Quando arrivai nel gennaio 1938 a Sowchos Kotchmess seppi che la vedova di Joffe, l’ex ambasciatore sovietico a Berlino, era lì. Adolphe Joffe era stato un amico intimo di Trotsky e si era suicidato il 16 novembre 1927, poco dopo il decimo anniversario della Rivoluzione e due giorni dopo l’esclusione di Trotsky e Zinov’ev dai ranghi del Partito Bolscevico, pienamente consapevole che Stalin aveva già il potere nelle sue mani e che lo avrebbe utilizzato per distruggere definitivamente tutti i suoi avversari. Mi ricordo di un ricevimento all’ambasciata sovietica di Belino, di Unter den Linden, nel 1920. Adolphe Joffe, un uomo ancora di bella presenza, era al suo secondo matrimonio. La sua prima moglie era già di una bellezza rara, di tipo assolutamente classico. La seconda moglie incarnava la grazia e lo charme.
Ad ogni ricevimento all’ambasciata la giovane e brillante Maria Michailovna conquistava i cuori di tutti. Joffe e la sua giovane moglie formavano veramente quello che si dice una coppia, bella e interessante. Entrambi erano ospiti impareggiabili e questo grazie alla loro capacità di conversazione, al loro savoir-faire e alla loro amabilità. Come avrei fatto ora per trovare Maria Michailovna?
Lo avrei appreso il mattino seguente. Percorrevo la nostra tenda e, nell’oscurità di un passaggio, una donna mi venne incontro, vestita come tutti i prigionieri con dei pantaloni foderati e con un berretto con i paraorecchie. Non c’era molto altro da vedere del viso, ad eccezione degli occhi, ma questi mi fecero dire: "Madame Joffe, è possibile?”. Era lei, e si ricordava di me come "la giovane amica interessante di Madame X”. A quel punto entrambe ci mettemmo a ridere, vedendoci ridotte a quel modo.
Fissammo un appuntamento per il giorno di riposo seguente e Maria Michailovna ebbe, così, l’occasione di precisarmi le circostanze della morte di suo marito. Joffe aveva lasciato un testamento politico indirizzato a Lev Davidovič Trotsky. Il Nkvd si era mosso immediatamente per entrarne in possesso, ma Maria Michailovna ne conosceva comunque il contenuto. Joffe scriveva che si era deciso al suicidio perché la sua vita non aveva più senso. La sua malattia gli impediva di riprendere la lotta attiva, che richiedeva ora una ancor più grande forza. Era convinto che la sua morte sarebbe servita molto di più alla causa leninista di quanto non potesse farlo la sua vita. La sua morte avrebbe potuto contribuire a fermare il partito sulla via di Termidoro. Bisognava considerare il suo suicidio come una protesta contro coloro che avevano degradato il Partito fino al punto in cui quest’ultimo non era più in grado di reagire contro l’esclusione di Trotsky. Maria era stata deportata con suo figlio Volodja prima nel Turkestan, poi a Tomsk per essere più tardi arrestata durante l’estate del 1936. Del figlio aveva ancora ricevuto recentemente delle notizie. Il giovane aveva finito la scuola con il massimo dei voti, era risultato il più bravo, ma non aveva ottenuto l’autorizzazione ad entrare all’università. Più tardi la madre non avrebbe ricevuto più alcuna lettera.
Maria Michailovna Joffe, o Mussia, come io la chiamavo, era una persona estremamente coraggiosa, vivace, con rare doti di cuore e di spirito. Si caratterizzava anche per un cameratismo esemplare. Ella prendeva sempre parte, con compassione, alla sorte del prossimo. Era molto apprezzata sul lavoro. Il capo agronomo la designò come brigadiere per la raccolta di primavera ed ella mantenne, de facto, questa carica anche dopo che una disposizione "dall’altro” vietò di dare ai trotzkisti dei ruoli importanti. Nei rapporti ufficiali di lavoro si designò, de jure, qualcun altro come brigadiere. Come era apprezzata sul lavoro dai suoi superiori, era ugualmente amata dai suoi operai. Tuttavia c’erano, come ovunque, dei codardi. La paura di certe donne era così forte che facevano il giro di tutta la tenda pur di evitare l’angolo dove si trovavano le "vere trotzkiste”. Maria Joffe, Vera Glidermann e Rosa Solnzewa.
Al contrario, io cercavo di incontrare queste trotzkiste tanto disprezzate al bagno mattutino per scambiare qualche ricordo personale o politico e rimasi molto commossa quando, un giorno, Mussia mi fece notare che per me avrebbe potuto essere pericoloso esser vista nella società dei trotzkisti.
Non dimenticherò mai la sera del primo maggio. Dovevamo alzarci per ricevere un "ordine del campo”. Alcuni soldati entrarono e uno di loro lesse il "Prikaz” (ordine ...[continua]

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