Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del “Corriere della Sera”, è autore di numerosi volumi, tra cui Credere, tradire, vivere (2016), Speranze d’Italia (2018), Il tramonto di una nazione (2019) e L’aula vuota (2019).

Si teme un ritorno del nazionalismo, a causa anche del Coronavirus. Secondo alcuni tu ne saresti un sostenitore...
Ma io sono nazionalista, ho scritto un libro, L’identità italiana, per il quale mi sono guadagnato questa fama, e ben prima del Coronavirus. Sono tenace io. Ma mettiamo da parte il Coronavirus. Dunque: io penso che le società democratiche abbiano bisogno di un elemento fondamentale di coesione, come, del resto, tutte le società. Una società si regge su un vincolo sociale; questo vincolo può essere religioso, ma per il più delle volte è un vincolo etnico, cioè un vincolo rappresentato dalla stessa lingua, dalla stessa storia, dalle stesse abitudini gastronomiche, dalla stessa cultura, in senso lato dalla stessa storia. Non riesco a immaginare una società che non abbia vincoli. La stessa parola, società, indica appunto societas, cioè lo stare insieme, e si può stare insieme soltanto se c’è, appunto, un legame che ti unisce. Allora io penso che il legame rappresentato, appunto, dalla lingua, dalla cultura, dalla storia, dalla tradizione religiosa, sia un vincolo fortissimo. Ma pensiamo alle società democratiche. Se per democrazia intendiamo i diritti politici, i diritti elettorali, queste cose sono nate solo e soltanto nell’ambito dello stato nazionale. Quando le masse hanno detto: “Benissimo, siamo tutti italiani, allora dobbiamo avere tutti gli stessi diritti; siamo tutti italiani, figli della stessa nazione, e allora dobbiamo eleggere tutti quanti i nostri rappresentanti, non soltanto gli aristocratici e i ricchi”. Cioè l’elemento della nazione ha in sé uno straordinario elemento di uguaglianza. Storicamente è stato questo. Prova ne sia il fatto che la democrazia è nata soltanto nell’ambito dello stato nazionale. Sì, c’è la Svizzera, ma insomma la Svizzera è l’eccezione che conferma la regola. Anche per una ragione fondamentale, perché se vogliamo organizzare delle elezioni, è necessario che chi si propone come candidato e gli elettori si capiscano, condividano qualcosa. Questo è possibile soltanto se abbiamo delle cose in comune molto forti. Perché l’Europa non riesce a essere un organismo democratico? Perché gli italiani devono eleggere solo gli italiani, i francesi solo i francesi, eccetera, eccetera, dopodiché si riuniscono tutti quanti a Bruxelles, si mettono una cuffia e cominciano a cercare di parlarsi. Ma un italiano potrà mai eleggere un candidato spagnolo o francese o tedesco? No, perché appunto quelli parlano e lui non li capisce. Potranno pure avere programmi politici bellissimi ma c’è la barriera della lingua e non solo della lingua.
Quando tu partecipi di una stessa cultura come accade nell’ambito di una nazione, io capisco chi sei non solo attraverso le parole, attraverso la lingua, ma da mille cose perché ho una confidenza con la gestualità, con il modo di guardare, di parlare, tutte cose che mi trasmettono dei segnali che mi fanno capire chi sei. Ma se non c’è questo terreno comune, la comunicazione, essenziale per lo sviluppo della socialità democratica, diventa impossibile. La democrazia si fonda sulla comunicazione. Ora, sfido chiunque a immaginare una società i cui membri possano comunicare tra di loro senza avere in comune quel retroterra che storicamente solo la nazione dà. Se poi qualcuno mi cita il caso di altre società in cui invece questo legame esiste a prescindere dal retroterra nazionale, beh, io cambierò idea, ma nei pochi libri che ho letto non ho mai trovato un’indicazione diversa.
Verso il concetto di nazione c’è ormai una diffidenza molto forte…
L’ostilità di principio alla nazione nasce da alcuni grandi fraintendimenti storiografici nati nel Novecento, soprattutto. Io adesso mi sto occupando di Andrea Caffi, che è un caso tipico di uno che ha pensato che l’esistenza dello stato nazionale produca inevitabilmente guerre. E come lui tanti altri. Pensiamo al Manifesto di Ventotene.
