Lo scorso 26 ottobre, nell’ambito di 900fest, presso il Salone comunale di Forlì si è tenuto un incontro dal titolo: "Siamo razzisti?”, a cui hanno partecipato Ernesto Galli della Loggia e Alessandro Cavalli, moderati da Wlodek Goldkorn.
 
Goldkorn. Vorrei partire da una domanda. Noi stiamo assistendo al diffondersi in Italia, ma non solo in Italia, di un discorso definito populista, sovranista, nazionalista, che vede male la convivenza di più identità nelle persone e nei gruppi sociali. Questo discorso è spesso inteso, anche da noi giornalisti, come il sintomo di un’ondata razzista che sta montando. Poi ci sono gli episodi quotidianamente descritti dagli stessi giornali a partire da quello successo a Macerata che in qualche modo, l’ha sostenuto Ezio Mauro, ha aperto le porte italiane al razzismo. E però c’è molta confusione rispetto alla definizione del razzismo. Noi abbiamo un grande sociologo come Alessandro Cavalli, e un importante storico come Ernesto Galli della Loggia che conosce bene la storia del Novecento. Allora, la prima domanda per ambedue è: che cos’è il razzismo? 
 
Cavalli. Evidentemente dal­la risposta che si dà a questa domanda la latitudine del concetto varia molto. Per esempio, se si detta una definizione ampia di razzismo, sono razzisti tutti coloro che pensano che le razze esistano dal punto di vista genetico. Credo che se facessimo un’indagine nella popolazione italiana chiedendo: "Ma secondo voi le razze esistono?”, ci sarebbe una grande maggioranza che direbbe di sì. Oggi i genetisti più accreditati sostengono che in realtà, dal punto di vista genetico, le razze non esistono perché esiste una sola razza, che è la razza umana. Ma se si fa la stessa domanda a un sociologo dirà che le razze esistono nella testa della gente, e quindi esistono. Il razzismo, cioè, è qualcosa che esiste nell’ambito delle mentalità. Quindi se mi chiedete se in Italia c’è il razzismo io rispondo: sì, c’è il razzismo come probabilmente in quasi tutte le popolazioni umane. 
Una breve notazione, come dire, etologica: la specie umana è una specie animale e gli animali hanno tutti un senso della territorialità che dipende molto dalla loro capacità di muoversi nello spazio. Rimanendo nell’ambito del mondo volatile, la territorialità degli uccelli migratori è diversa dalla territorialità dei polli. Quindi, essendo gli esseri umani una razza animale, hanno un senso della territorialità che però nel tempo è cambiato: le società che negli ultimi 20.000 anni, grosso modo, sono state fondate sull’agricoltura, hanno un senso della territorialità molto più forte delle società nomadi precedenti; così, probabilmente, il senso della territorialità diminuirà nell’arco dei prossimi secoli per il fatto che oramai ci muoviamo con molta più facilità nello spazio. Ecco, in questo senso, chiunque entra in un territorio definito da confini è considerato, in qualche modo, una minaccia per la tua terra e le tue proprietà, e per le donne, quindi suscita una certa reazione. 
Io definirei così il razzismo e in questo senso ci possono essere delle popolazioni in cui è più elevato e delle popolazioni in cui è più ridotto, delle persone in cui i sentimenti di tipo razzista sono più forti e delle altre in cui il senso è molto debole, ma, al fondo, credo che anche chi ritiene di non essere razzista un poco lo possa essere pure lui, dipende dalle circostanze nelle quali si trova a operare.
 
