Pubblichiamo la relazione di Sergio Soave al seminario organizzato dall’Associazione Amici di Nicola Chiaromonte tenutosi a Forlì presso la Fondazione Alfred Lewin il 25 settembre 2021.
Se il profilo di chi potrebbe essere inserito a buon diritto tra gli interpreti più appassionati dell’“altra tradizione” è quello definito dai nove caratteri individuati all’apertura di questo convegno, Ignazio Silone vi corrisponde appieno.
Naturalmente, come accade per tutti, anche la sua avventura umana presenta tratti non confondibili o sovrapponibili a quelli dei suoi compagni di viaggio.
La sua formazione, ad esempio, è molto diversa da quella di tanti suoi compagni di viaggio. Nasce in una piccola città e in una famiglia non certo abbiente. Rimane presto orfano di padre e perderà poi a 15 anni la madre sotto il terremoto che sconvolge la plaga tra Pescina e Avezzano; è salvato da uno “strano prete”, quel don Orione che lo ospiterà in un collegio della sua nascente congregazione fino alla sua “scelta socialista” e al suo spostamento a Roma, in una poverissima cameretta. Il suo mondo non è quello dei libri, ma della scuola della vita e della militanza politica che esalta le sue spiccate attitudini. Non gode certo dell’educazione-tipo di un intellettuale, sebbene diriga un giornale e impari da sé ad allargare i propri orizzonti e le proprie conoscenze del mondo “vasto e terribile”.
La politica militante, prima nel Psi e poi nel Pcd’I, costituisce insomma la sua vera scuola.
Di altri, dunque, si può dire che un certo, pur diffidente, avvicinamento alla dimensione della politica segua una formazione intellettuale nutrita di studi, di letture impegnative, della frequentazione di grandi maestri.
Di lui si deve dire l’esatto contrario. Scriverà molto più tardi di come abbia sofferto la mancanza di una vera formazione scolastica e incoraggerà i giovani a leggere libri e ad andare all’università che lui aveva ritenuto superfluo frequentare.
Il carattere con cui affronta la “scuola della vita”, partendo dalla politica, non è però quello di un ragazzo facilmente manipolabile. Certo, è anche lui facile preda del “fare come in Russia!” e di tutta la connessa mitologia rivoluzionaria; e quando gli chiederanno di pubblicare i suoi scritti giovanili (che pure rilevano già una maturità assente in quelli di tanti suoi coetanei) rifiuterà seccamente di farlo, dando di essi un giudizio che non contempla attenuanti; ma, sul piano del comportamento morale, non avrà nulla di cui rimproverarsi. L’ambiente in cui vive potrebbe infatti insegnargli molte e contraddittorie cose, specie quando entra più direttamente, anche a livelli apicali, negli organigrammi di partito.
Potrebbe suggerirgli il posizionamento interno opportuno, l’ossequio ipocrita del potente di turno o lo smarcamento furbesco, il conformismo, la prudenza estrema nell’esprimersi per non essere tagliati fuori, a priori, dai meccanismi di selezione interna, ecc., ecc.; cose tutte che costituiscono il perno della pratica formazione del funzionario di partito e di cui ha esempi abbondanti nel suo peregrinare, specie quando si imbatte nella struttura di potere sovietica durante i suoi viaggi a Mosca.
Ma da tutta questa modesta fenomelogia dello spirito si terrà ben lontano, anche quando, rispetto a un’evidente convenienza, il costo di un’incoerenza sarebbe minimo o non esecrabile secondo i normali parametri di giudizio.
Insomma, dalla vita di partito impara soprattutto ciò da cui ritiene di doversi tenere lontano e quando, molto più tardi, gli toccherà individuare i suoi Maestri, citerà non a caso due preti (il cattolico don Orione e il pastore protestante Ragaz) e due comunisti “anomali” (Gramsci e Trockij). Di tutte e quattro queste vite esemplari, così diverse per un’infinità di aspetti, prevalente e unificante sarà, nel suo giudizio, la sottolineatura della loro cristallina dirittura morale e della coerenza dimostrata e sostenuta fino alle estreme conseguenze tra la scelta ideale e la pratica del medesimo.