Ecco, io sostengo che questo non è affatto vero. Le guerre certamente sono prodotte da regimi politici che esistono nell’ambito degli stati nazionali, ma le democrazie non hanno mai fatto la guerra tra di loro.
Quindi quello che è fondamentale ai fini della bellicosità non è l’esistenza di una nazione, ma l’esistenza o meno della democrazia. Nel Novecento le guerre sono scoppiate non per il nazionalismo dei democratici, ma per il nazionalismo degli antidemocratici. L’Austria-Ungheria non era un paese democratico, in Germania il Kaiser non era il capo del partito della democrazia. Allora, quest’idea che il capitalismo e il nazionalismo producano la guerra, è un’idea che ha furoreggiato in tutta la prima metà del Novecento, che però, lo ripeto, secondo me, non ha fondamento. Poi, ovviamente, è vero che dalla nazione nasce il nazionalismo, ma i fatti sociali per loro natura non sono mai del tutto buoni o del tutto cattivi, hanno sempre in sé degli elementi che li espongono a una degenerazione. Non esiste un fatto sociale univocamente buono, univocamente cattivo.
Anche dalla democrazia può nascere il democraticismo, il populismo, il parlamentarismo corrotto, ecc. ecc., e questa sarebbe una buona ragione per essere contro la democrazia? No, naturalmente. Così è per la nazione. Il problema è il regime politico.
Questo agli occhi di uno storico. Io penso che la formazione sociologica di tanti intellettuali li porti a vedere la realtà in modi diversi da quello degli storici. Certo, porta a considerare i fatti, ma nell’ambito di schemi teorici. Gli storici invece sono dei miserabili empiristi, ragionano terra terra insomma, non hanno mai alcuna pretesa di enunciare verità o leggi.
Hai detto che l’idea di nazione genera uguaglianza. La stessa democrazia nasce all’interno dei confini nazionali...
Certo, la democrazia si è stabilita solo negli stati nazionali. Storicamente la nazione è l’unico legame sociale che le masse popolari hanno sentito realmente. Nella polemica contro la Prima guerra mondiale, con i cinque milioni di poveri contadini mandati sotto le armi a combattere, ci si dimentica di riflettere sul fatto che ognuno di quei cinque milioni aveva un fucile in mano! Se non fossero stati abbastanza convinti di quello che stavano facendo, ma ti pare che si sarebbero fatti mandare all’assalto venti volte sul Carso? Avrebbero fatto come in Russia, avrebbero puntato quei fucili verso gli ufficiali!
Lì c’era un consenso di massa perché la nazione voleva dire scuola, educazione, e tanto altro. Dirò di più: ho sempre avuto l’impressione che spesso le classi popolari siao portate a sentire in modo eccessivo il vincolo nazionalista. Cioè, “prima gli italiani” è una cosa che è più facile che attecchisca in un ambiente popolare, non educato politicamente, piuttosto che in un ambiente borghese. I borghesi hanno molte armi per difendersi, il rango, il censo, e poi gli immigrati non sono un certo un problema perché vanno ad abitare nelle periferie. Sono invece gli ambienti popolari a sentire di più il pericolo, la minaccia, l’inquietudine, la concorrenza che  può venire da fuori. Questo è quello che io ho percepito nella mia vita.
Per esempio, mia mamma, che veniva da una famiglia niente affatto benestante, coi genitori che parlavano dialetto, voleva assolutamente che imparassimo benissimo l’italiano e per niente il dialetto…
Ma certo. C’era l’idea che la nazionalizzazione, il processo di nazionalizzazione attraverso la lingua, rappresentasse un elemento di miglioramento sociale. Il che era verissimo, perché se sai solo il dialetto forlivese non puoi leggere nulla di quello che è stato scritto nel mondo. Se vuoi leggere, che sia Marx o Mussolini, devi sapere l’italiano, che è quindi un elemento di emancipazione. Io non ho mai potuto sopportare il Tullio De Mauro che, negli anni Settanta, una fase in cui, per altro, tutti hanno perso la testa, si mise a dire che non era così necessario imparare la grammatica alle scuole elementari. Sarà che ho avuto una nonna maestra che durante le vacanze estive mi imponeva di fare esercizi...
La Prima guerra mondiale è il crocevia di tutto. Il neutralismo socialista fu catastrofico a tuo avviso?