Galli della Loggia. Io sono abbastanza d’accordo con quello che adesso ci ha detto Alessandro Cavalli. Pensiamo soltanto a una cosa: in tutte le costituzioni dei paesi democratici successive al 1945, tra cui anche quella italiana, si legge il termine "razza”. Proprio nell’articolo in cui si stabilisce l’uguaglianza di tutti gli esseri umani si dice "senza distinzione di razza”. Quindi per quelli che erano la crème de la crème del pensiero democratico europeo nel 1945-’46 le razze esistevano. Figuriamoci se oggi qualunque uomo della strada non può avere quest’idea anche lui. Poi, certo, bisogna vedere quali contenuti ci si mette in questa parola maledetta. Io penso che noi faremmo bene a limitare l’uso del termine razzismo soltanto ai casi in cui si auspica, si favorisce, addirittura si stabilisce, un trattamento disuguale, una diseguaglianza sulla base della propria, presunta o vera appartenenza etnica culturale. Per il resto siamo di fronte a un sentimento di forte appartenenza connaturato alla mentalità dei gruppi umani, ma, forse, non soltanto dei gruppi umani. Anche in una popolazione di topi se tu immetti, almeno così dicono gli etologi, degli individui appartenenti a un tipo diverso di topo, si crea una situazione di conflitto, di rigetto, di aggressività. Non credo sia limitato ai gruppi umani dove ci sono società terriere, agricole. Un allievo importante di Levi-Strauss, Clastres, in un suo libro a proposito dei Guayaki, indiani del Sudamerica che non hanno Stato, non hanno capi e vivono di raccolta e cacciagione in una specie di società anarchica allo stato primordiale, scrive queste quattro righe che vi voglio leggere: "Per ogni gruppo locale tutti gli altri sono stranieri. La figura dello straniero conferma a ogni gruppo la convinzione della propria identità, come un noi autonomo. 
Ciò significa che lo stato di guerra è permanente perché con gli stranieri si può avere solo un rapporto di ostilità che si concretizza o meno in una guerra effettiva”. Questo succede in popolazioni che noi chiamiamo, in modo un po’ razzistico, primitive dove, cioè, non esiste quella superfetazione di strutture statali, ideologiche, tradizionaliste che possiamo pensare favoriscano il sorgere di mentalità identitarie forti. Questo tipo di sentimento di diffidenza, di ostilità, di volontà di differenziarsi, di considerarsi un’altra cosa, ha a che fare molto con quel carattere comune a tutti i gruppi umani che è l’identità; un concetto certo ambiguo, con dei risvolti pericolosi, proprio perché può aprire le porte anche a esiti appunto di tipo razzistico discriminatorio e, però, caratteristico di tutti i gruppi umani e con cui, quindi, bisogna fare i conti.
 
Goldkorn. Un’altra domanda, sempre rispetto al razzismo, è questa: se certamente si può dire che razzista è chi parla delle razze umane, oggi penso che, tranne poche persone un po’ eccentriche, nessuno parli più dell’esistenza delle razze umane, se non altro perché l’ultima conseguenza del razzismo è stato Auschwitz, su cui si è creato un tabù che ancora resiste, sia pure con tutte le critiche che si possono fare al come è stata strutturata la sua memoria. Allora forse si può parlare di razzismo anche quando io penso che un’altra categoria degli umani non abbia gli stessi diritti che ho io. Qui entro direttamente anche nelle questioni politiche e sociali di oggi. Il riaffiorare in molti episodi del razzismo ha a che fare anche con la crescita delle disuguaglianze: può succedere che il penultimo trasferisca la sua aggressività sull’ultimo anziché ribellarsi contro chi lo opprime o contro chi lo sta privando dei diritti che sembrano acquisiti, diritti economici, materiali, la pensione, la crescita del benessere, il futuro suo, il futuro dei figli? La mia diffidenza verso l’ultimissimo può diventare qualcosa che ha a che fare con il sentimento genericamente razzista? 
 