Due concetti ulteriori lo sosterranno in quello che sarà per tutta la vita il tentativo di essere all’altezza di questi Maestri: uno mutuato da Tasca che, in una corrispondenza degli anni Trenta lo incoraggia, scrivendogli che “gli eretici sono i veri discepoli”; l’altro dal pastore Ragaz, la più alta figura del “socialismo cristiano” che, riconoscendo la propria sconfitta personale e anche storica nel panorama politico non certo confortante dell’Europa degli anni Trenta, continua in solitudine la sua opera perché, dopo tutto, “un resto sempre rimane”.
E non ci sarà momento della vita in cui questa intuizione, diventata convinzione profonda, non lo guidi. È già stato così per le due più sofferte esperienze della sua avventura umana: quella dell’abbandono del mondo orionino (che don Orione tenta disperatamente di capire, arrendendosi: Tu sei per me […] un interrogativo impressionante. Tu hai davanti […] un tremendo bivio, con un’idea molto eletta della vita); e quella della rottura con il partito comunista (quando Togliatti lo insegue fino all’ultimo, non volendo perderlo e commettendo forse, in questo inseguimento vano, le uniche imprudenze della sua carriera).
E così sarà in futuro, quando da Mosca tenteranno di recuperarlo, chiedendogli nel ’36 una semplice collaborazione saltuaria a una rivista internazionale antifascista e lui, che potrebbe giovarsene, subodorata la strumentalizzazione, non si limita a tirarsi indietro con qualche plausibile scusa, ma risponde, per iscritto, di non poter lavorare con chi assiste senza dire una parola alla gogna di uomini come Zinoviev, Kamenev, Tomskij, Bucharin e Radek che hanno guidato la rivoluzione e ora sono travolti da accuse infamanti, “senza poter dimostrare la loro innocenza con testimoni e avvocati veramente indipendenti”.
Ciò -aggiunge e conclude- è esattamente quello che accade nei tribunali fascisti e lui, che si è opposto al fascismo, ora rifiuta “di divenire un fascista rosso”.
Insomma, sulla scorta di questi ferrei principi, incisi nel suo carattere e mai traditi, deciderà ogni passo della sua vita e misurerà il suo rapporto con la politica. È questo che gli suggerirà infine di definirsi un “anormale politico” o di confessare a Rosselli, che cerca di coinvolgerlo nella sua battaglia, di sentirsi non più che “un franco tiratore” della causa. Dopo la rottura con il Pci (“una vera fortuna”) si dichiarerà “inabile permanente per tutti gli apparati del presente e del futuro”, convinto ormai che la politica sia ridotta, come è stato detto, a “tutto ciò che si usa per ingannare gli uomini, mentre propone loro di liberarli”. Sicché a questo esito, inevitabile nelle condizione date, vuole sottrarsi, quali che siano le sirene che periodicamente tentino di catturarlo.
E tuttavia, date queste premesse, sarebbe fuorviante pensare che, esaurita la fase di funzionario di partito, la politica esca dalla sua vita. Anzi!
Quando, per lasciare un segno, prima della morte che sente vicina (così ha confessato), ha scritto solo per sé, Fontamara, il romanzo che gli darà fama internazionale, ha composto in realtà, con una forza poetica straordinaria, la più grande e calzante denuncia politica della dittatura fascista, ottenendone un successo tanto insperato quanto vasto e universale, come, prima di tutti, ha ben capito Mussolini, che subito chiede all’Ovra una vigilanza più severa nel tentativo di screditarlo.
E ciò ha rivelato a Silone -e per la prima volta con assoluta chiarezza- come il primato della politica abbia una dimensione che va ben al di là dell’angusta e inquinata traduzione partitica.
Così gli anni Trenta che gli fanno incontrare in Svizzera i migliori intellettuali di tradizione tedesca, in fuga dal nazismo ed esuli come lui, diventano quelli della vera formazione del Silone “grande intellettuale” europeo.
E le sue opere successive, Pane e vino, La scuola dei dittatori, Il seme sotto la neve, riveleranno a sé e al mondo un percorso di maturazione politica dal quale non si staccherà più, in futuro.
Qualcuno ancora equivocherà, pensando che le prime due opere costituiscano una sorta di scivolo verso un recupero alla politica politicante, ma l’ultima, che più di tutte rivela l’esito della sua traiettoria, cancellerà tutti gli equivoci.
Veniamo allora a Il seme sotto la neve, che è il vero indice tracciante della sua evoluzione.
Comparso -si badi- nel 1941, in lingua tedesca, è concepito come il seguito di Pane e vino, di cui recupera personaggi e luoghi, cambiandone però l’atmosfera. Così, Pietro Spina, braccato dalla polizia, si rifugia in una stalla abbandonata dove trova un’asina, un cane e l’amicizia di Infante, un sordastro asociale cui tenta di insegnare le parole fondamentali.
