Perché una storia politica dell’antitotalitarismo in Italia nel secondo dopoguerra riguarda individui, forze politiche e gruppi culturali ritenuti marginali (anche quando non lo sono stati) nel discorso pubblico? La risposta -in breve- è che l’egemonia culturale e il peso politico del Partito comunista e della intellettualità di sinistra ad esso collegata hanno messo al bando nel primo mezzo secolo della Repubblica i movimenti di idee e le forze politiche che in qualche modo potevano essere ricondotte all’antitotalitarismo, un caso quasi unico tra le democrazie dell’Europa occidentale. Questa anomalia -il silenzio sull’antitotalitarismo- affonda le radici nel ruolo preminente che i comunisti ebbero nella Guerra civile del 1943-’45 quando l’antifascismo e l’anticomunismo furono trasformati da categorie storiche a miti gonfiati dagli intellettuali di sinistra che davano il tono al discorso pubblico attraverso una parte significativa dei giornali, delle case editrici e delle università.
A sinistra l’antifascismo veniva per lo più declinato come concetto, se non ancillare, certo intrecciato strettamente al comunismo. La sua ideologizzazione compiuta a sinistra affermava che tutti coloro che erano schierati nel campo opposto al fascismo dovessero mettere da parte le ragioni di diversità e di opposizione al comunismo e tacere le ragioni del loro a-comunismo. E l’anticomunismo era concepito dallo stesso ambiente come un fenomeno sostanzialmente riconducibile al fascismo e parafascismo, in ogni caso proprio dei movimenti antidemocratici e reazionari. Solo per fare un esempio preso a caso, nel saggio di Aurelio Lepre L’anticomunismo e l’antifascismo in Italia la storia d’Italia è vista come una dialettica tra, da una parte, i comunisti e i loro compagni di strada e, dall’altra, i fascisti e gli assimilati, per cui non v’è traccia degli anticomunisti democratici che pure hanno giocato un ruolo politico significativo nell’antifascismo e nella Repubblica. L’anticomunismo di alcuni importanti settori dell’antifascismo negli anni Trenta e nella Seconda guerra mondiale è stato assimilato a bandiera del fascismo, del clericalismo e, nel primo decennio del dopoguerra, dell’estrema destra maccartista. La distorsione storica è stata notata, tra gli altri, da Gian Enrico Rusconi che ha osservato come nella cultura di sinistra “ogni forma di anticomunismo attivistico è sospettato di pregiudizio antidemocratico”. Per la cultura cosiddetta “progressista” il vero democratico è antifascista ma non può mai essere anche anticomunista, quindi antitotalitario.
In Italia sono pochi gli intellettuali tra quelli ritenuti “impegnati” e “progressisti” che hanno apertamente espresso una visione antitotalitaria della realtà nazionale e internazionale. Tra gli storici solo Emilio Gentile ha insistito sul concetto antitotalitario relativo al fascismo mussoliniano da lui studiato in parallelo al nazismo hitleriano. Negli altri paesi europei -Francia, Regno Unito e Germania- molte personalità dell’intellighenzia sono qualificate “antitotalitarie” tra cui Raymond Aron, François Furet, Claude Lefort, George Orwell , Albert Camus, Simone Weil, Stephen Spender, Isaiah Berlin, Hannah Arendt, Toni Judt, mentre non a caso in Italia la rosa è molto ristretta e poco conosciuta dall’opinione politico-culturale.
In una ricerca sui titoli riguardanti le voci “antitotalitarismo” e “antitotalitario” effettuata nel polo bibliotecario parlamentare, nel servizio bibliotecario nazionale e nelle banche dati su 58 pubblicazioni apparse in Italia dal secondo dopoguerra solo nove autori sono italiani, tutti relativi agli ultimi quindici anni: tre (Franco Fantoni, 2007 e 2010, Marco Bresciani, 2014 ) su personalità laiche e azioniste, Garosci, Chiaromonte, Valiani e Caffi; uno (Gian Biagio Furiozzi, 2010) sugli antifascisti negli anni Trenta; tre (Valerio De Cesaris, 2004, Federico Mazzei, 2013, ed Emma Fattorini, 2016) sul mondo cattolico e la stampa vaticana, Pio XI e De Gasperi; tre (Santi Fedele, 2009, Andrea Pinotti, 2014, e Stefano Prezioso, 2008) sull’antifascismo e l’antitotalitarismo, mentre tutte le altre voci riguardano traduzioni di autori stranieri. Non è stata rilevata alcuna voce relativa a intellettuali vicini alla sinistra comunista, che pure negli anni della Repubblica hanno prodotto un’enorme quantità di pubblicazioni. Certo, i numeri non sono il criterio per giudicare la presenza dell’antitotalitarismo in Italia, ma i pochi libri individuati con la chiave antitotalitaria costituiscono tuttavia un indice della storia italiana.