Cavalli. Sicuramente è in atto un processo di questa natura quando si parla di razzismo nel caso degli immigrati, cioè del fenomeno che stiamo vivendo in questa fase storica. Da tutte le ricerche condotte in quasi tutti i paesi che io conosco viene fuori una correlazione molto forte, che statisticamente non troviamo quasi mai così netta, fra l’ostilità verso lo straniero, verso l’immigrato e il basso livello di istruzione. Il livello di istruzione è il predittore più appurato degli atteggiamenti di ostilità nei confronti degli immigrati. Ma attenzione: non pensiamo, come dire, che sia l’istruzione in sé a scongiurare il razzismo, è soltanto che la parte più istruita della popolazione è quella che ha meno probabilità di entrare in competizione con la popolazione immigrata per quanto riguarda l’abitazione, l’istruzione, la scuola, i servizi pubblici e, soprattutto, i servizi sanitari. I figli dei laureati hanno molta più probabilità di non andare in scuole dove ci sono dei bambini immigrati. Operano su una fascia del mercato del lavoro che in genere è protetta dai fenomeni di immigrazione, spesso utilizzano la sanità privata invece della sanità pubblica, vivono in quartieri dove la rendita fondiaria non consente agli immigrati di risiedere. Quindi, come dire, coloro che sono meno ostili sono anche coloro che hanno meno probabilità di entrare in competizione. Prendiamo il mercato del lavoro che è il campo più importante e interessante. In Germania è molto difficile che un immigrato entri in competizione con lavoratori tedeschi per l’occupazione di posti di lavoro perché il mercato del lavoro è quasi saturo, salvo nei länder dell’est; e infatti lì c’è anche maggiore ostilità nei confronti degli immigrati. Ma in paesi come il nostro dove c’è un tasso di disoccupazione molto elevato, pur essendo vero che certi mestieri nessun italiano vorrebbe farli e vengono lasciati agli immigrati, c’è una fascia del mercato del lavoro dove s’è creata una competizione. Poi in Italia c’è una parte nascosta del mercato del lavoro, quello non regolare, dove è molto più facile che gli immigrati trovino delle ragioni di sostentamento. Questa è un’altra delle differenze con la situazione della Germania. Nonostante tutto questo, o proprio in ragione di questo, c’è un dato sul quale vale la pena riflettere: la presenza e anche l’arrivo di immigrati genera allarme. 
Un dato molto interessante sul quale abbiamo anche dei dati comparativi riguarda la differenza tra il numero reale di immigrati presenti sul territorio e quello percepito. Se in Danimarca, per esempio, chiediamo alla gente quanti siano gli immigrati nel loro paese, sbagliano di poco in eccesso. Invece ci sono paesi, tra i quali l’Italia, dove la percezione della presenza di una popolazione immigrata è molto superiore a quella reale. Questo vuol dire che c’è una certa vulnerabilità. Poi è vero che l’allarme può essere anche provocato da quelli che vengono chiamati "imprenditori della paura”. Ma perché gli imprenditori della paura hanno successo? Perché in effetti ci sono delle aree dove c’è competizione e dove c’è competizione spesso c’è anche ostilità.
 
Galli della Loggia. Io tendenzialmente sarei dell’idea che sarebbe bene limitare l’uso del termine razzista ed evitare, ad esempio, di usarlo per definire i comportamenti di cui abbiamo sentito parlare adesso. Innanzitutto perché questo significa fare un grande favore ai razzisti, perché se uno dice che qualunque sentimento di diffidenza, malvolere, nei confronti degli immigrati, è un sentimento razzista, vuol dire regalare automaticamente al campo avversario una forza numerica che probabilmente non ha; in secondo luogo, perché l’uso di questo termine non può che porci in un atteggiamento di contrapposizione perché con un razzista non si può avere che un atteggiamento di scontro frontale, un atteggiamento che non aiuta affatto a chiarire la situazione. 
Il problema è che in Italia c’è una situazione particolare non comparabile con quelle della Danimarca e della Germania. In Italia c’è un insieme di immigrati clandestini che assomma a circa mezzo milione, mentre in Danimarca e in Germania ce ne sono pochissimi. Questo per ragioni geografiche. 
Ora, il sentimento di disagio che l’immigrazione fa sorgere nelle nostre città è dovuto in massima parte alla presenza, appunto, di questa massa di immigrati cosiddetti clandestini che hanno una tendenza ovvia a darsi ad attività illegali, a commettere reati che provocano, soprattutto nelle periferie, un’avversione da parte degli strati sociali disagiati della popolazione di origine italiana. 
Su questo bisogna rendersi conto che c’è una specificità italiana, non riscontrabile altrove. E teniamo poi presente che gli immigrati clandestini noi non riusciremo mai, come sognerebbe Salvini, a rimandarli a casa loro, anche perché in molti casi non sappiamo quale sia casa loro, a volte non sappiamo neanche come si chiamano e, se poi anche scoprissimo qual è casa loro, a casa loro non li rivorrebbero indietro. Questa è una situazione che si è creata negli anni, negli ultimi sei-sette anni soprattutto, che pone il caso italiano in una posizione assolutamente particolare. L’incidenza su certi reati della popolazione immigrata è molto forte in Italia e questo non è un dato allarmistico propalato dai razzisti. Ho qui le statistiche fatte dal sociologo Marzio Barbagli che ha studiato molto bene queste cose: nel 2015 gli stranieri rappresentano il 65% di coloro che hanno commesso reati di borseggio, il 58% per furti negli esercizi commerciali, il 54% per furti in appartamento. Faccio presente che si tratta di poche centinaia di migliaia di persone rispetto a una popolazione di 60 milioni di italiani. È così che si diffonde l’allarme. E, si badi bene, si tratta quasi sempre di reati commessi da immigrati clandestini, perché c’è una parte di immigrati che ha una situazione regolare, lavorano, mettono su famiglia e sono persone onestissime. Siccome, poi, questi reati non vengono commessi nei quartieri bene, ma in quartieri con una certa criticità sociale, ecco spiegato l’allarme. 
Questo è razzismo? Io penso di no. Ovviamente poi è del tutto naturale che ci sia un effetto, come dire, di alone attorno a questi dati, nel senso che una volta che l’opinione pubblica percepisce il dato reale, cioè che certi reati sono commessi in percentuale estremamente più alta dagli immigrati clandestini, comincia a pensare, e a dire, che tutti gli immigrati clandestini sono dei delinquenti. 
È del tutto naturale che le cose funzionino così, non è sintomo di razzismo. Io penso che sia sbagliatissimo, una forma di suicidio anche politico, come dire, alienarsi e regalare al campo razzista un tipo di sentimenti che vanno spiegati e combattuti. 
Certo che ci sono gli imprenditori della paura. Certo che c’è un uso politico, ma i politici fanno un uso politico di tutto. Faccio un esempio: in Italia i femminicidi sono in calo da 4-5 anni e però ogni omicidio di una donna provoca un fortissimo allarme sociale, ci sono tutte le organizzazioni femminili che protestano, la televisione, la radio ne parla moltissimo. Sono imprenditrici della paura le organizzazioni femministe che enfatizzano un femminicidio mentre il numero complessivo dei femminicidi sta calando? Io non credo… 
 
