Laura Manassero insegna alla Scuola Media Croce-Morelli di Torino.

Vorremmo tornare a parlare del tema dell’autorità, un parola che dopo il 68 è diventata quasi tabù. Non c’è il rischio che quel movimento nato all’insegna di un antiautoritarismo sacrosanto in realtà abbia finito per fare una vera tabula rasa?
Per molto tempo la parola autorità è sparita dalla nostra generazione, si parlava al massimo di autorevolezza, ma tutto ciò che andava anche un pelino più in là era già autoritarismo ed eri rovinato.
Io nel ’68 facevo il ginnasio, quindi ho vissuto solo lateralmente quel periodo. Ricordo però che già alla fine del liceo noi eravamo costernati perché eravamo entrati col grembiule nero e uscendo ci incrociavamo con ragazzine che arrivavano a scuola con gli hot pants, insomma ci fu un attimo di sbandamento perché si percepiva che si era passati, come dire, da un estremo all’altro: sembrava di essere a cavallo di un secolo.
Anche come insegnante ho avuto un’esperienza particolare perché ho iniziato in una scuola ancora estremamente autoritaria rispetto all’università da cui ero uscita, dopo aver resistito eroicamente quattro anni come borsista. Pur piacendomi molto quello che studiavo, antropologia, non avevo nulla a che spartire con quel mondo che era poi lo stesso di oggi, un ambiente fatto di baronie, di scarse competenze, di impiegati tenaci divenuti docenti e di splendide teste buttate al macero.
Così, in qualche modo ho deciso di “declassarmi” perché mi interessava di più un insegnamento che avesse a che fare con il sociale. Ho insegnato prima alle superiori, ma ancora non era il mio ambiente, per poi fermarmi alle medie. Torino in quegli anni era un laboratorio: pedagogie nuove, didattiche nuove, nuovi modi di essere.
Io ho sempre lavorato in barriere, in periferie. L’unica volta che sono andata fuori Torino sono finita in una scuola in cui insegnavo ai ragazzi di un collegio per poveri e quindi ero in barriera lo stesso. Dal ’92 a oggi ho sempre insegnato in scuole con forte presenza di stranieri, per scelta.
La mia ultima classe a prevalenza italiana mi aveva sconcertato e molto deluso: io spero fosse un incidente di percorso, anche se le colleghe mi dicono che il trend è questo. Comunque per la prima volta mi sono trovata in forte difficoltà, non dal punto di vista dell’autorevolezza o se preferisci dell’autorità, perché in realtà loro mi rispettavano, di più: loro andavano molto d’accordo con me, ero io che non andavo d’accordo con loro. Perché i loro modelli di adulto non erano lontani, erano proprio un altro pianeta rispetto ai miei. Io ero abituata a un lavoro in cui l’insegnante era una figura di riferimento importante e in virtù di questo si creava una forte relazione che era alla base dell’apprendimento. Una relazione che era anche affettiva, senza per questo dover abdicare al ruolo di guida, di modello, ma certamente l’elemento affettivo rimaneva alla base. Ecco, nell’ultima classe di studenti italiani che ho avuto mi sentivo più un poster che una persona, non c’erano problemi disciplinari, ma la sensazione era di non incidere mai, di non agganciarli mai veramente. Ho delle colleghe che lavorano in situazioni apparentemente più serene della mia (le scuole con stranieri sono considerate difficili) che però confermano questa condizione: con questi ragazzi hai all’apparenza un bel rapporto, ti seguono, li trascini dove vuoi dal punto di vista culturale, ritieni anche di avere un dialogo, ma poi non ne conosci mai le pieghe profonde, usciti di classe loro possono tranquillamente sdoppiarsi, avere una vera e propria doppia vita. Il ragazzo di Torino che ha fatto il video su YouTube con l’handicappato preso a calci era allievo di una mia amica ed era un ragazzo che di anomalo aveva solo il fatto che sembrava perfetto. Non so se mi spiego.
Ecco, nella mia scuola non ho problemi di questo tipo, perché l’insegnante è ancora un riferimento, e se è credibile, se c’è complicità, automaticamente autorevolezza e autorità viaggiano insieme.
Io poi ho anche molti ragazzi soli, per i quali l’adulto è il surrogato del vuoto che hanno alle spalle. Quello che rilevo è che i ragazzini stranieri hanno un’idea della scuola che collima abbastanza con quella che avevamo noi da piccoli, in cui l’insegnante era l’insegnante, in cui l’adulto è l’adulto. Punto.
Io ricordo ancora adesso quando da bambina, avevo sette anni ed ero ipereducata, un giorno sotto casa venni sgridata da un signo ...[continua]

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