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Queste note sull’antitotalitarismo in Italia mettono a fuoco la storia dei gruppi e degli esponenti politici che hanno svolto un ruolo che si può definire “antitotalitario” nel loro tempo in quanto si sono schierati in maniera critica sul fascismo e sul comunismo. Già prima della Seconda guerra mondiale nella stagione dei totalitarismi neri e rossi, alcune personalità italiane svolsero un’azione antitotalitaria con la loro attiva opposizione sia al fascismo italiano e nazismo tedesco, sia al comunismo sovietico. Gaetano Salvemini, esule antifascista dal 1925, nel discorso pronunciato al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi nel giugno 1935, in un ambiente dominato dagli intellettuali antifascisti e filo-comunisti, non censurò il suo intervento antitotalitario:
 
Dopo aver ascoltato il discorso di André Gide, io gli domando umilmente di ammettermi nella sua società individualista comunista che garantisce la libertà a tutti i suoi figli, non a taluni soltanto … Ma io mi domando se la società sovietica così come si presenta oggi è veramente quella società comunista individualista…
[…] Ora quando sento affermare che la libertà di creare e di esprimere esiste già in Russia e passar sotto silenzio tutti i fatti che possono indebolire tali affermazione, ne debbo concludere che il regime sovietico attuale non viene considerato come uno strumento provvisorio di una lotta necessaria sebbene dolorosa, ma che è tenuto già in conto di regime ideale che i paesi borghesi non fascisti e fascisti farebbero bene ad adottare.
Di fronte a simili atteggiamento permettetemi di far mie, con voce ben meno potente, le parole di Leone Tolstoj: “Non posso tacere”.
[…] Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono le isole-penitenziario e nella Russia sovietica c’è la Siberia. Ci sono proscritti tedeschi e italiani e ci sono proscritti russi…
Mi dispiace di aver scosso parecchie convinzioni. Forse occorre avere vissuto l’esperienza di uno Stato totalitario, non fra i dominatori, ma fra coloro che sono stati schiacciati, bisogna conoscere la degradazione morale a cui lo Stato totalitario riduce non soltanto le classi intellettuali, ma anche le classi operaie, per rendersi conto dell’odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura, suscita nel mio animo.
Vi auguro, amici di paesi ancora relativamente liberi, di non dovere mai vivere questa esperienza.
   
Rientrato in Italia dopo il lungo esilio negli Stati Uniti, Salvemini nel 1954, in occasione di una delle prime battaglie per l’Europa federale, scrisse un profilo della sua posizione politica e culturale:

Sono un socialista democratico all’antica, e per giunta riformista, gradualista.
[…] Non consento al sistema totalitario che i comunisti impianterebbero in Italia. Perché né mi attribuisco sui miei simili una superiorità intellettuale e morale, che mi dia su di essi diritto di vita e di morte, né ammetto che altri eserciti quel diritto sopra di me in forza di una superiorità che gli discenda dalle encicliche pontificie, o dalle encicliche moscovite, o da qualunque altra fonte di indiscutibile autorità.
Questo vuol dire che non sono comunista per le stesse ragioni per cui non fui mai fascista, e non sono mai stato né sono oggi, né sarò mai clericale.

Anche don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare che aveva lasciato esule l’Italia negli anni Venti, faceva spesso riferimento ai regimi totalitari italiano, germanico e sovietico accomunati da eguali idee-mito: la mobilitazione delle masse, l’unanimità del consenso e la proposizione di una religione laicizzata. Di nuovo in Italia nel 1947, comprese che il fascismo aveva lasciato un segno pesante nella struttura dello Stato raccolto nel post-fascismo dai comunisti. Si rafforzava in Sturzo l’idea che fascismo e comunismo non erano altro che due facce di una simile realtà totalitaria:

Il partito comunista ha delle somiglianze tecniche col fascismo: programma dommatico, mito avveniristico, autorità del capo o dei capi, disciplina nei ranghi. Infatti tale partito è quello che soffre il meno di crisi interne e non ha bisogno di frequenti riesami di coscienza”.
[…] Si dice: l’orientamento del paese è verso i due opposti: comunismo e anticomunismo. Se così fosse, dovremmo disperare dell’avvenire del paese. L’anti-X -qualsiasi cosa- è una posizione negativa e non costruttiva. Anche l’antifascismo, preso come tale, non poteva essere conclusivo e operativo tranne come protesta o simbolo di libertà contro la tirannia. Ma purtroppo aveva tra le sue pieghe delle tirannie che si ammantavano di libertà.

L’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, anch’egli esule come Salvemini e Sturzo, scriveva nel 1938, al momento delle leggi razziali in Italia, che i regimi totalitari -fascismo, nazismo e comunismo- sono accomunati da alcuni elementi distintivi, il partito unico, la divinizzazione del capo, il controllo della cultura nelle università, nel cinema, nella stampa e nella radio, e sostengono la rigenerazione messianica della politica. Nonostante che quelle personalità provenienti da diversi orizzonti politici -socialista democratico, cristiano e radicale- avessero individuato nelle dittature fascista e nazista e nello stalinismo comunista già negli anni Trenta caratteri totalitari simili, l’intellighenzia di sinistra ha continuato nel dopoguerra a ignorare la questione totalitaria come dirimente nel Novecento.

