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ler, anche se tutto è avvenuto per la difesa
del tuo paese o di un ideale. Ogni forma di
memoriale, infatti, vale non solo per i so-
pravvissuti, ma anche per l’educazione dei
bambini della generazione successiva. Per-
ché tra i compiti della società c’è anche
quello di costruire monumenti commemora-
tivi per gli eroi.
In Israele, nel giorno della Shoah, che è la
data in cui commemoriamo l’Olocausto, un
minuto prima delle 8 di mattina c’è una si-
rena e ogni cosa, in tutto il paese, si ferma.
Ogni singola persona si ferma e rimane in
silenzio, in ricordo delle vittime. La sensa-
zione di essere tutti assieme è molto poten-
te in quei momenti. Io qui consiglio calda-
mente di istituire qualcosa di simile. So-
prattutto perché qui la gente ha così tante
persone che ancora risultano disperse. Per
quanto riguarda poi i dispersi tuttora in vi-
ta, che casomai non sanno nemmeno che
ora hanno di nuovo una casa, dato che è in
atto questo ritorno, ebbene, io credo che lo-
ro avranno bisogno di un profondo senso di
solidarietà, che è poi ciò che la commemo-
razione mette in atto. Avranno bisogno di
sentire che per questo paese è importante
che ciascuno di loro abbia una casa, un luo-
go dove crescere i figli con dignità. Io sug-
gerisco che il paese scelga questo tipo di ini-
ziative simboliche, affinché la gente non si
senta isolata e sola con le loro ferite aperte.
Ciascuno cerca di dimostrare
di essere più vittima degli altri
Chi dovrebbe chiedere scusa a chi in un
paese in cui vivono assieme vittime e car-
nefici? E in cui il tutto è complicato dal
semplice fatto che questo discorso ha chiare
implicazioni politiche?
Dirò subito che sul piano umano, dopo che
tutte le condizioni menzionate siano state
esaudite, e dopo che la storia di vittimizza-
zione di ogni gruppo sia stata raccontata e
sanata, accadrà semplicemente che la mag-
gior parte della gente si troverà a chiedersi
perdono gli uni con gli altri.
Da questo punto di vista, la lezione più im-
portante l’ho appresa in Sudafrica, dove ho
trascorso molto tempo entrando in contatto
con tutti i gruppi in lotta. Ebbene, ciascun
componente di tutti questi gruppi ha una
triste e drammatica storia di vittimizzazio-
ne, che può risalire a cento, duecento anni
addietro, oppure a ieri. Ma ognuno di questi
gruppi, in una fase, è stato nella posizione
della vittima.
La vera sfida laggiù, ma forse anche qui, è
che ogni gruppo s’impegni innanzitutto a
conoscere adeguatamente la propria storia
-lavoro lungo e complesso- e le proprie feri-
te, per poi tornare tutti assieme. La storia
ci ha ampiamente mostrato che se non com-
piamo questo lento e faticoso processo, con-
tinueremo a ferirci, riproducendo così altre
storie di vittimizzazione, casomai in qual-
che altro modo, in qualche altro luogo. Dal
punto di vista psicanalitico, fin tanto che
uno si sente “vittima” vuol dire che non è an-
cora stato curato e guarito. E fin tanto che
questo non avviene, quella persona non può
tornare a vivere pienamente la propria vita.
È molto interessante, infatti, in questo la-
voro con gruppi diversi, in cui ognuno ha la
propria storia di vittimizzazione, come,
classicamente, ciascuno cerchi di dimostra-
re di essere più vittima degli altri. Tra l’al-
tro c’è un altro effetto collaterale, ossia che
finché non si riconosce e si rispetta la no-
stra esperienza e visione interiore in quan-
to vittime (individualmente o come grup-
po), così da sanarla, si sarà addirittura por-
tati a conservare il trauma, come prova in-
confutabile del proprio statuto di vittima.
Così da alimentare un ciclo di vittimizza-
zione che potenzialmente non ha mai fine.
Anche quella dei serbi, per esempio è una
storia di traumi e sofferenze, in particolare
durante la Seconda guerra mondiale. È co-
me se loro sentissero che la loro storia in
quanto vittime non fosse stata sufficiente-
mente raccontata. Proprio questo invece è
un passaggio necessario per poter passare
all’analisi della loro storia più recente, in
cui il loro ruolo è passato da quello di vitti-
ma a quello di aggressore.
Perché fino a che noi non ascoltiamo e im-
pariamo ogni storia in tutti i suoi dettagli,
cercando di sanare intanto quella che ci ri-
guarda in particolare, e avviando una ri-
chiesta di cooperazione per arrivare a ciò
che alla gente piace definire riconciliazione,
non avremo completato il lavoro. […]
Conciliazione più che ri-conciliazione
In Sudafrica ho avuto conversazioni anche
con Desmond Tutu, che è un altro eroe del-
la riconciliazione. Ebbene, io credo che an-
che per lui non si tratti di ri-conciliazione,
quanto piuttosto di conciliazione. Perché ci
deve essere la costruzione consapevole e vo-
lontaria di una società guarita, sana, quindi
in un certo senso nuova. Vanno impiegare
tutte le energie per adempiere a questo com-
pito. Perché noi stessi abbiamo conoscenza
del nostro trauma, almeno in parte, nel sen-
so che quanto meno siamo consapevoli di ciò
che ancora non conosciamo. […]
In questi anni ho sentito spesso nominare
il “silenzio” dei bosniaci. Tra l’altro, a volte
sono gli stessi bosniaci a lamentarsene, per
esempio i rifugiati nei confronti della popo-
lazione locale dei luoghi in cui si trasferi-
scono, da cui vorrebbero maggiore solida-
rietà e che invece, appunto, non esprimono
compassione. C’è chi parla di un semplice
modo di essere, quasi un’abitudine. Altri
che mettono in allarme rispetto alla possi-
bile strumentalizzazione di questo silenzio
da parte della comunità internazionale per
mantenere i bosniaci in una condizione di
impotenza, e così via. Come interpretare
questo silenzio?
Riprendendo il concetto di “cospirazione di
silenzio”, la mia ferma convinzione è che la
gente parla quando ha qualcuno che ascol-
ta. Non solo: quando chi ascolta crea le con-
dizioni necessarie affinché chi deve parlare
si senta autorizzato a farlo. La vittima allo-
ra non sarà felice solo di parlare, ma di po-
ter “finalmente” parlare. Noi, infatti, non
possiamo immaginare cosa significhi sop-
primere, tenersi dentro un tale bisogno di
parlare così a lungo e così profondamente.
Perciò forse la domanda dovrebbe diventa-
re: ma dov’è la gente che dovrebbe ascolta-
re? Perché le vittime vogliono parlare. Que-
sto veramente non c’è bisogno di chiederlo.
E allora come può la gente non ascoltare?
(Intervento pubblicato su
Una città
n. 83, febbraio 2000)
la mia ferma convinzione
è che la gente parla
quando ha qualcuno che ascolta
La valle di Srebrenica
Ziyah Gafic
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