Rintracciato e ricattato, è costretto a fuggire nuovamente e a nascondersi, questa volta, nella fatiscente casa di Simone detto “la faina”, un ex proprietario che, per propria scelta, si è ridotto a vivere in povertà. Anche Infante, l’asina e il cane lo seguono, partecipi di una singolare comunità in cui tutto il minimo necessario per vivere è equamente diviso e a cui si aggiungono, dopo una nuova fuga, Faustina, una giovane ragazza ingiustamente bollata di facili costumi che vive nella casa di Severino, ex organista della chiesa d’Orta, anch’egli auto esiliatosi dalla società. La vita di Pietro Spina sembra a questo punto distendersi, paga delle relazioni finalmente umane della piccola comunità e dell’amore per Faustina con cui decide di vivere, quando l’incantesimo è rotto da Infante che, ritrovato e riportato a casa da suo padre, non ne accetta la convivenza e lo uccide. Pietro, per salvarlo, si autoaccusa del delitto e Faustina, che lo attende alla stazione per la fuga verso una nuova vita, lo vede passare in ceppi, diretto verso il carcere.
L’uscita del romanzo, tratteggiato qui per sommi capi, fece rumore, provocò rifiuti radicali, si manifestò ai lettori più avvertiti come scandalo.
Il “nuovo” Pietro Spina sembrava infatti aver assunto, pur nell’affinità del carattere e delle convinzioni con l’eroe di Pane e vino, una preoccupante distanza dalla realtà (non ci sono sostanziali riferimenti alla guerra in corso) e dalla dimensione politica vera e propria; se ne deduceva, da parte dei critici, che Silone, dopo aver inferto, con i suoi libri, durissimi colpi al regime, si fosse infine aggrappato a una prospettiva di rivoluzione che aveva caratteri assai più religiosi e morali che politici e che avesse rinchiuso il suo sogno di liberazione dell’uomo dentro la dimensione psicologica di chi cerca individualmente la propria salvezza nel rapporto con la natura, in una coerenza ideale estrema e, infine, nella costruzione di una piccola comunità di amici rifiutati dalla società.
Contro questa prevalente interpretazione, Silone, pur poco incline a replicare ai suoi critici, dovette spiegare di non essere diventato affatto “vittima della solitudine e della disperazione”, ma di aver cercato di andare all’essenza delle cose, di aver puntato cioè all’“accordo con se stessi fin nel profondo dell’animo”, alla rigenerazione di quella “vita interiore” che, lungi dall’essere un’esigenza piccolo borghese, costituiva la vera sfida di un rivoluzionario. Non sarebbero state le finte “maschere d’acciaio” dei burocrati comunisti (al contrario, “ometti terrorizzati che hanno imparato a essere estremamente prudenti”) a redimere infine l’umanità, ma solo rivoluzionari consapevoli e capaci di andare a quell’essenza umanista del socialismo che la tecnocrazia “tragicamente fredda” dei sovietici aveva tradito e continuava a tradire.
E rivolgendosi a Carl Seedorf, tra i suoi critici e recensori forse il più stimato, spiegava che il romanzo viveva nella contrapposizione tra la “presenza di uomini liberi, temerari […] legati da un’amicizia assoluta, quasi assurda [...] e un mondo glaciale e cimiteriale”. Era insomma “un romanzo dell’amicizia assoluta, totalitaria, contro la morte totalitaria”. E argomentava:
Il contrasto non è più politico [...]. Il capovolgimento, la negazione della dittatura e della mediocrità borghese non sono reclamati in nome di un ideale di partito, ma di una concezione radicalmente umana della vita. “Pietro Spina ama tutto quel che la società disprezza e disprezza tutto quel che la società ama”.
Stanti così le cose, non era un caso che in quella temperie, e cioè nel momento più buio della storia d’Europa del Novecento, tra i pochi a comprendere la forza simbolica e il significato del romanzo ci fosse un uomo come Andrea Caffi, che nella dissoluzione totale del Psi era stato individuato, proprio nel ’41, dai compagni internati, a dirigere con Silone un residuale centro estero del partito, nel tentativo estremo di rifondare i caratteri del socialismo.