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È nella Resistenza che si divarica anche in Italia la posizione degli antifascisti a guida comunista e degli antifascisti democratici i quali entrano in contrasto con i primi proprio sul totalitarismo. Sconfitto il nazifascismo, il ruolo del nuovo Pci guidato da Togliatti su linee nazionali restava ambiguo sulla questione internazionale delle libertà. Furono gli antifascisti democratici a contestare il legame con Mosca di un Partito comunista che presentava la doppia faccia della linea nazionale democratico-parlamentare, necessaria nell’Europa occidentale di Yalta, e la fedeltà internazionale al totalitarismo sovietico di Stalin.
Il conflitto interno all’antifascismo era già esploso nella guerra civile spagnola quando i comunisti avevano duramente colpito i libertari del Poum secondo le direttive dettate dal Comintern ai commissari politici delle brigate comuniste internazionaliste, tra cui figuravano in prima linea Palmiro Togliatti e Luigi Longo, futuri segretari del Pci. Nel maggio 1937 a Barcellona fu rinvenuto, tra gli altri cadaveri di militanti libertari massacrati nelle fila dei repubblicani, anche quello dell’anarchico italiano Camillo Berneri, il cui assassinio fu subito attribuito ai comunisti benché le prove fossero state occultate, tanto che il leader socialista Pietro Nenni scrisse che Berneri non era morto in guerra “ma è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo”. Quando nel dopoguerra Gaetano Salvemini ricordò l’episodio sul “Mondo”, Togliatti reagì con violenza verbale contro chi ricordava sulle pagine del settimanale le responsabilità dell’agente moscovita: “Non perdoniamo a Salvemini di portare perfino nelle aule universitarie alcune tra le più infami calunnie della libellistica anticomunista… non ha egli trovato il modo di ricordare, dopo Rosselli, ‘assassinato da sicari francesi per mandato italiano’, Camillo Berneri ‘soppresso in Spagna da comunisti nel 1937?’. O quest’uomo le beve veramente tutte le panzane, purché siano di marca americana e anticomunista, o è disonesto”. Nella Resistenza in Italia, lo scontro tra antifascisti già esploso in terra spagnola si ripeteva in maniera sotterranea, fino alla Liberazione e oltre, tanto più che la strategia del Pci si preparava, se necessario, anche a un’ipotesi di alleanza nel post-fascismo con le forze democratiche, innanzitutto con quelle cattoliche, come era stato anticipato da Togliatti nella “svolta di Salerno” in cui aveva abbracciato la collaborazione con la Monarchia. Ma quella temporanea alleanza dei comunisti con i democratici (Dc, Psiup, Pli, Pdl, Pd’A), sancita nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) e nei suoi governi presieduti da Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri, lasciò un segno profondo che dall’intellettualità comunista fu trasformato nel mito dell’antifascismo unitario quale fondamento della Repubblica nata dalla Resistenza.