Beh, il neutralismo socialista è stato catastrofico non durante la guerra, quando riuscirono a cambiare la loro posizione, ma dopo la guerra. Lì ci fu un impazzimento incredibile.
Facciamo una parentesi. L’interventismo democratico aveva qualche possibilità?
Il guaio fu che l’interventismo democratico non riuscì a guidare la situazione. Salvemini, Bissolati e gli altri avevano l’idea che l’Italia potesse essere l’avanguardia di un fronte politico che avesse l’obiettivo della liberazione delle nazioni dell’Europa orientale, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia; che la guerra, quindi, potesse diventare una guerra democratica. Ebbero qualche successo perché l’Italia finanziò la costituzione di una legione di irredentisti cecoslovacchi che combatteva nelle file italiane.  In un primo tempo il fronte interventista democratico aveva cercato di stabilire anche legami positivi con gli irredentisti jugoslavi, coi serbi democratici che volevano fare una grande federazione jugoslava con i resti dell’impero ottomano. Soltanto che quel demente di Sonnino aveva fatto un patto di Londra pazzesco, che praticamente ci rendeva automaticamente nemici della Jugoslavia. È vero che il patto era stato fatto quando nessuno poteva immaginare la distruzione dell’Austro-Ungheria, ma pur nella prospettiva di una sopravvivenza dell’Austro-Ungheria Sonnino si era fatto condizionare dagli ammiragli e aveva incominciato a rivendicare un’isoletta sulla costa dalmata, poi un’altra, tutte rivendicazioni che diventavano sciocche e anacronistiche nello scenario di uno sfascio dell’impero, ma soprattutto  oggettivamente anti-jugoslave.
Dicevi dell’impazzimento del dopo…
Sì, il dopo. Credo sia uno dei maggiori casi di accecamento politico capitato nella storia contemporanea! Parlo della linea scelta dai socialisti nel ’18, la linea dell’essere contro la guerra. Che senso aveva? Capisco mentre la fai, capisco se la perdi, ma quando l’hai vinta? Essere contro la guerra che hai vinto mentre i soldati stanno tornando a casa?
Ma sai che alle elezioni del ’19 il non essersi opposti alla guerra pubblicamente era un motivo per essere escluso dalle liste del Partito socialista? Anche alle elezioni comunali del ’20 ci fu questa clausola di sbarramento: se non ti eri opposto in maniera visibile, significativa, alla guerra, eri fuori dalle liste. Gramsci non poté essere eletto al consiglio comunale di Torino perché nel ’14, come è noto, si era espresso a favore della guerra. E poi cosa fai? Cominci ad aggredire quelli che tornano da una guerra vinta! E che tornano ancora armati di fucile mentre tu non hai niente?
Vanno riletti i bellissimi discorsi di Turati e Treves al congresso di Bologna del ’19, che cercavano di spiegare una tale follia, ma lì l’impazzimento era la Russia: “Facciamo come la Russia”.
A un certo punto il ministero della guerra nel ’19 fece una circolare raccomandando agli ufficiali di non uscire in divisa dalle caserme perché la cosa poteva provocare tumulti, agitazioni, scontri. E cosa avranno pensato quegli ufficiali e quei soldati che dopo essersi fatti tre o quattro anni sul Carso, adesso non potevano girare per Milano, per Ancona, perché qualcuno era pronto a dargli del farabutto per aver fatto la guerra? È una cosa assurda. Un suicidio! Non c’è mai stato un caso di suicidio politico maggiore.
Il tutto ovviamente favorì i fascisti...
è ormai abbastanza chiara la dinamica della nascita del fascismo. Io penso che se non ci fosse stata quella scelta demenziale dei socialisti, le cose sarebbero andate diversamente. Ci sarebbe stato probabilmente il fascismo agrario, con uno scontro violentissimo nelle campagne, quello ci sarebbe stato, ma un orientamento massiccio dell’opinione pubblica a favore del fascismo in un paese in cui c’erano le elezioni a suffragio universale, no, non credo ci sarebbe stato.
Per l’avvento del fascismo fu decisiva quella posizione sulla guerra dei socialisti, insieme, certo all’ondata, nel 19-20, di scioperi continui, agitazioni, che gli stessi alimentarono. E non erano cose da poco, perché si assaltavano i negozi per il carovita, eccetera.