A lui che aveva letto il libro “con intensa attenzione [...], procedendo con l’autore nella massima profondità di esseri e di situazioni”, il senso dell’opera pareva chiaro:
Sono imbarazzato nello spiegarmi: si tratta di un tema troppo immenso, appunto dello “scandalo della Croce”; penetrandosi del quale animi forti sono stati esaltati o schiantati, orientati verso totali negazioni o luminosità di speranze, con risultati di una stupefacente diversità.
Lo “scandalo della Croce”: ecco il motivo profondo, ispiratore dell’opera. Quello che a un Caffi, sempre schivo e solitario, fa esprimere il desiderio di incontrare un giorno l’autore di un libro che è andato tanto a fondo nella ricerca della verità, per parlare con lui dell’essenziale che è “insomma la ragione per cui s’è vissuto come s’è vissuto”.
Perché è vero che già in Pane e vino tutte le tematiche dello “scandalo” cristiano sono presenti, ma mentre là erano funzionali, vuoi a spiegare il tradimento della Chiesa, vuoi a combattere l’essenza del regime, vuoi a contrastare la logica disumana del partito, qui tutto è riportato al contrasto tra la logica della croce e la logica del mondo; e cioè alla lotta contro un fascismo eterno, un totalitarismo eterno, una concezione cupa della vita sociale e dei rapporti tra gli uomini che travalica tempi, regimi, istituzioni, confini.
Traslato sulla realtà attuale e allo scacchiere di guerra che si sta delineando, il tutto significa che un vero rivoluzionario non può che cercare un’altra via, un “terzo fronte” rispetto ai due che si fronteggiano, e cioè “quello conservatore della realtà presente, rappresentato dalle democrazie, e quello revisionista rappresentato dal nazifascismo”. Se si vuole combattere per raggiungere finalmente un regime di vera libertà, bisogna ammettere che esso non è solo incompatibile coi totalitarismi di vario colore, ma anche con il “big business” delle democrazie liberali.
Ne ha parlato in un’intervista del ’39 (a guerra appena iniziata) con un Clement Greenberg, affascinato, ma anche turbato e stupito di fronte a un ragionamento che si infrange contro la necessità di scegliere il da che parte stare. Silone ammette e comprende, ma non demorde: “Gli antifascisti sono stati sconfitti dai fascisti nelle sfere politica e sociale, È comodo, ma sbagliato cercare la rivincita sul piano militare”, così come è sbagliato, nella lotta, affidarsi a un socialismo che abbia tradito i propri principi. È la spinta etica alla giustizia che ha ispirato tanti oscuri eroi del socialismo e lì bisogna ritornare, scartando la fredda tecnocrazia del materialismo volgare che giudica “le attività spirituali come semplici riflessi dell’azione economica”. “Il socialismo -argomenta- non è tecnocrazia ma piuttosto antropocrazia”. Nasce di qui, dunque, la necessità di costruire un “terzo fronte” della battaglia, l’unico che conti davvero per gli uomini.
Greenberg ha ragione nell’obiettare che per ora si tratta solo di una pur altissima intuizione, assai vicina, però, a rivelarsi come una di quelle perenni utopie o illusioni che muoiono e risorgono nel tempo a confronto con il reale.
Ma Silone non desiste. Sa di predicare nel deserto, insieme al lontano Caffi e al vicino Eugenio Colorni, che sente fratello dell’impresa e la cui cattura e uccisione lo abbatte; ma è pronto a giocare tutto se stesso nella sfida: “Lo scrittore rivoluzionario -conclude- deve rischiare l’isolamento”.
E così farà, sia nella conduzione del Centro estero del partito, sia nell’ultimo tentativo politico di innervare di questi concetti il socialismo che viceversa Nenni guida per le solite strade, con colossali errori di posizionamento strategico e le reiterate deprimenti battaglie di posizionamento interno.
La bella vittoria repubblicana del 2 giugno (“il giorno più bello della mia vita”) lo illude, ma solo per un attimo, solo per il tempo di capire che la continuità di vecchie abitudini sta prevalendo su ogni velleità di rinnovamento. Avverte, insomma, che il morto ha ormai afferrato il vivo.
Tra il ’48 e il ’53 matura infine il passo definitivo. La vera politica, quella che gli interessa, non è più “la politica politicante”, ma è la politica della seminagione culturale. A questa dedicherà il resto della vita. Cercherà spiriti inquieti che si riconoscano e si raccolgano in piccoli gruppi di amici, convinti come lui che “Cristo viene prima della Chiesa” e cioè che la forza del messaggio ideale poggi soltanto sulla volontà di uomini singoli disposti a predicarla, senza cedimenti di qualunque tipo alle insidiose sirene della politica, della società e della storia.