Goldkorn. Ho l’impressione che nel discorso di Galli della Loggia, così come in quello precedente del professor Cavalli, sia sotterraneamente molto presente il tema della percezione. Rispetto al femminicidio, per esempio, è evidente che oggi c’è, per fortuna, molta più sensibilità rispetto a questi temi che non 40 anni fa, e questo soprattutto perché il movimento femminista nel frattempo ha conseguito parecchie conquiste. Così rispetto alla percezione degli immigrati. 
Da quando sto in Italia, quindi da più di 40 anni, abito nel quartiere di Santa Croce a Firenze, che è un quartiere di sottoproletari dove c’era criminalità, quella spicciola, qualcuno che ti entrava in casa, qualcuno che ti entrava in macchina, eccetera, eccetera. Però tutti noi sapevamo chi erano. Ricordo un certo Gino il cui padre stava molto spesso alle Murate, il carcere di Firenze, la madre faceva la prostituta occasionale e i nostri figli andavano a scuola con i figli di Gino. Per cui il tutto era una cosa quasi familiare. Si andava da Gino e gli si diceva: "Senti se ti do 10.000 lire, mi restituisci quell’orologio?”. Oggi noi abbiamo a che fare con persone che non conosciamo. Non è che tutta questa vicenda ha a che fare con la radicale trasformazione del tessuto urbano che l’Italia ha subìto negli ultimi 20-25 anni? 
 
Cavalli. Sicuramente ha ragione Galli della Loggia quando dice che i clandestini costituiscono un vero problema. Tra l’altro sono stime imprecise proprio perché non sappiamo bene quanti siano, si calcola siano grosso modo mezzo milione, il che vuol dire l’1% della popolazione italiana, mentre gli stranieri residenti in Italia sono grosso modo l’8,5%. Significa che per ogni clandestino ci sono almeno sette o otto immigrati non clandestini, però sono soprattutto gli irregolari a costruire l’immagine dello straniero.
Pensiamo che ci sono quattro badanti per ogni clandestino, ma di queste nessuno si accorge, anzi, sono quasi sempre, non sempre, bene accolte. Come mai? È che questo mezzo milione di clandestini ha una caratteristica: sono prevalentemente maschi tra i 20 e i 40 anni e spesso di pelle nera. Badate che il colore della pelle, che i genetisti dicono che non è una caratteristica della razza, è una caratteristica visibile. 
La visibilità dei clandestini è molto più alta della visibilità dell’altro 8,5% di immigrati e questo è un fattore sul quale dobbiamo riflettere, perché mentre non notiamo più una badante ucraina, ma neanche un siriano, un albanese, che, fra l’altro, si sono spesso integrati bene nella nostra società, un ragazzo con la pelle nera invece lo notiamo tutti, soprattutto se è in quella fase in cui staziona per raccogliere l’elemosina davanti ai supermercati. Io sono d’accordissimo che questo senso di disagio, talvolta di ostilità, nei confronti degli stranieri, non sia razzismo e non vada demonizzato.
 