Oggi, dopo alcuni libri fondamentali che hanno fatto uno scavo d’archivio, fra cui i tre volumi di Vivarelli, decisivi più di quelli di De Felice, si sa cosa successe.
Nel ’19, di fronte a queste vaste, e insensate, agitazioni socialiste, il Ministero degli interni diramò alla forza pubblica e ai magistrati -allora i tribunali dipendevano strettamente dal governo- una direttiva di moderazione, per cercare di non alimentare ancor più disordini; insomma, di andarci piano con la repressione. Infatti per alcuni mesi l’Italia fu messa a soqquadro ma non ci fu alcun tipo di repressione tipo quella di Bava Beccaris. Non successe pressoché nulla e i socialisti furono padroni assoluti della piazza, padroni di fare quel che volevano, il che, naturalmente, non lasciò indifferente l’opinione pubblica borghese. Quando poi i fascisti passarono all’attacco soprattutto nelle campagne, e non solo, è una leggenda che il Ministero degli interni e i governi liberali abbiano chiuso un occhio e lasciato fare. Assolutamente falso. Il punto è che ci fu una vera e propria sedizione silenziosa da parte degli organi di sicurezza dello Stato e dei tribunali. Il Ministero degli interni, nel ’21-’22, tempestava i carabinieri, la polizia, i tribunali, dicendo di intervenire, di perseguire i fascisti, di disarmarli.
Ci fu proprio una sedizione silenziosa. Bisogna mettersi nell’ottica di un poliziotto, di un carabiniere: “Ma come, nel ’19 con i socialisti dovevamo stare buoni per non fare casino, adesso che questi se la pigliano con i socialisti dobbiamo intervenire per reprimere i fascisti?”.  Diciamo che la cosa ha una sua brutale logica.
Ovviamente non ha una logica politica, perché un conto è il pericolo, del tutto irrealistico, rappresentato dagli scalmanati socialisti (ma è anche vero che sul momento l’allarme lo creavano) un altro conto erano i fascisti che potevano effettivamente andare al potere.
Quindi è stata la Russia il problema…
Sì, il tutto è avvenuto in nome dell’internazionalismo. Ma vien da chiedersi: quale internazionalismo? Dov’era? Ma quando mai c’è stato l’internazionalismo? L’internazionalismo ci può essere soltanto quando si è straordinariamente ricchi e quando si hanno grandi interessi imperiali. Gli Stati Uniti sono stati un paese internazionalista negli anni del dopoguerra. Super internazionalisti. Erano straordinariamente ricchi e avevano straordinari interessi mondiali.
A suo modo è stata internazionalista anche l’Unione Sovietica. Certo, ha aiutato la repubblica spagnola in nome dell’internazionalismo, ma adesso abbiamo i telegrammi tra i comunisti russi che stavano in Spagna e il Comintern, in cui, appunto, viene in chiaro che l’idea era quella di mettere un piede nel Mediterraneo, da sempre un grande sogno della Russia. Quindi dov’è l’internazionalismo? L’internazionalismo è delle persone. Sì, Andrea Caffi era internazionalista, ma lo era personalmente, nel senso che era un cittadino del mondo, si sentiva figlio di varie culture, da quella russa a quella italiana; Chiaromonte, certo. C’è una frase di Gramsci che dice: si può essere cosmopoliti soltanto avendo una patria. Mi è sempre parsa una frase bellissima. Solo se sei italiano poi puoi essere anche cosmopolita. Ma dire che le nazioni non esistono è assurdo. Come si fa a dire: “Io non sono italiano”; Non sei italiano, e cosa sei?
Casomai ci può essere una seconda identità che dipende dalla prima più importante...
Ma questo lo diceva già la buonanima di Giuseppe Mazzini. Che era sicuramente un patriota italiano nazionale e che ha fatto poi la Giovine Europa. Pensava che la libertà degli italiani non fosse assolutamente in contrasto con la libertà degli altri paesi, degli altri popoli.
Non so, come sempre in Italia queste discussioni sono condizionate dal clima politico immediato.
Facciamo un salto nell’attualità. Detto tutto questo, come vedi allora l’Europa?