Nasce di qui, da questa svolta su cui ci siamo più a lungo soffermati, il nuovo e definitivo rapporto con la politica che caratterizzerà l’immagine del Silone più conosciuto negli ultimi trent’anni della sua vita.
Alla luce di quanto s’è detto e riprendendo uno dei temi sollevati da Pietro Adamo nel suo brillante intervento, possiamo dunque ipotizzare che il Silone della maturità, nei confronti della categoria della politica, non si senta né un apolitico, né un impolitico, né un postpolitico incattivito. La sua opera di letterato, di organizzatore di cultura su scala nazionale ed europea è per lui, al contrario, la sola e vera politica praticabile in un tempo di tradimento dei chierici, in un’Italia e in un’Europa in cui la cultura si divide tra Chiese politiche, poco o punto interessate alla sua libertà sostanziale.
Il “resto che rimane” di quella svolta degli anni Quaranta lo conosciamo: sarà un perno di quella che noi oggi definiamo “l’altra tradizione”, a partire dalla presidenza dell’Associazione per la libertà della cultura, e a continuare con quel “Tempo presente”, la migliore rivista italiana dell’epoca, diretta insieme a quel nuovo e impegnativo amico, Nicola Chiaromonte, della cui figura conosciamo oggi pienamente natura e valore grazie al bel volume di Cesare Panizza.
Ma forse, l’ultimo “resto che rimane” è relativo alla sua caratura umana.
Il “domenicano con se stesso e francescano con gli altri” (secondo la fulminante metafora di Montanelli) non mancò mai di praticare coerenza e inflessibilità di principi neanche di fronte a persone o a organizzazioni che gli procurarono i momenti di grande successo e di massimo consenso dell’ultimo quindicennio della vita.
Così, nel ’69, a Gerusalemme, di fronte a una immensa platea raccolta per assegnargli il Premio internazionale di letteratura, che l’anno prima era stato conferito a Bertrand Russell, non si sottrasse a un fermo richiamo sulla necessità di dar vita a uno “stato assolutamente laico” e a quella di considerare quindi la sorte dei profughi palestinesi.
Allo stesso modo, di fronte ai tanti riconoscimenti che gli vennero in Italia dal mondo cattolico, a seguito de L’avventura di un povero cristiano, fu onesto nell’affermare le ragioni che gli impedivano di tornare come fedele nella Chiesa, riaffermando il suo essere cristiano senza Chiesa, così com’era socialista senza partito.
E, sul piano più strettamente personale, chi avrebbe saputo dire di no a Pertini di fronte alla proposta di nominarlo senatore a vita, carica che rifiutò perché non si sarebbe sentito a suo agio in quella parte?
Ma Silone era così.
Se posso rivelare -e credo di poterlo fare- un particolare del primo incontro che ebbi con l’ormai vedova Darina, erede di quel severo cattolicesimo irlandese che al rapporto tra fede e vita non concedeva certo le scappatoie romane, posso aggiungere un ultimo e ben rivelatore aspetto dell’uomo. Parlando della sua condizione attuale, Darina fece cenno a sue difficoltà economiche dovute al fatto che fosse venuta a mancare una parte consistente dei diritti d’autore, per via di quella falsa rappresentazione del Silone spia, su cui si era montato un caso soprattutto grazie al lancio e rilancio della stampa maggiore e della Rai, nonostante l’evidente falla e malafede dell’intera ricostruzione. L’affitto della bella casa di via Villa Ricotti le costava molto e la sua salute esigeva una presenza continua di personale di servizio. “L’affitto? -mi lasciai sfuggire- ma non è vostra?”. E lei mi disse che Silone ne aveva sempre rifiutato l’acquisto perché non voleva acquisire, con la proprietà di un bene, quell’attitudine piccolo borghese che si introietta inevitabilmente nell’animo di chi si senta in possesso di qualcosa. Aggiunse che aveva rifiutato persino, ai tempi della sua parentesi parlamentare, la partecipazione a una cooperativa per l’acquisizione di un immobile che i colleghi socialisti avevano cercato per evitare le spese eccessive della permanenza romana.
Ecco -ripeto- Silone era così e non c’è nient’altro da aggiungere a questo punto, qualunque conclusione se ne voglia trarre.
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