Galli della Loggia. Mi fa piacere che tu sia d’accordo. C’è anche un altro problema da tenere presente: è ovvio che ci sia una valutazione diversa tra chi commette lo stesso reato a seconda di chi è. Se a commettere il reato è un italiano, è come quando in una famiglia c’è un deliquente: è una disgrazia che è capitata, non ci puoi fare nulla. Ma quando il reato viene commesso da una persona che è venuta qui apposta, magari come ha detto una volta l’onorevole Serracchiani, dopo essere stata salvata in mare, e per tutta gratitudine viene a rubare, o a fare altre cosacce, allora è inevitabile che la reazione emotiva e psicologica sia diversa. 
Bisogna accettare l’idea che la gente ragiona con la pancia; l’emotività ha un fortissimo ruolo e questo è inevitabile. Non si può pretendere che le cose non stiano così. 
Ci sono dati che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Un’associazione che si incarica di monitorare il livello di tolleranza razziale nel mondo mette paesi come quelli europei e anche il Canada, non gli Stati Uniti, fra i paesi razzialmente più tolleranti. I paesi per esempio islamici sono ai primi posti nell’intolleranza razziale. Ha fatto grande scalpore qualche settimana fa il fatto che la Tunisia, primo paese arabo nella storia, abbia varato una legislazione antirazzista per proteggere il 15% della popolazione nera tunisina, i non arabi eredi degli schiavi. Perché la schiavitù, cosa di cui dovremmo ricordarci, è stata molto praticata oltre che dai bianchi cristiani anche dagli arabi. Le popolazioni arabe del Nord Africa e dell’Arabia erano quelle che portavano i neri ai porti dell’Atlantico dove i velieri dei bianchi li caricavano. Senza l’attiva collaborazione degli islamici del Nord Africa questo commercio difficilmente si sarebbe potuto fare, perché i negrieri bianchi non si azzardavano a entrare nel continente nero, come si chiamava allora. 
Questo per dire che, dopo tutto, noi siamo le società più tolleranti del pianeta, del che non ce ne dobbiamo fare un vanto più di tanto perché, come dire, non possiamo non essere così, i nostri valori ci obbligano, tra virgolette, a essere così. Però questo significa anche prendere le misure, avere un metro con cui valutare cosa sono gli altri e quindi avere un quadro completo di quello che è il difficilissimo rapporto  tra popolazioni di origine, di cultura, di religioni, di gastronomie perfino, diverse che entrano in contatto tra loro. Il primo sentimento non è quello di mettersi insieme ma di separarsi, di allontanarsi gli uni dagli altri.
 
Goldkorn. Vorrei continuare con una notazione poi con una domanda che sarà interpretata sicuramente come una domanda di destra. La notazione è a te Ernesto: andrei oltre a quello che tu hai detto -e magari il professor Cavalli mi potrà contraddire- ma la storia della migrazione degli ultimi 40-50 anni in Europa è una storia di successo, non è una storia di fallimenti. 
Basta vedere chi sono i sindaci delle città in Europa, non necessariamente in Italia perché qui il fenomeno immigratorio è più recente; chi sono i ministri dei governi, i registi, gli scrittori, i calciatori. Fondamentalmente è una storia di successo. Detto questo, però, quando tu dici che noi siamo molto meglio degli altri, e io la penso come te, mi sarei aspettato da te come storico l’ammissione che siamo così perché abbiamo imparato da Auschwitz, il che ci ha reso incapaci di vincere le guerre coloniali e ci ha costretto a ripensare al nostro rapporto con l’Africa, eccetera, eccetera. 
È solo una notazione così, per dire che questo atteggiamento di cui ci vantiamo giustamente e che dobbiamo difendere con ogni mezzo è molto recente. Ho fatto questa premessa per fare una domanda "di destra”: si ha l’impressione che molto spesso da parte di molte persone di sinistra esista una specie, non dico di razzismo alla rovescia, ma di paternalismo, verso gli immigrati. Pensiamo a quello che è successo anche a San Lorenzo. 
Non ho sentito questa volta le voci di indignazione da parte della sinistra, da parte delle femministe come di solito sento quando una bambina viene violentata e uccisa. E allora mi sto chiedendo, da semplice giornalista, da osservatore, che cosa sia successo: perché noi di sinistra quando abbiamo a che fare con la delinquenza degli immigrati, siamo meno severi, quando si parla delle dittature nei paesi africani, o anche in Cina, siamo indulgenti? È solo per il nostro passato coloniale? E perché restiamo paternalisti quando parliamo degli immigrati, specie degli immigrati dell’Africa? O forse sto sbagliando tutto e anch’io sono razzista? 
 