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La Guerra fredda tra l’Occidente guidato dagli Stati Uniti con le nazioni democratiche dell’Europa occidentale e il blocco sovietico capeggiato dall’Unione Sovietica di Stalin si inasprì tra il 1946 e l’inizio del 1947 con effetti immediati sulla politica italiana. Fu allora che emersero alcuni importanti esponenti politici di tono antitotalitario nel senso che rinverdirono l’impegno antifascista sul terreno dell’anticomunismo. La scelta occidentale si tradusse nel mutamento degli equilibri politici del Cln, con la rottura dell’unità antifascista e il passaggio dall’alleanza tra Dc con Pci e Psi (governi De Gasperi I, II e III) a quella anticomunista del partito cattolico con i vari partiti laici (Psli, Pli, Pri) che sarebbe stata alla base delle elezioni del 18 aprile 1948 e, poi ancora, di quelle del 1953 (governi De Gasperi IV, V, VI e VII). La svolta del 1947 fu preannunciata dal viaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a Washington per riprendere i collegamenti tra il paese sconfitto e la potenza vincitrice, voluti solo da alcune correnti della Dc intorno a De Gasperi, ma da quasi tutti i repubblicani, liberali e socialisti democratici che nell’insieme accentuarono il tono atlantico ed europeista della politica centrista.
De Gasperi, nonostante la diffidenza di Pio XII, fu il perno della scelta occidentale con la ripresa dei rapporti con gli Stati Uniti e con i primi passi verso l’unità europea (Ceca e Ced fallita). L’identità cattolica, condizionata in Italia dalle riserve del Vaticano verso la laicità delle democrazie occidentali, non impedì al presidente del Consiglio non solo di vincere le resistenze neutraliste della sinistra Dc (Giovanni Gronchi, Giuseppe Dossetti), ma anche, e soprattutto, di impedire i tentativi clerico-autoritari dei settori tradizionalisti del suo partito, resi forti dal contributo che Luigi Gedda con i Comitati civici aveva dato al grande successo democristiano del 1948. De Gasperi, che era stato un antifascista moderato, nel ruolo di governo manifestò un anticomunismo altrettanto moderato che lo guidò nell’adesione al Piano Marshall, all’Alleanza atlantica e alle prime istituzioni europee. La sua distanza dall’anticomunismo clerico-integralista si espresse nel consolidamento dell’alleanza con i partiti laici (Psli, Pli e Pri) e nel rifiuto delle direttive vaticane che avrebbero preferito l’alleanza con le destre qualunquiste, monarchiche e neofasciste, pur di contrastare il comunismo come nel caso della cosiddetta “operazione Sturzo” (1952) per il comune di Roma.
Ma il leader cattolico non avrebbe potuto praticare nel centrismo una politica antitotalitaria, se non avesse avuto come sostenitori e alleati i socialisti democratici, i liberali e i repubblicani. Nel gennaio 1947 la scissione dal Psiup di palazzo Barberini di Giuseppe Saragat con la costituzione di un partito socialista democratico (prima Psli poi Psdi) lontano dall’Urss aveva sottratto una parte della sinistra di classe alla sudditanza verso il Pci e il blocco sovietico. Saragat, vicepresidente del Consiglio dal 1948 al ’50, si assunse con Dc, Pli e Pri la responsabilità di fare approdare l’Italia nella Alleanza atlantica, una scelta non condivisa da alcuni settori del suo partito provenienti dall’antica tradizione di “Critica sociale” avversa a ogni alleanza militare, ma in linea con gran parte del socialismo europeo, in particolare con i laburisti britannici guidati dal primo ministro Clement Attlee e dal ministro degli Esteri Ernest Bevin. Un ruolo ancora più importante nello schieramento internazionale e nella politica interna lo ebbe il liberale Luigi Einaudi, già esule in Svizzera, uno dei padri dell’idea della federazione europea. L’economista fu dal 1945 governatore della Banca d’Italia e contemporaneamente ministro dei gabinetti De Gasperi nei quali risultò decisivo per stabilizzare la lira, garantire l’equilibrio economico della fragile Italia post-bellica, e rafforzare l’identità occidentale ed europeista della nazione, fino alla elezione nel maggio 1948 a presidente della Repubblica.
Il carattere antitotalitario dei governi centristi, nonostante le spinte clerico-autoritarie interne al mondo cattolico religioso e politico, fu segnato anche dalla presenza degli esponenti repubblicani che proseguirono nella Repubblica l’impegno antifascista non disgiunto da quello anticomunista. Carlo Sforza, già ministro degli esteri nel 1920 con Giovanni Giolitti, esule negli Stati Uniti ed esponente della Mazzini society fu chiamato a guidare gli Esteri e come tale (insieme all’ambasciatore a New York dal marzo 1945, l’azionista Alberto Tarchiani) promosse e firmò l’Alleanza atlantica e fece compiere all’Italia i primi passi verso l’Europa unita sponsorizzando la Comunità europea del carbone e acciaio (Ceca) e la Comunità europea per la difesa (Ced) che però non arrivò mai a compimento. Con lui un altro repubblicano, Randolfo Pacciardi, combattente antifranchista in Spagna, che dall’esilio americano aveva tentato di promuovere un corpo di spedizione in Italia nella guerra anti-nazista accanto agli Alleati, nel difficile quinquennio 1948-1953 garantì da ministro della Difesa dai possibili tentativi di insurrezione armata degli ex partigiani comunisti e dalla sovversione dell’estrema destra dei reduci della Repubblica di Salò.

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In quei primi anni della democrazia post-bellica l’espansionismo comunista si manifestava anche -se non soprattutto- sul terreno culturale dove esercitava un forte richiamo sugli intellettuali puntando sulla carta del pacifismo anti-atomico e anti-americano. Alla vigilia delle elezioni del 1948, in cui pareva che la radicalizzazione tra il clericalismo anticomunista di Luigi Gedda e l’autoritarismo comunista mascherato da pacifismo filo-sovietico non lasciasse alcuno spiraglio, per iniziativa di Benedetto Croce, il filosofo che nel 1925 aveva promosso il manifesto degli intellettuali antifascisti, fu lanciato nei primi mesi del 1948 un nuovo manifesto Europa, cultura e libertà contrapposto al “Fronte della cultura” filo-comunista, un’iniziativa che deve essere considerata la carta dell’antitotalitarismo in Italia, espressione di quella parte dell’intellettualità liberale, socialista democratica e cattolico anti-integralista che respingeva il richiamo dei frontisti. Era un momento difficile per le posizioni “terze” tra gli opposti fondamentalismi, anche perché alcuni intellettuali ex-azionisti, tra cui Luigi Russo, Nino Valeri e Guido Calogero, Arturo Carlo Jemolo appoggiavano, se pure limitatamente al voto, il Fronte popolare social-comunista con l’illusione di cautelarsi dalla deriva clericale.
Il manifesto di Croce, cofirmato da Gaetano De Sanctis, uno tra i dodici professori universitari che avevano rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, Luigi Einaudi, alla vigilia della presidenza della Repubblica, Ferruccio Parri, capo della Resistenza, Ignazio Silone, socialista umanitario e Pietro Rondoni, cattolico vicino a De Gasperi, era incentrato sul concetto di “libertà” contrapposto agli slogan “pace” e “democrazia” agitati dalla Alleanza della cultura frontista:

È dovere in questo momento di tutti, ma specialmente degli uomini di cultura, non ingannare, più che gli altri, se stessi […]. L’essenza stessa dell’intellettualità è l’affermazione della libertà, perché senza la libertà … alla cultura, vien meno l’aria respirabile, ed essa decade e si spegne; e, peggio ancora, ne occupa il posto una falsa e menzognera intellettualità, quale abbiamo visto campeggiare in uno sciagurato ventennio della vita italiana […]. L’Europa è stata la madre di civiltà al mondo in quanto non è stata altro che l’eroica affermazione dell’umanità come ragione, giustizia e fraternità, l’instancabile sforzo di porre la libera individualità umana non come mezzo, ma come fine. E da tale affermazione è nata la sua grande cultura, filosofia, poesia, arte e scienza, la immensa creazione delle scienze che hanno trasformato la terra. A questa Europa e alla verità che essa rappresenta l’Italia deve mantenersi fedele.

