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nuovo a camminare sulla stessa strada.
Vanno negli stessi negozi, nelle banche, nei
campi che lavorano, viaggiano sugli stessi
autobus. E in questa nuova vita spesso si
devono incontrare. E salutare. Per l’inizio
del dialogo. Nel frattempo devono costruire
e prendersi cura di quello che devono e di
quello che possono. Quello che hanno in co-
mune -la lotta per la sopravvivenza e per
una vita migliore, per strade migliori e per
nuovi posti di lavoro, per un’istruzione mi-
gliore, per un maggiore rispetto dei diritti
di tutti. “Condannati” gli uni agli altri, per
quanto possa suonare male, hanno bisogno
gli uni degli altri.
Parlare di quello che è accaduto è ancora
doloroso. Ascoltare “l’altra” parte è ancora
più doloroso.
Ma senza verità, per quanto essa possa es-
sere brutta, non c’è riconciliazione e buona
convivenza. Ci vuole il dialogo. Vicinanza
del vivere e un passato comune sono buone
premesse perché ciò possa accadere, un
giorno.
Quando la guerra è finita, con il significati-
vo aiuto della comunità internazionale, sia-
mo rimasti divisi. Lungo i confini presenti
all’interno della Bosnia-Erzegovina c’erano
custodi del territorio armati. In questo caos
mi sono chiesta se la guerra avesse vera-
mente fatto in modo che, fino a ieri uniti,
diventassimo completamente diversi. E che
niente più ci legasse.
Raramente abbiamo oltrepassato i confini
che ci hanno imposto. Andare dall’altra
parte era segno di coraggio, perché ci spa-
ventavano con i racconti. Su quegli altri.
Ho pensato: è impossibile che abbiano di-
strutto tutto quello che di buono avevamo,
tutto quello che ci era comune; che abbiano
distrutto la fiducia, la condivisione; che ab-
biano distrutto il ricordo della bellezza delle
nostre tristezze e delle nostre gioie comuni.
Ho scritto un progetto in cui abbiamo “uni-
to” le donne di Tuzla che erano esiliate a
Doboj, Bijeljina, Brcko, con le donne prove-
nienti da quelle stesse città esiliate a Tuzla.
Il progetto è stato realizzato con Human
Rights Office di Tuzla e ha rappresentato il
primo tentativo di unire i fili spezzati della
vita multietnica in Bosnia-Erzegovina.
Non è stato facile. Il risultato di un questio-
nario semplice che ho fatto e che è stato di-
stribuito alle donne è stato per me uno
shock. Da “mai più insieme” a risposte che
erano sulla soglia della pazzia. Non ci sia-
mo lasciati scoraggiare. Sono andata a in-
contrare quelle donne e ho visto la loro pau-
ra. Divise da un approccio diverso da parte
dei “propri”, di “ritorno” non volevano par-
lare. E neanche di convivenza. Però aveva-
no accettato di incontrarsi. I primi incontri
erano tra due gruppi di “straniere”. Ognu-
na dalla propria parte dello spazio che con-
dividevano, strette, senza voglia di dire una
parola.
Quello che ci rendeva felici era che nessuna
aveva rinunciato. Il cambiamento che ha
portato all’unificazione del gruppo è stata
la conversazione sulla perdita di alcuni ri-
cordi cari. Tutte hanno pianto ed è stata la
prima cosa che hanno fatto insieme. Non
abbiamo parlato della perdita di persone
care, perché ciò avrebbe richiesto molto più
tempo di quello che avevamo a disposizione
a causa della durata limitata del progetto.
O forse neanche noi eravamo pronti ad
aprire le ferite più profonde.
Dopo quell’incontro tutto è stato diverso.
Hanno cercato di aiutarsi l’una con l’altra,
di trovare il modo di andare insieme a ve-
dere le case e gli appartamenti dove un
tempo abitavano, di riavere indietro alcune
piccole cose care. Hanno iniziato a parlare.
E a chiedere di persone che un tempo cono-
scevano. Il questionario che abbiamo rifatto
ha avuto un esito completamente diverso,
con molta più speranza e molta più com-
prensione “per quegli altri”, nelle risposte.
Anche per i professionisti è difficile con-
frontarsi con il passato. Con la dottoressa
Yael Danieli, psicologa di New York, diret-
trice del Centro per le vittime dell’Olocau-
sto e i loro figli, ho parlato delle terrificanti
esperienze che ascolto tutti i giorni e di co-
me sia difficile far fronte al male che è stato
fatto. Confidando sul fatto che psichiatri,
psicologi, attivisti dei diritti umani, assi-
stenti sociali hanno maggiore empatia e ca-
pacità per affrontare il passato, abbiamo
deciso di realizzare il progetto
La democra-
zia non può essere costruita con le mani di
chi ha il cuore spezzato
, traendo il titolo da
una frase di un libro di Yael Danieli.
Il primo gruppo preparatorio è stato forma-
to a Tuzla, dove i partecipanti provenivano
dalla Federazione di Bosnia-Erzegovina.
L’altro gruppo si è costituito a Banja Luka
e i partecipanti provenivano dalla Repub-
blica Srpska.
Anche se quello di Tuzla era multietnico, in
nessuno dei due gruppi ci sono stati grossi
problemi. Quando abbiamo cominciato a
pensare al primo gruppo comune sono ini-
ziati subito i primi problemi -dove si sareb-
be tenuto?, perché noi andiamo da “loro”?,
perché non vengono loro da noi?, e cose si-
mili. Il primo di questi incontri comuni si è
tenuto a Banja Luka. Se negli incontri pri-
vati potevamo tranquillamente comunica-
re, scherzare e prendere il caffè insieme,
quando ci siamo trovati di fronte in gruppo
le emozioni sono state troppo forti, sicché
molti hanno dovuto lasciare la sala.
Nei villaggi e nelle piccole comunità vivono
le persone che sanno com’è stato. Ci sarà
bisogno di tempo per dare, sia da una parte
che dall’altra, un nome certo a tutti i carne-
fici. E a chi nei momenti peggiori è rimasto
uomo.
Ci sarà bisogno di tempo per riconoscere le
vittime e perché gli uni possano dire agli al-
tri -e sentirlo- che gli dispiace. Quando ciò
avverrà potranno dire di aver vinto.
Il passato non può e non deve essere di-
menticato. La lezione del passato può esse-
re una bussola che indica quale direzione
prendere, e quale invece non prendere, per
andare avanti. Se di nuovo seppelliamo la
verità, se la giustizia non raggiunge coloro
che hanno compiuto il male, lasceremo la
possibilità che qualcun altro, sulle ferite
mai guarite del passato, uccida altre nuove
Srebrenica. Nel frattempo è necessario ri-
costruire. Insieme.
Sono molti i luoghi in Bosnia-Erzegovina
dove le comunità stanno risorgendo, come
nei casi di Osmace e Brezani. Solo con un
obiettivo preciso, una strategia di sviluppo
e un sostegno della comunità locale e inter-
nazionale, imprese del genere possono di-
ventare un raggio di luce della vittoria del
bene sul male.
un nome certo a tutti i carnefici.
E a chi nei momenti peggiori
è rimasto uomo
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