Cavalli. Io credo che la storia delle immigrazioni debba tener conto intanto di alcuni dati di fondo di tipo demografico. Le grandi migrazioni dall’Europa sono state tutte migrazioni verso aree scarsamente popolate, le Americhe, l’Africa, ce ne sono state pochissime verso l’Asia, perché l’Asia era già densamente popolata da secoli e da millenni. 
Le migrazioni attuali sono nella direzione opposta, da zone densamente popolate verso zone densamente popolate. Quindi non si possono confrontare i due flussi migratori. Va detto, però, che le migrazioni che oggi consideriamo una storia di successo sono avvenute in una fase storica di straordinario sviluppo interno dei paesi europei. Per cui, se pure allora gli immigrati creavano disagio, venivano comunque accolti. In Germania gli italiani erano considerati ospiti da rimandare a casa appena non fossero serviti più, ma poi, invece, in tanti sono rimasti e adesso i loro figli sono perfettamente integrati nella società tedesca. Ecco, io temo che siamo entrati in una fase della storia del mondo in cui le aree avanzate non crescono più con un forte bisogno di manodopera; lo sviluppo del capitalismo mondiale, cioè, ha raggiunto un certo tetto oltre il quale non è possibile andare e quindi assisteremo a dei fenomeni migratori che compenseranno parzialmente il calo demografico delle aree sviluppate, ma non serviranno più ad alimentare quel fenomeno migratorio del passato che oggi diciamo essere stato un grande successo. Pertanto non vedo con grande ottimismo quello che potrà succedere nella fase storica che si apre, perché è molto difficile che la società europea assuma un andamento di crescita paragonabile a quella che c’è stata nei trent’anni seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale e che consentirebbe un’accoglienza con minori disagi. 
Aggiungo però una cosa che ho visto proprio la settimana scorsa in una ricerca  pubblicata su "Il regno”, una prestigiosa rivista dell’Emilia Romagna, in cui si avanza l’ipotesi, sulla base di dati abbastanza consistenti, che in Italia, e anche in Francia, ma soprattutto in Italia, ci sia una correlazione molto significativa tra sfiducia nelle istituzioni e ostilità verso gli stranieri. Questo dato è interessante perché vuol dire che non si crede che le istituzioni siano capaci di gestire in modo ragionevole il fenomeno migratorio e questa sfiducia produce ostilità: se non siamo in grado di gestirli è meglio che se ne stiano a casa loro. Ecco, il vero problema della sinistra è come imparare a gestire a livello europeo in modo ragionevole, e vorrei dire in modo più umano, il problema dei flussi migratori.
 