La vedo come un posto in cui, chiaramente, non possiamo non esserci, ma vorrei appunto che fosse una patria europea a tutti gli effetti, con tutto in comune, il che, però, mi pare impossibile per questo ostacolo della lingua, che mi sembra insuperabile. Cosa facciamo? Ci mettiamo a parlare tutti esperanto? E allora è chiaro che sarà sempre una cosa tra Stati, tra governi.
E un’Europa confederale? La propone la Meloni...
Sì, forse uno stato confederale. Fra parentesi: attenzione alla Meloni, a mio avviso è una lucida intelligenza politica. E non è antipatica. Tra tutti i leader politici italiani è l’unica veramente popolare, perché viene dal popolo, viene dalla Garbatella, infatti parla ancora con accento romanesco. È differente da tutti gli altri: Salvini è un finto popolare; poi chi c’è? Berlusconi? Ma anche quelli di sinistra sono ormai poco “popolari” e i grillini sono dei piccoli borghesi, basta guardare Di Maio…
Ma dicevi dell’Europa…
Diciamo così: nei limiti in cui le cose possono funzionare va bene, ma ho l’impressione che noi, se continueremo a essere quello che siamo, non potremo restare in Europa. Anche nell’Europa così com’è.
Noi ora chiediamo i soldi, e benissimo che ce li diano, ma ho l’impressione che se li useremo come si sta vedendo, a bonus a destra e a manca, alla fine credo che quelli si arrabbieranno e ci cacceranno! A un certo punto, non ti nascondo che ho tifato per Rutte, che insisteva per sapere come questi soldi saranno spesi! Perché, insomma, il passato italiano in merito è catastrofico. Non li abbiamo saputi spendere, non li abbiamo spesi perché non abbiamo fatto in tempo a spenderli, una cosa pazzesca.
Quindi una confederazione? L’unico esempio di confederazione che conosco è quella svizzera. Però gli svizzeri hanno una storia e una posizione geografica particolarissima. Certo, se non c’è altro da fare, si può provare a fare una confederazione. Comunque anche in una confederazione devi mettere alcune cose in comune, per forza, tra cui, certamente, una parte delle finanze, la difesa e la politica estera. È possibile?
Si ha l’impressione che il fatto nazionale pesi moltissimo, e non solo per gli interessi...
Infatti, torniamo allo stato nazionale. All’indomani delle elezioni, alla fine si forma un governo (la sera stessa in certi paesi, casomai dopo qualche settimana da noi) e questo governo magari è all’opposto di quello che tu speravi, magari è composto da tutte persone che tu consideri avversarie, ma alla fine tu dici: “Va beh, però è il governo italiano”.
In qualche modo è come il matto delinquente in famiglia: “Ci è capitato, ma la famiglia non la si può cambiare”. Quando la sinistra, per ribattere alla polemica contro l’arrivo degli immigrati e fra questi anche di un qualche numero di delinquenti, usa l’argomento che ci sono anche i delinquenti italiani, non è convincente perché il buon senso direbbe che proprio perché abbiamo i nostri, non c’è bisogno di aggiungerne altri provenienti da altri paesi del mondo. Allora se tu la sera delle elezioni ti ritrovi con un governo che tu abomini, lo sentirai comunque come il governo italiano, ma se tu la sera delle elezioni ti ritrovi con un governo fatto da un tedesco, due lettoni, un olandese, lo sentirai lo stesso come tuo e sarai pronto a obbedirgli? Infatti credo che nel governo della confederazione svizzera sia prevista la rotazione, perché, appunto, l’appartenenza al ceppo etnico italiano, francese, tedesco o ladino conta.
Non lo so. Mi pare un vasto programma quello dell’Europa. Quello che io trovo insopportabile è il fatto che sia vietato muovere critiche all’Europa, che nel discorso pubblico italiano si sia instaurato questo tabù. “Critichi? Ah, ma allora sei antieuropeista”. Ma queste, insomma, sono piccole miserie italiane.  
Abbiamo intervistato David Miller che sostiene che il welfare, fino ad ora, è sempre rimasto legato ai confini nazionali...
Ma certo. Io  in vita mia ho sempre pagato le tasse fino all’ultimo. Ma l’ho fatto pensando: “Beh, servirà a costruire qualche ospedale”… Sì, tu le tasse le paghi perché senti un vincolo di solidarietà sociale che non puoi sentire con uno svedese. Pensi giustamente che quelle tasse serviranno a migliorare una società dove ci sono dei poverissimi e dei ricchissimi, una società che rischia dei conflitti molto fortii, quindi lo fai anche per la tua qualità della vita. In fondo, la solidarietà ha anche questo aspetto egoistico. Ma tutto si giustifica perché senti un vincolo, perché c’è un vincolo.