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In risposta all’azione espansiva in Occidente del Cominform, che aveva lanciato a Wroclaw (Slesia polacca) nell’agosto 1948 il Congresso mondiale degli intellettuali per la pace con la presenza di famosi intellettuali, quali Julien Benda e Pablo Picasso, e degli italiani Emilio Sereni, Salvatore Quasimodo, Goffredo Petrassi e Antonio Banfi, era stato costituito a Berlino nel 1950 il Congress for Cultural Freedom, alla cui nascita avevano contribuito gruppi di diversi orizzonti: gli ex comunisti come Arthur Koestler e Ignazio Silone, i resistenti antifascisti antitotalitari tra cui Margarete Buber-Neumann, reduce dai lager nazisti e dai gulag sovietici, intellettuali est-europei scampati ai gulag sovietici tra cui il polacco Jerzy Giedroyc e il cecoslovacco Karel Kupka, e altre personalità quali il filosofo svizzero Denis De Rougemont e l’europeista olandese Henri Brugmans. Tutti gli italiani presenti a Parigi erano oppositori del nazifascismo e del comunismo: Altiero Spinelli, Bonaventura Tecchi, Franco Lombardi, oltre al giovane Enzo Forcella, così come i francesi David Rousset, Jules Romain di “France libre”, e il socialista André Philip della Sfio con sullo sfondo il sostegno di Albert Camus. L’iniziativa sostenuta dagli americani era patrocinata da un autorevole gruppo che contava su Bertrand Russel, Julien Huxley, Léon Blum, Raymond Aron, François Mauriac, Karl Jaspers, John Dewey, Eleanor Roosevelt, John Dos Passos, Jacques Maritain e Benedetto Croce.
L’Associazione italiana per la libertà della cultura (Ailc), il ramo italiano del Congress, fu successivamente costituito dopo Parigi per iniziativa della coppia di eretici Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, i quali, pur collocandosi senza riserve a Occidente, non fiancheggiavano l’integralismo anticomunista di alcuni Cold Warrior americani. L’indirizzo cultural-politico di Silone e Chiaromonte, divergente da quello di Arthur Koestler, aveva come perni alcuni principi: l’indipendenza dai partiti, la separazione delle responsabilità politiche da quelle culturali, la libertà e la drastica opposizione ai totalitarismi e l’opposizione al comunismo per i metodi praticati nei paesi dove era andato al potere. A entrambi gli ispiratori della “Libertà per la cultura italiana” era estranea la logica della ragion di Stato e della ragion di partito, elementi distintivi dell’intellighenzia comunista.
Silone apparteneva all’originario gruppo dei fuoriusciti dal Partito comunista (Angelica Balabanoff, Boris Souvarine, Angelo Tasca, André Gide, Louis Fischer, Arthur Koestler, André Malraux, Paul Nizam) di cui era stato, giovanissimo, un fondatore. Alla fine degli anni Quaranta, Silone aveva abbandonato la politica attiva tra i socialdemocratici per dedicarsi al movimento per la Libertà della Cultura. Non fu motivato soltanto dalla delusione per la litigiosità dei socialisti, ma anche dalla convinzione che nella sua persona non potesse convivere la logica dell’azione politica con quella responsabilità intellettuale che aveva descritto in Uscita di sicurezza. Testimonianze sul comunismo:

La verità è che non ci si libera dal Partito comunista come ci si dimette dal Partito liberale, poiché oltretutto il legame con il partito è in proporzione ai sacrifici che esso costa. E, in più, il Partito comunista, per i suoi militanti, non è solo, né principalmente, un organismo politico, ma scuola, chiesa, caserma, famiglia: è un’istituzione totalitaria nel senso più completo e genuino della parola, e impegna interamente chi vi si sottomette […] Ci si libera dal comunismo, come si guarisce da una nevrosi. Divenuto “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.

Nella Libertà per la Cultura, Silone conservò la piena autonomia dai condizionamenti internazionali anche rispetto agli sponsor americani, Melvin Lasky, che durante la guerra era stato membro del’Oss, e Irving Brown, potente capo del tradizionale sindacato Afl che canalizzavano tramite sindacati e fondazioni i finanziamenti americani. Che la sua scelta anticomunista non fosse ispirata all’integralismo e non avesse nulla da spartire con il maccartismo americano fu evidente nel saggio Habeas animam!:

Nessuno di noi è disposto a regalare ai cannibali e ai loro sostenitori il monopolio del grande ideale umano del socialismo. Come socialista, non credo che nella nostra epoca si possa lottare per una ripetizione pura e semplice della rivoluzione liberale. Il fronte della nostra lotta presenta una vastità imprevista: esso è il fronte della democrazia integrale. Mentre persisteremo a batterci per l’emancipazione dei proletari dal giogo del grande capitale, noi dovremo difendere i nostri paesi e recuperare nei paesi totalitari quelle conquiste politiche e spirituali dei secoli passati che ne sono la premessa, e senza le quali nessun progresso economico e sociale ha un qualsiasi senso.