Galli della Loggia. Mi permetto di osservare che non è solo un problema della sinistra ma un problema di tutti quanti. Anzi, siccome non vedo in futuro molti governi di sinistra in Europa, spero che questo problema sia anche dei governi della destra, e raccolgo l’osservazione che faceva Wlodek sulla crucialità di Auschwitz nella nostra sensibilità particolare e nei confronti del razzismo. Però non è soltanto questo. 
La storia dell’Europa e delle culture occidentali è una storia più lunga, che non nasce dal ’45 ed è una storia ambigua. Non dimentichiamo che gli europei sono la prima popolazione del mondo ad aver abolito la schiavitù. Una schiavitù che c’è ancora oggi in alcuni paesi africani governati da regimi africani. Le culture europee sono state le prime ad aver messo fuori legge la schiavitù e ad aver cercato di combatterla. Un grande paese come gli Stati Uniti d’America si è dilaniato in una guerra spaventosa e 600.000 americani sono morti per abolire la schiavitù. Fino al 1914 è stata la guerra più sanguinosa in cui sono stati impegnati i paesi occidentali. L’idea che tutti gli esseri umani siano uguali, indipendentemente, appunto, dal colore della pelle, è un principio proclamato già nel 1789. Poi, certo, c’è stata tutta una storia piena di contraddizioni, poi c’è stato l’antisemitismo, c’è stato il nazismo, c’è stato Auschwitz. Però non dimentichiamo neanche che da quella stessa civiltà, all’interno della quale è nato Auschwitz, è nato anche chi ha combattuto contro Auschwitz e alla fine ha vinto e non è stato uno scherzo. Non è stata una guerra per nulla. È vero, la tua obiezione è giustissima, non è che la Seconda guerra mondiale è stata combattuta per difendere gli ebrei, per evitare lo sterminio degli ebrei, no assolutamente, però, l’idea che il nazismo era un male da combattere anche perché era un regime che discriminava facendo una cosa come Auschwitz, era una cosa ben presente, di cui è stata presa consapevolezza in ritardo e che alla fine però è diventato un momento decisivo della costruzione della coalizione antitedesca e antinazista. 
Aggiungerei poi, spostando il discorso al problema dell’immigrazione oggi e alle giustissime osservazioni che faceva Alessandro Cavalli sulla differenza fondamentale tra l’immigrazione di ieri e quella di oggi, che c’è un dato fondamentale: oggi l’immigrazione arriva in Europa ed è un’immigrazione che molto spesso (tranne il caso di rifugiati per ragioni politiche), non desidera un’integrazione, non desidera diventare italiana, francese o tedesca. Anche perché ha una possibilità, grazie ai mezzi tecnologici, di mantenere un continuo, quotidiano, capillare contatto con il proprio paese. Un gran numero di immigrati che si vedono in giro ha un cellulare, uno smartphone in mano con cui parla con casa sua. Le antenne paraboliche gli consentono di vedere tutte le sere programmi televisivi del proprio paese. Tutto questo, diciamo così, costruisce una barriera permanente di isolamento e di diversità che è un ostacolo non da poco nei confronti anche dell’immagine che queste persone danno agli abitanti locali, ai nativi. Un’immagine di persone che permanentemente si considerano dei diversi, che non vogliono essere accolte e integrate, ma semplicemente stare lì, però, appunto, in una posizione di separatezza permanente. 
Per gli immigrati italiani andare in America significava essere obbligati a troncare del tutto i rapporti con casa; per qualche anno ancora si riusciva a scrivere delle lettere, delle cartoline, poi più nulla e dopo pochi anni si creava una lontananza assoluta per cui tu eri obbligato a imparare l’inglese, a mandare i figli a scuola, a farli diventare americani e quindi a diventare in qualche modo americano pure tu. 
Per cui questa cantilena retorica che si sente ripetere sul fatto che "anche noi siamo stati immigrati” non ha alcun fondamento di realtà. Noi eravamo in una situazione completamente diversa, che ha favorito l’integrazione.
Poi sposo in pieno l’invito di Alessandro a prendere in considerazione questa correlazione fra sfiducia nelle istituzioni e ostilità verso l’emigrazione. Però parliamoci chiaro su cosa significa "fiducia” nelle istituzioni. Significa che essere convinto che lo Stato, il tuo Stato, se qualcuno ti viene in casa tua e non rispetta le regole, reagirà in modo adeguato e gli insegnerà a rispettarti. Gli italiani, appunto, non hanno avuto questa sicurezza. Appena sbarchi negli Stati Uniti e passi attraverso la dogana di qualunque aeroporto capisci immediatamente che lì non si scherza, che se sgarri come minimo ti arriva subito una manganellata che ti butta a terra e un poliziotto ti ammanetta con le mani dietro la schiena, se non ti spara all’istante. 
Sto paradossalizzando tutto, però non tanto, perché la fiducia nelle istituzioni te la dà un apparato pubblico la cui capacità di reazione all’illegalità è immediata. Il problema è questo. Ci sono 500.000 persone in condizione di illegalità di cui lo stato italiano non sa che fare. 
 
Goldkorn. Un’ultimissima domanda sul filo del ragionamento di Galli della Loggia sul fatto che oggi un immigrato può vedere anche la televisione del proprio paese, eccetera, eccetera, e quindi può non volersi integrare. Però in fondo che c’è di male nel pensare, non dico nel non integrarsi, ma nel pensare di avere identità plurime. Io, lo confesso, molto spesso la sera guardo la televisione polacca grazie alla parabola e non credo che per questo io sia meno integrato in Italia o che impoverisca me stesso. Che cosa c’è di male nell’avere le identità plurime, essere più persone nello stesso tempo? 
 
