato, si sono battuti per la giustizia sociale difendendo, contemporaneamente e, a volte, a costo della vita, la libertà di ognuno e la democrazia; oppositori, quindi, di ogni forma di dittatura e totalitarismo, nero o rosso che fosse. È una tradizione dimenticata, a suo tempo criminalizzata come “serva dei padroni”. Il risultato è paradossale: tanti che sono stati comunisti, e che oggi fanno fatica anche a dichiararsi socialdemocratici, pur di non rinnegare la loro storia, pur di non ammettere che avevano avuto ragione gli altri, del passato hanno fatto tabula rasa, rendendolo impraticabile (per giustificare e chiudere, la frase d’uso è: “C’era la Guerra fredda”, dopodiché, certo, non resta che “bella ciao”). Questo, oltre a impedire comparazioni, discussioni già affrontate allora ma ancora attuali, analisi degli errori e delle loro cause, comprensione di come, anche con le migliori intenzioni, si possa diventare feroci criminali, tutti esercizi, cioè, di intelligenza, priva i giovani di antenati e padri da onorare, di esempi da seguire, di una genealogia di cui andare orgogliosi.
Ma si può vivere senza tradizione? Non è uno dei sentimenti più forti dell’essere umano quello di lasciare un segno? Lo stesso 68, con tutta la sua forza di novità e di ribellione giovanile, una tradizione se l’è andata a cercare quasi subito e purtroppo, in questo, ha sbagliato tutto e le conseguenze le paghiamo ancora oggi.
Un vecchio amico ha sempre obiettato che avremmo dovuto usare il plurale, perché sono tante le “altre tradizioni”. Giusto: ci sono i liberaldemocratici, i repubblicani mazziniani, i liberalsocialisti, i socialdemocratici, i socialisti autonomisti, i libertari; si va, per citare solo gli italiani, da Mario Pannunzio a Lamberto Borghi, passando per Andrea Caffi, Gaetano Salvemini, Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, Eugenio Colorni e tantissimi altri. Ma, oltre al fatto che il pluralismo è un valore (e le riviste di quella tradizione, da “Il mondo” a “Tempo presente”, ne sono state un fulgido esempio) -lo ripetiamo- c’è un tratto fondamentale comune a tutte queste tradizioni: gli ideali, indissolubili, di libertà e giustizia sociale. Ogni tanto quindi, finché ci saremo, noi insisteremo, pur fuori moda. In questo numero pubblichiamo gli interventi di Massimo Teodori, Sergio Soave e Walter Galbusera.

La rivista si apre con un grido d’allarme dalla Bosnia. Segue un’intervista a Michele Salvati su cui tutti si dovrebbero confrontare; poi abbiamo la storia di come si vive e si lavora agli ordini dei caporali raccontata da Marco Omizzolo; Bianca Bottero, Francesca Cognetti e Anna Delera ci parlano di una buona pratica in un quartiere di Milano; dalla Tunisia, purtroppo, Bochra Bel Haj Hmida non ci porta buone notizie; una bella storia di una rivista vicina al sindacato, dal Veneto cattolico, fondata, tra gli altri, da Maurizio Carbognin; poi Alfonso Berardinelli ci parla di Giovanni Gentile, Vicky Franzinetti ragiona sul processo di vittimizzazione degli oppressi; poi Emanuele Maspoli dal Marocco, Belona Greenwood dall’Inghilterra; infine Wlodek Goldkorn ci spiega per quale motivo è grave chiedergli perché mai non ama la neve della sua Polonia.