Da questo punto di vista il cosmopolitismo è un bell’ideale ma…
Sì, un ideale che forse serve a moderare gli istinti belluini dell’appartenenza. Ma che è privo, a mio giudizio, di qualsiasi capacità di realizzarsi praticamente.
In tutto questo c’è anche un aspetto paradossale perché se, da una parte, il cosmopolitismo resta un ideale irrealizzabile, dall’altro, è diventato la condizione di fatto di un ceto benestante, sia economico che culturale, una specie di aristocrazia internazionale, sempre più lontana dai ceti popolari che restano del tutto legati al loro territorio...
Ma questo dovrebbe, per l’appunto, far pensare i cosmopoliti. Il fatto cioè che soprattutto in paesi come l’Italia si è creato un gruppo sociale, un’élite, che manda i figli a studiare all’estero, che sa l’inglese benissimo, per il quale il mercato del lavoro che sia a Milano o a Londra non fa differenza, e poi ci stanno tutti gli altri. Ma questo è un cosmopolitismo malato perché accentua una differenza sociale terribile ed è una delle cause del populismo. Negli ultimi venti anni la sensibilità popolare ha avvertito che nelle classi alte stava avvenendo questa forma di sostanziale e silenziosa secessione dallo stato nazionale. La riprova sta nel fatto che quella classe sociale, ormai, si disinteressa totalmente del governo del paese, perché tanto sa che le cose importanti le decide l’Europa e questi di Roma devono soltanto obbedire.
Il risultato è che il centro del potere non è più occupato dalle élite sociali del paese, il che ha un effetto di immagine che delegittima lo Stato e l’autorità politica.
La sinistra da tutto questo è uscita sbalestrata completamente…
Non ha capito assolutamente nulla di tutti questi processi sociali. Un po’ perché da un certo punto in avanti è stata vittima del “radical-chicchismo”, è diventata succube dell’ideologia di “Repubblica”. Non so se ti ricordi, quella rivista che fecero Alfonso Berardinelli e Piergiorgio Bellocchio...
“Diario”, certo.
Beh, c’era un magnifico saggio sull’ideologia della “Repubblica” di Scalfari, scritto, se ricordo bene.
Sì, Scalfari è stato quello che ha ucciso la sinistra diventandone il segretario in pectore permanente. Dopodiché ora ha passato le consegne al Papa…
Comunque,  diciamo che la sinistra non è stata assolutamente in grado di seguire e di capire tutti questi processi di trasformazione sociale che stavano accadendo nel paese direi dagli anni Ottanta in poi. E la cosa singolare è che questi processi erano cominciati al tempo di Berlinguer, che personalmente era l’esatto contrario di questo fighettismo radical-chic. Lui aveva quest’austerità pauperista, da classe dirigente vera, veniva da Sassari in cui erano quattro o cinque le famiglie importanti, gente di tutt’altra pasta dei milanesi, di quelli lì che poi mandavano i figli a studiare in Svizzera. E però è stato proprio lui a far sì, con la questione morale,  che “Repubblica” egemonizzasse la sinistra. Lì, con la questione morale la sinistra ha cominciato a porsi al servizio del partito dei radical chic, del partito appunto della fine delle radici nazionali e popolari della sinistra italiana.
Quella del Partito comunista è stata una strana parabola: Togliatti aveva fatto di tutto per radicare in maniera nazional-popolare la tradizione internazionalista di marca sovietica da cui venivano, poi le cose si sono rovesciate in questa nuova forma di snazionalizzazione, questa volta non  internazionalista, ma europeista. Mah... Chissà cosa sarebbe successo se Berlinguer non fosse morto. In fondo è morto giovane. Forse era l’unico che avrebbe potuto mettere l’alt, a un certo punto, a Mani Pulite. L’unico ad avere l’intelligenza e anche, diciamo così, lo standard etico per poter fermare una deriva che lui stesso aveva messo in moto.
Chissà poi come avrebbe gestito la fine del muro di Berlino e il rapporto coi socialisti… Il suo odio per loro era forte…
(a cura di Gianni Saporetti)