La "scuola riformata" di Pietroburgo, dove durante nove anni ho goduto di un'infanzia straordinariamente felice, riuniva i figli di famiglie assai distanti l'una dall'altra per rango sociale, nazionalità, confessione, professione, livello di ricchezza (o di povertà). Fra i genitori figuravano proprietari nobili, industriali, bottegai, artigiani, artisti, burocrati, ufficiali dell'esercito imperiale, marinai; fra i compagni di classe ho avuto francesi, svizzeri, inglesi, svedesi, uno spagnolo, buon numero di tedeschi, polacchi, ebrei; oltre ai russi, naturalmente; ma Lunin, che io credevo russo autentico, anzi "popolano" — tale era la madre — l'ho ritrovato in un villaggio del Ticino presso Mendrisio, figlio di quel rustico sindaco, il quale, arricchito come scalpellino, aveva riconosciuto il rampollo che ormai parlava il dialetto locale e mi fece gli onori di una festa parrocchiale, ma con infinito affetto e vivacità rievocò le singolarità della nostra alma mater.
Nella nostra classe, sedevano l'uno accanto all'altro dei baroni baltici spiccatamente feudali e il figlio dell'editore che per primo s'arrischiò a pubblicare un quotidiano democratico (più tardi diretto da Miliukov); uno dei baroni dovevo poi ritrovarlo fra Charkov e Mosca, convinto e solerte funzionario della Ceka; il maggiore dei Bach — così si chiamava la famiglia arditamente democratica — è stato fucilato come sospetto di complotto con i "bianchi". Accanto alla numerosa progenie dei due quasi mi-liardari che detenevano il monopolio del caucciù in Russia c'era Z. (infinitamente più aristocratico nei modi) di cui seppi solo più tardi, quando stringemmo amicizia, che dalla sesta classe in poi dava lezioni per aiutare la madre vedova e la sorella. C'era persine un autentico proletario, B., che conobbi anche lui solo dopo la fine degli studi: essendo io in funzione di propagandista, lo trovai a capo di un nucleo di operai e impiegati di un'azienda di trasporti fluviali ove egli stesso teneva un umilissimo impiego; mi raccontò che aveva avuto una borsa di studio, era un rivoluzionario molto fervido, insistette perché a un Circolo di suoi compagni, ai quali egli aveva già cercato di parlare di filosofia, io spiegassi che cosa pensavano Descartes, Spinoza e Leibniz; e io rabbrividisco all'idea della mia presuntuosa ignoranza di studente del secondo anno di liceo, ma l'atmosfera di quel piccolo gruppo era calda e simpatica in modo indimenticabile.
Orbene, nelle mie peregrinazioni ho incontrato allievi della "scuola riformata" che avevano terminato gli studi dieci anni prima di me, e altri che li compirono dieci anni dopo, ma sempre bastò un primo riconoscimento (spesso anzi per un segno qualsiasi alla presentazione stessa già ci scoprivamo ex-"riformati") perché subito una specie di confidenza e di linguaggio particolare si stabilisse fra noi e ogni diversità di opinioni, di genere d'esistenza eccetera apparisse meno essenziale (ma soprattutto meno preziosa per l'animo) di un certo fondo comune di mentalità, la traccia indelebile di qualcosa per cui non trovo nome migliore che "umanesimo".
Ai tempi della mia giovinezza, era d'uso comune in Russia contrapporre al "governo" da un lato la "società" vessata, sovversiva, sempre impaziente di manifestare la sua critica in parole e anche in atti, dall'altro il "popolo", molto più oppresso, ma passivo, amorfo, e spesso più ostile alla "società" che al governo, e ciò perché lo scandalizzava il nonconformismo della società. Tale terminologia era già generalmente accettata, e senz'altro intesa, ai tempi di Pushkin, e cioè fra il 1820 e il 1830; ma se ne possono trovare cenni abbastanza espliciti verso il 1780, al tempo delle Logge massoniche organizzate da Novikov.
I russi non hanno certo inventato loro questa tripartizione. Nelle Lettres persanes e nelle Pensées di Montesquieu, nella corrispondenza di Voltaire, di D'Alembert e di Diderot è facile trovare come motivo continuo e cosciente un modo identico d ...[continua]
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