[…] L’umanità si trova di fronte a un pericolo così grave da giustificare l’incontro e l’intesa di uomini come noi, altrimenti assai distanti sulle questioni politiche e sociali ordinarie. È un nuovo appello alla resistenza che noi lanciamo. Data la natura della minaccia alla quale dobbiamo far fronte [il comunismo], la nostra parola d’ordine deve essere la più universale, la più semplice e nello stesso tempo la più radicale: la rivendicazione del carattere sacro e inalienabile dell’anima umana. Habeas animam: che ogni creatura, chiunque sia, abbia diritto alla propria anima.

Nicola Chiaromonte era consapevole che la civiltà occidentale, pur composta da due diverse realtà, l’europea e l’americana, fosse indissolubilmente legata dalle stesse radici e da un comune destino. Fu questa consapevolezza, affinata nel dialogo con i grandi intellettuali antifascisti del tempo, a convincerlo a impegnarsi nel movimento per la Libertà della cultura: di conserva con il suo amico Albert Camus polemizzò contro l’engagement politico di Jean Paul Sartre ispirandosi sempre ad argomentazioni intellettuali estranee a ogni schema ideologico. Più di tutto si appassionò al tema della responsabilità dell’intellettuale, così centrale nella polemica con gli uomini di cultura vicini al Partito comunista, di cui scrisse per la Libertà della cultura nell’opuscolo Il tempo della malafede:

C’è il comunista militante, persona seria benché intollerabile. C’è poi il comunista dilettante. Una Chiesa, se consistesse solo di preti, cesserebbe presto di esistere: il suo prestigio si misura sull’ascendente che essa ha sui laici, devoti e meno devoti, praticanti e non praticanti, e perfino scettici, purché non empi […].
Il comunista dilettante non è né un finto noncomunista né un aspirante comunista […] Lungi dal sentirsi incerto, egli si sente certissimo, a posto non solo con la politica, ma anche con la logica, con la morale, con la filosofia in genere, senza parlare della Storia. Diventa una specie di totalitario in partibus, e cumula il prestigio dell’uniforme comunista, che egli si rifiuta d’indossare, con i vantaggi dell’abito borghese di cui continua ad andare fiero […]
L’intellettuale dilettante di comunismo è, in sostanza, vittima non tanto delle finzioni e delle manovre comuniste, quanto dell’illusione che l’adesione intellettuale a un sistema che è d’imperio e non di persuasione possa rimanere senza conseguenze per l’intelletto. Ma, una volta ammesso che il migliore modo di pacificare la propria coscienza politica è di partecipare mentalmente dell’universo comunista, l’intellettuale si trova poi subito a partecipare della sicumera morale che il sistema garantisce ai suoi adepti. Dalla sicumera morale all’arroganza intellettuale il passo è brevissimo.
    
Gli intellettuali per la “Libertà della cultura” intervennero in difesa dei diritti individuali e delle libertà culturali: denunciarono la violazione della libertà religiosa e le censure nelle opere d’arte, e diedero vita ad associazioni specifiche per la scuola laica, il cinema e il teatro non partigiani. Soprattutto difesero la libertà di stampa, avanzarono proposte per la revisione dei codici fascisti e combatterono le imposizioni del governo e dell’opposizione comunista in tema di arte e scienza, denunziando la pena di morte e i misfatti degli stati autoritari neri e rossi. Tra i molti opuscoli dell’Ailc si ricordano Uscita di sicurezza di Silone, Il tempo della malafede di Chiaromonte, La libertà che potremmo perdere di Denis De Rougemont, La mentalità totalitaria di Raymond Aron, L’avvenire della cultura di André Malraux, La solitudine dell’artista di Eugenio Montale, L’articolo 104 e la magistratura di Achille Battaglia, e Scienza e partito di Adriano Buzzati Traverso.
Nel 1956 nacque la rivista “Tempo presente” diretta da Chiaromonte e Silone che arricchiva la costellazione dei periodici del movimento internazionale antitotalitario (l’inglese “Encounter”, il francese “Preuves” e il tedesco “Der Monat”…): “Ci preoccuperemo più della verità che delle sue conseguenze. Siamo infatti convinti che la verità, quale che sia, rende liberi e che la libertà mantenuta e difesa è la migliore prova che l’intellettuale possa dare alla sua solidarietà con i propri simili”.

