Günther Pallaver, sociologo, insegna Scienze Politiche all’Università di Innsbruck; vive a Bronzolo, in provincia di Bolzano.

Che impatto sta avendo la vicenda Haider sulla realtà dell’Alto Adige?
Da un punto di vista della cultura politica, ci sono dei parallelismi molto interessanti. Innanzitutto nel rapporto con il passato; come sottofondo, come humus io vedo infatti delle affinità. In Austria dal ’45 gli austriaci sono stati visti come le vittime del nazismo e questo vittimismo è poi servito anche durante la guerra fredda agli alleati che infatti lo hanno supportato.
Tutto ciò ha portato a un atteggiamento abbastanza superficiale per quanto riguardava le vere vittime e quanto accaduto durante il nazismo; in un certo senso non è stato preso sul serio quello che è successo.
Ecco, se volessimo entrare nella mentalità e nella coscienza collettiva, tale superficialità verso quel passato è presente anche in Alto Adige. Anche il Sud Tirolo infatti si è sempre presentato come vittima: vittima del ’45 per avere la possibilità di ritornare all’Austria e vittima, in un secondo momento, per avere poi la possibilità di questo statuto di autonomia. Dimenticando però che i sudtirolesi non sono stati solo le vittime di due regimi totalitari, nazismo e fascismo, tra cui sarebbero stati stritolati; i sudtirolesi sono stati anche attori in questo gioco. C’è stato infatti un forte movimento nazista in Alto Adige dal ’43 al ’45, e il movimento nazista altoatesino era al potere. Dal ’45 invece è stata alimentata questa menzogna innanzitutto verso se stessi.
Questo oggi, a mio avviso, lo si vede anche da come tutta una serie di politici dell’Alto Adige valutano abbastanza alla leggera l’ascesa al potere dei Freiheitlichen in Austria, perché tutta una serie di cose che Haider ha detto rispetto al nazionalsocialismo, sì l’ha detto, ma insomma gli è sfuggito... Fanno questa differenza tra una cosa che si dice ufficialmente e quella sommersa, legittimando così anche quella negativa, perché l’obiezione è: non avrebbe dovuto dirlo in pubblico.
Ecco, questo è un primo parallelismo tra Austria e Alto Adige ed è molto pericoloso. La reazione della stessa Südtiroler Volkspartei è stata: noi non abbiamo niente a che fare con l’Fpoe, però adesso sdrammatizziamo, lasciamoli lavorare. Questo "lasciamoli lavorare" significa però, appunto, che le parole non vengono prese sul serio, perché non si può limitarsi a dire: vediamo cosa faranno. C’è già tutta una storia dietro l’Fpoe.
Anche nella reazione dell’Austria alla posizione assunta dall’Unione europea c’è questo nodo: per gli austriaci sembra trattarsi solo di parole, per gli atri sono parole e anche fatti.
Tra l’altro, credo che per i paesi propulsori dell’iniziativa, abbia pesato molto proprio l’esperienza storica: gli austriaci non comprendono come mai proprio Francia e Belgio, ad esempio, adesso levano gli scudi. Ma mentre in Austria pretenderebbero di essere stati tutti vittime, veramente in Francia, in Belgio, nei Paesi Bassi, ogni famiglia ha subito delle perdite a causa di quel regime, perciò là è molto più sentito quello che succede; c’è un’altra sensibilità, è come se ci fossero due livelli di percezione.
L’ascesa di Haider riporta in primo piano anche il tema delle autonomie regionali. Da questo punto di vista, l’Alto Adige che tipo di modello rappresenta?
Il modello dell’autonomia dell’Alto Adige viene presentato come modello chiave di come si possono regolare i conflitti etnici. A mio avviso, tale modello in realtà è interessante per quanto riguarda il metodo, per come si è arrivati a una soluzione, non per i contenuti. Il metodo significava e significa la contrattazione e il coinvolgimento di tutte le forze politiche e dei singoli gruppi linguistici. Un sistema in cui per tutte le decisioni riguardanti questioni etniche ci sono apposite commissioni che prevedono appunto che tutti i gruppi linguistici trovino un consenso di fondo. Questo è il modello, la procedura; poi i contenuti sono un’altra cosa.
Dal punto di vista formale, abbiamo poi un trattato internazionale, la legge costituzionale e varie misure e norme che tutelano appunto questi gruppi linguistici.
Va anche detto che negli ultimi vent’anni le élites politiche dei diversi gruppi linguistici si sono via via accordate su una specie di dividendum. Nel frattempo però la società è cambiata: non c’è più questa identità totale tra le élites politiche e la società civile, c’è una forbice che si apre, ...[continua]

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