Galli della Loggia. Non scherziamo, tu non hai un’identità plurima, tu sei una persona nata in Polonia e vissuta in Polonia che poi si è trasferita in Italia, che sa benissimo l’italiano, che lavora in un giornale italiano. Cioè non hai un’identità plurima, hai un’identità italiana con una forte presenza di ascendenza polacca ed ebraica. Qui entriamo nel grande campo della società multiculturale che è meglio mettere da parte perché ci porterebbe lontanissimo. Io penso che le identità plurime sono una ricchezza. 
Come faremmo a dire il contrario noi italiani che siamo un monumento di identità plurime. Tra un calabrese e uno di Sondrio c’è una pluralità di identità, però ci sono anche elementi forti di riunione e sovrapposizione identitaria: parlano la stessa lingua e più o meno le loro famiglie avevano un tempo probabilmente la stessa religione, mangiano la pasta, insomma ci sono fortissimi elementi comuni e, certo, una pluralità di identità. Però bisogna stare attenti in questi discorsi con l’espressione "identità plurime”. 
Chi può essere contro le identità plurime? Soltanto un nazista, insomma. Non esiste paese al mondo in cui ci sia un’identità monolitica. Perché gli inglesi? Ci sono gli scozzesi, gli irlandesi e quelli del Galles.
Tutti i paesi sono nati da identità plurime, tra i bavaresi e i prussiani c’è uno storico disaccordo, sono identità diverse, quasi sensibilità culturali diverse. In Europa non esiste nessun popolo che abbia una sola identità, però ci sono, per ragioni storiche, dei legami molto forti, delle basi comuni molto forti. 
Quindi, appunto, è molto complicato fare questi discorsi. E tornando ad Auschwitz, quale paese più di Israele dovrebbe sentirsi in qualche modo erede del lascito di Auschwitz e praticare al proprio interno una politica di accoglienza? Invece non è così. Non è così per ragioni storiche che ovviamente capiamo,  sappiamo tutti perché le cose si siano lentamente complicate. 
Insomma, l’uso istantaneo, immediato, del termine razzista tende a una semplificazione delle cose che è uno sbaglio, un errore e impedisce di capire.
 
Cavalli. A meno che non si riconosca che ognuno di noi è anche un poco razzista. Perché poi ci sono delle gradazioni: molti sono disposti a vivere in un quartiere dove vivono anche degli immigrati; qualcuno dice nel quartiere purché, però, in un altro edificio; altri dicono anche nello stesso edificio, ma meglio se non nello stesso pianerottolo, e altri ancora dicono in fondo va bene anche nello stesso pianerottolo, però a cena non li inviterei mai. E può pure capitare che in un quartiere remoto della città ci siano molti a cui non dà alcun fastidio. 
Il problema delle identità plurime, lo vedo comunque come un processo lungo, che avrà delle accelerazioni, ma anche delle fasi in cui risulterà parzialmente reversibile, ma il fatto che oggi noi siamo in grado di comunicare in tempo reale con qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra creerà dei cambiamenti enormi anche nelle identità delle persone. Ogni anno, quasi in modo continuo, cresce la quota dei matrimoni misti. 
È un processo lentissimo, però sta andando avanti e io credo che sviluppi di questa natura siano oggi possibili e che gli immigrati e il fenomeno dell’immigrazione, se gestito in modo ragionevole e razionale e umano, può portare a un arricchimento e non a un impoverimento delle nostre culture. Scusate se faccio un riferimento autobiografico: mio nonno era partito con la sua famiglia per il Brasile alla fine del XIX secolo, lui è l’unico che è tornato, dopodiché non ha mai più visto né sua madre né i suoi fratelli perché c’erano tre mesi di navigazione in mezzo. Ecco, adesso si parla con WhatsApp tutti i giorni e a costo zero. 
Questa è una cosa importantissima, è una delle variabili più importanti che cambieranno la natura delle nostre società umane. Si creeranno delle identità dove conviveranno pezzi diversi e questo sarà un arricchimento nella prospettiva di un mondo che riconoscerà di essere più unito di quanto non lo fosse nei millenni precedenti.