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“Il Mondo”, settimanale di politica, economia e cultura nasceva nei primi mesi del 1949 per iniziativa di Mario Pannunzio (che aveva già diretto il quotidiano “Risorgimento liberale” dal 1943 al 1947) come punto di riferimento nel mondo laico, liberale e democratico, occidentale ed europeo aperto a social-riformisti (Silone, Riccardo Lombardi…) e cattolici (don Sturzo…): Benedetto Croce e Gaetano Salvemini furono gli autorevoli sponsor e collaboratori della testata, che significativamente aveva ripreso quella di Giovanni Amendola nel prefascismo. Quel che interessa qui è che il settimanale deve essere considerato la più accreditata tribuna antitotalitaria d’Italia. In politica interna sostenne criticamente i governi centristi, non abbandonando mai la polemica verso le tentazioni autoritarie e clericali di una parte della Dc. Fu attento a ciò che accadeva nella sinistra marxista, ma non omise mai di vedere nel comunismo italiano e internazionale l’espressione di realtà autoritarie e totalitarie.
Gli antitotalitari democratico-laici avevano difficoltà a collaborare con gli intellettuali del Pci avendo davanti la natura del comunismo sovietico. Quando fu pubblicato il capolavoro di George Orwell, 1984, prese la penna per una recensione-saggio Benedetto Croce, tanto era la rilevanza della critica al totalitarismo. Il filosofo mise in rilievo come lo stato fondato sull’orrore e sull’odio lì descritto non era altro che la rappresentazione dell’Unione sovietica, in cui la conquista del potere da parte dei bolscevichi non era stato un mezzo per un fine ma “un fine per se stesso”, e la dittatura non era stata stabilita per garantire la rivoluzione ma “la rivoluzione era stata fatta per stabilire una dittatura”. Togliatti non si fece scappare l’occasione per attaccare ancora una volta su “Rinascita” Orwell e Croce definendo il libro “una buffonata informe e noiosa, strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anticomunista apparsa in una rivista sedicente liberale”.
La linea editoriale del “Mondo” rimase sempre chiara ed esplicita. Sostenne senza riserve l’Alleanza atlantica, ma non tacque mai gli orrori del maccartismo. Non fu tenero con la destra italiana che allora -negli anni Cinquanta- era all’attacco del centrismo degasperiano sotto la guida dei monarchici di Achille Lauro e dei missini di Giorgio Almirante. Promosse nel 1956 un appello per gli insorti d’Ungheria firmato, tra gli altri, da Federico Chabod, Luigi Salvatorelli, Arturo Carlo Jemolo e Franco Venturi, in cui si chiedeva che gli ungheresi potessero scegliere in piena libertà quelle istituzioni che meglio rispondessero agli ideali democratici. Negli anni Quaranta-Cinquanta non vi fu gruppo politico-culturale più saldamente ancorato all’Occidente democratico del “Mondo” che, non a caso, iniziò le pubblicazioni in coincidenza con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. La scelta occidentale fu ovvia per i politici e gli intellettuali raccolti intorno a Mario Pannunzio in ragione della comune matrice liberaldemocratica. Se prima della guerra gli esponenti di quella tendenza guardavano alle potenze democratiche europee -Francia e Gran Bretagna-, nel dopoguerra essi compresero che gli Stati Uniti erano divenuti la nazione leader dell’Occidente e che occorreva schierarsi, insieme alla lealtà atlantica, a favore di quell’unità dell’Europa che avrebbe dovuto restituire autorità e forza al Vecchio continente. In quell’Italia percorsa da tentazioni clerico-fasciste, la scelta occidentale del “Mondo” non fu soltanto un indirizzo di politica estera, ma rappresentò qualcosa di più: la fiducia dei nuovi liberali per la tradizione ideale sviluppatasi più all’estero che in Italia, ossia per quell’economia liberale e per quelle istituzioni democratiche che avevano resistito alle ondate nazista e comunista. Guardò al mondo anglosassone: “Senza la fede protestante nella libertà -scrisse Ugo La Malfa- e senza la certezza di un mondo sociale più giusto, che i democratici americani e i democratici inglesi hanno avuto, noi avremmo finito la nostra vita sotto il tallone del fascismo o l’avremmo conclusa assaporando la dittatura proletaria”.
Nel guardare all’Europa e all’America, il gruppo del “Mondo” si sentiva parte della koinè democratico-liberale con radici più nella rivoluzione costituzionale americana che non nel giacobinismo francese. Perciò l’attenzione al mondo anglosassone, contrapposto al totalitarismo sovietico e alle tentazioni clerico-fasciste italiane, si accompagnò alla condanna del maccartismo allora dominante in America. In tutta la sua storia, “Il Mondo” osteggiò le correnti fondamentaliste che in America si servivano della “caccia alle streghe” e denunziò i tentativi della destra clericale, militare ed economica che in Italia ne volevano riproporre una versione casalinga. Quando nel 1954 il senatore John McCarthy uscì di scena a Washington, Guido Calogero dagli Stati Uniti commentò che finalmente era finito un “ridicolo anticomunismo”.

