Pamela Hudorovich, giovane rom, vive ad Arbizzano e da tre anni lavora in una scuola elementare di Verona come mediatrice culturale.

E poi, visto che mi sono sempre piaciute le cose semplici, mi sono innamorata di un tunisino e l’ho sposato. Avevo appena concluso le magistrali. Ci siamo trasferiti qui, e di lì a poco sono nati Miriam e Michel, che hanno 5 e 3 anni, per cui all’inizio ho dovuto far la mamma a tempo pieno. Quando sono arrivata in questa casa è stata veramente una disperazione: mio marito partiva da casa prestissimo, intorno alle 7 di mattina, e tornava la sera tardi. Era un incubo: tutto il giorno in casa da sola, senza mai uscire, perché non conoscevo nessuno. Il cambiamento è stato decisamente traumatico e io all’inizio non riuscivo ad abituarmi, mi annoiavo. E poi questa casa mi sembrava enorme, mi ci perdevo, ma soprattutto ero impressionata dal fatto che potevano passare mesi senza vedere quella che abitava nel mio stesso pianerottolo. Prima, invece, se avevo voglia di parlare con un’amica, semplicemente uscivo da una porta ed entravo in un’altra, si beveva un caffè insieme, si chiacchierava un po’ e poi me ne tornavo di là, perché al campo la vita è proprio diversa...

Io sono figlia di genitori zingari, entrambi rom, ma di due gruppi diversi. Ho vissuto con loro fino a 5 anni, poi sono sorti dei problemi e sono andata a vivere con la mia madrina di battesimo, Pinuccia. Lei appartiene a una comunità religiosa composta da altre due donne laiche e da un prete, don Francesco, che vive all’interno di un campo di rom dello stesso gruppo di mio padre, e che quindi parlano la mia stessa lingua. Così, io sono cresciuta tra gli zingari, però in questa comunità di gage -"gage" vuol dire "non zingaro". Pinuccia si è fatta aiutare dagli uomini e dalle donne rom a educarmi e a mantenere la mia cultura zingara, e contemporaneamente mi ha fatto conoscere la cultura dei gage, per cui ho imparato l’italiano e sono andata a scuola con gli altri bambini rom del campo. Delle elementari ho un ricordo molto triste: non venivamo assolutamente accettati dagli altri bambini, eravamo gli zingari: sporchi, luridi, puzzolenti... Alle medie è stato anche peggio perché più si diventava grandi, più si capiva. E’ stato veramente brutto. Per cui quando la comunità, la mia famiglia, mi ha praticamente imposto di fare le superiori, io non ne volevo sapere, perché non c’era nessuno dei bambini del campo che continuava: pochi erano arrivati alla terza media. E io volevo essere come loro: non volevo andare a scuola la mattina da sola, e tanto meno trascorrere il pomeriggio da sola in roulotte a studiare mentre gli altri bambini miei amici giocavano fuori. Quindi, all’inizio è stato molto duro da accettare. Già allora mi sentivo scombussolata e disorientata a vivere in mezzo a due culture. Comunque ho frequentato le magistrali e sono arrivata al diploma.

Quando è nata Miriam l’ho coccolata e viziata tantissimo, perché era la mia unica compagnia, dopo poco è nato anche Michel, e da allora ho smesso di annoiarmi, anche perché ho cominciato a lavorare. Adesso ho così tante cose da fare che non ho più il tempo di pensare. Tuttavia, all’inizio per me dover restare sempre chiusa in casa è stato un incubo, perché io non sono una maniaca della pulizia, quindi una volta fatti i mestieri, tutto il resto del giorno cosa fai? Stai lì a lustrare? Ma scherziamo!
Così, ho cominciato a sentirmi oppressa dalla vita domestica, era diventato tutto troppo monotono, e volevo lavorare, volevo uscire. Allora ne ho parlato un po’ con Pinuccia, e poi con Leonardo Piasere, un antropologo che insegnava qui all’università di Verona, che insieme hanno elaborato un progetto di mediazione culturale, proprio su misura per me. L’idea era di sfruttare il mio diploma di maestra insieme alla mia esperienza personale per tentare di aiutare i bambini che, come me, vivevano con disagio e rifiuto l’esperienza scolastica. Ad un certo punto, non so neanch’io bene come, siamo riusciti in quest’impresa. Perché era proprio un’impresa!
Il progetto in concreto consiste nel lavorare in una scuola dove ci sono bambini rom. Abbiamo preferito i rom perché i sinti sono più integrati nella società, hanno meno difficoltà relazionali, inoltre i circensi, i giostrai vengono ogni tanto, stanno un mese, e poi se ne vanno. Invece i rom sono molto più chiusi e la scuola è proprio il primo approccio col mondo per cui non può assolutamente essere un luogo di emargin ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!