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Dopo il ’56 il clima mutò in Italia e all’estero: Giovanni XXIII prese il posto di Pio XII nel 1958, Krusciov annunziò la fine degli esperimenti atomici sovietici, e nel 1961 John F. Kennedy fu eletto presidente degli Stati Uniti. “Il Mondo” divenne la sede per discutere e diffondere lo spirito razionale che in Occidente aveva dato vita al neocapitalismo democratico nel quadro del riformismo liberale che aveva avuto il predecessore nel New Deal di Franklin D. Roosevelt. Se negli Stati Uniti l’elezione del giovane presidente aveva rimesso in movimento la società in cui cominciarono a svilupparsi i movimenti della New Left dedicati ai diritti civili, l’organizzazione comunitaria contro la povertà, e l’internazionalismo nonviolento, anche in Italia si cominciarono a delineare nuovi equilibri nel sistema dei partiti e di governo che avrebbero dovuto portare alla modernizzazione del paese. Proprio a questo obiettivo furono dedicati i “Convegni del ‘Mondo’”, nella seconda metà degli anni Cinquanta, che affrontarono temi di attualità prospettando soluzioni riformatrici che erano state adottate in Inghilterra e in America. L’avvento di Kennedy fu così commentato da Aldo Garosci:

La giusta elezione di Kennedy è stata appunto quella della priorità che deve toccare, proprio per una politica estera più efficiente, a una politica di sviluppo, di investimento, di spese sociali e culturali. L’Occidente ha bisogno di sentire che la più avanzata delle sue società non è solo una società di affluenza, ma una società di giustizia e di lavoro”.

Del kennedismo veniva apprezzato, insieme alla capacità di resistenza al comunismo, l’impulso dato alla democrazia, sicché, quando scoppiò la crisi di Berlino, Vittorio de Caprariis rispose a Guido Piovene che aveva dichiarato di “non volere morire per Berlino”:

Non si tratta soltanto di Berlino, ma di tutto ciò che l’Occidente libero e democratico, bene o male, rappresenta. Berlino è, oggi, l’albero che simboleggia la foresta; e questa volta guardando all’albero guardiamo alla foresta: che non è soltanto la libertà di due milioni e mezzo di berlinesi, ma l’attitudine di alcune centinaia di milioni di uomini a resistere alle provocazioni e alle minacce e a difendere nei modi più opportuni, le loro libertà… Sappiamo benissimo quali siano i difetti e le insufficienze degli attuali regimi democratici… Il fatto è, però, che tutte queste cose si combattono e si vincono non già passando inconsapevolmente dall’altra parte, denunciando i valori liberali e democratici come ambigui e gridando la propria impotente disperazione. Si combattono e si vincono accettando per il loro autentico significato i valori liberali e democratici, intendendo veramente la loro portata e sforzandosi di realizzarli senza cedere alle lusinghe del totalitarismo, da qualsiasi parte vengano.

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Il rapporto conflittuale tra sinistra liberaldemocratica e sinistra comunista rimaneva un nodo irrisolto quando si trattava di difendere i diritti e le libertà civili di un partito ideologicamente autoritario. Nei primi anni Cinquanta, perciò, si aprì sul “Mondo” una discussione sulla possibilità che intellettuali democratici e comunisti potessero collaborare nella difesa dei diritti individuali qualora fossero messi in pericolo. La collaborazione con i comunisti riproponeva ai democratici gli stessi dilemmi che avevano travagliato l’intellettualità europea nella Resistenza e alla ripresa della democrazia nell’Italia liberata. Mentre l’atteggiamento dei democratico-liberali e dei social-riformisti si ispirava per lo più al pragmatismo, i comunisti puntavano sistematicamente a rinsaldare l’unità d’azione giustificata dall’urgenza di affrontare un qualche nemico di tipo fascistoide. Alla base della strategia comunista rimaneva sempre l’idea del Fronte popolare unitario lanciata dal Comintern negli anni Trenta e dal Cominform nel dopoguerra, e messa in atto in Spagna e Francia nel 1936 e in Italia nel 1948.
Un nuovo dibattito si infiammò quando i democristiani, dopo aver votato in Parlamento, con il sostegno del Pci, la legge Scelba contro la rinascita del Partito fascista, estesero l’iniziativa legislativa verso misure restrittive della libertà di stampa puntando sulla “democrazia protetta” di tono anche anticomunista. A Togliatti che chiese il sostegno dei “terzaforzisti”, i più rigorosi antitotalitari con Ernesto Rossi dissero no alla mano tesa del Pci:

I comunisti difendono la libertà di stampa solo perché non ammettono che possa venire abolita dai loro avversari; vogliono abolirla loro. Adoperano le nostre stesse parole: pace, giustizia, libertà, democrazia, soltanto per soddisfare i nostri stupidi pregiudizi piccolo borghesi.

Di diverso parere furono invece gli ex-azionisti Arturo C. Jemolo, che esortò dalle colonne del “Mondo” a non isolare i comunisti proprio per aiutarli a evolversi dal loro dogmatismo, e Piero Calamandrei, che sostenne la necessità di dare loro credito nelle battaglie costituzionali di libertà. La maggior parte degli amici de “Il Mondo”, tuttavia, preferì tenersi lontano dalla protesta del Pci, ribadendo la distinzione ideale che li separava dal mondo comunista. Ignazio Silone non credeva alla buona fede dei comunisti; e Aldo Garosci, memore della guerra di Spagna, scriveva “Quando ci si chiede se conviene a noi … associarci ai comunisti nella difesa della libertà, allora dico no. Anzitutto perché le ragioni della nostra difesa sono tutt’altre che quelle dei comunisti. Essi scendono in campo per la difesa della libertà di stampa essenzialmente per poter continuare a disporre di un’arma di combattimento da usare, in clima di Guerra fredda, per l’indebolimento di un governo che fa parte della coalizione atlantica”.
(continua nel prossimo numero)