Nella sua ultima raccolta di saggi, Un uomo senza patria (2005), Kurt Vonnegut lamentava il fatto che “l’impagabile dono” del blues afroamericano, il prodotto della sofferenza storica di quella comunità, fosse “ormai l’unica ragione per cui molti stranieri ci amano ancora, almeno un po’”.
Nel momento in cui l’era di Bush si dispiegava nel secondo catastrofico mandato, scrisse che almeno le persone potevano ancora “amarci per il nostro jazz”. “E non ci odiano per il nostro ideale di libertà e giustizia per tutti, ora ci odiano per la nostra arroganza”. Con la sua morte quest’anno, a 84 anni, il mondo ha perso un’altra ragione per ammirare il volto espansivo, umano, delll’America. Nel corso di una carriera letteraria lunga mezzo secolo, Kurt Vonnegut ci ha fornito, in forma tragicomica, una diagnosi devastante delle patologie della sua cultura -razzismo, violenza, adorazione del potere del darwinismo sociale e disprezzo per quelli che non ce l’hanno- che resisterà alla prova del tempo.
Ma come per Mark Twain, la sua era una critica radicata in un cuore sofferente e triste perché l’utopia democratica promessa dal Bill of Rights, e per la quale avevano combattuto Lincoln, Eugene Debs, e la stessa generazione di Vonnegut, i veterani della Seconda guerra mondiale, sembrava irrimediabilmente perduta nel ventunesimo secolo.
Vonnegut era nato nella città di Indianapolis, in una compatta comunità tedesco-americana di grande successo, giunta alla quarta generazione. La sua famiglia era già all’interno di un processo di disintegrazione, ripetutamente colpita dalle successive ondate di xenofobia della Prima guerra mondiale, dalle leggi proibizioniste del 1920 (che portarono alla chiusura della birreria della famiglia, che garantiva la metà della sua prosperità) e infine, e più fatalmente, dal crollo del mercato finanziario con la Grande Depressione degli anni ‘30. Il giovane Kurt aveva ben presto aperto gli occhi sulle contraddizioni del mito del self-made man, osservando il panico dei suoi genitori e di molti altri la cui autostima era evaporata insieme al conto in banca e al lavoro. Malgrado questa atmosfera, Vonnegut ebbe la fortuna di crescere in una casa piena di libri, e trovò sollievo nelle commedie che sentiva nei giorni dell’età dell’oro della radio. Abbracciò le idee socialiste di giustizia economica, e imparò lo scetticismo verso le religioni organizzate, le categorie razziali e altre verità “ricevute” dalla sua famiglia liberale. Ricordava di aver assorbito in profondità l’idealismo della religione civica della democrazia americana nelle scuole pubbliche di Indianapolis:
L’America era una nazione idealista e pacifista a quel tempo. In quinta elementare mi avevano insegnato ad essere fiero che il nostro paese avesse un esercito regolare di soli centomila uomini e che i generali non sapessero nulla di quello che avveniva a Washington. Mi si insegnava ad essere fiero di ciò, e ad avere compassione per un’Europa che aveva più di un milione di uomini e di carri armati. Non ho mai dimenticato l’educazione civica che imparai allora. Presi sempre dei gran bei voti.
Dopodiché arrivò la Seconda guerra mondiale. Vonnegut lasciò l’Università di Correl, dove aveva dedicato le proprie energie al giornalismo più che alle lezioni di chimica, per entrare nell’esercito, che lo addestrò come uno scout da ricognizione. Come il Fabrizio di Stendhal, ne La certosa di Parma, Vonnegut era un impacciato e improbabile guerriero, e le sue esperienze in Europa nel 1944-45 erano lontane da qualsiasi fantasia eroica. Come racconterà più tardi, nel suo romanzo più famoso Slaughterhouse-Five Mattatoio n. 5 (1969), conobbe solo sconfitte mentre il suo gruppo di giovani soldati affamati, persi e spaventati veniva catturato nel caos della controffensiva tedesca quell’inverno. Nel racconto, l’alter ego di Vonnegut, l’inesperto e goffo “Billy il Pellegrino” si univa ad un “Mississipi di americani umiliati”, che si trascinavano in una valle gelida alla volta dei carri-merci che avrebbero trasportato i sopravvissuti verso un ignoto destino ad Est. Finì insieme a un centinaio di altri prigionieri in un campo di lavoro a Dresda, tesoro barocco incenerito dai bombardamenti anglo-americani la notte del 13 febbraio 1945, nonostante la completa irrilevanza strategica della città. “Tutti sarebbero dovuti morire” dopo quel massacro, osservava Vonnegut, ma lui e i suoi compagni “Pow” Prisoner of War emersero miracolosamente vivi dalla sicurezza del mattatoio sotterraneo nel quale erano stati rinchiusi. Sopravvissero passivamente alla distruzione, dopodiché lavorarono, sotto sorveglianza armata, nello smaltimento dei cadaveri per le successive surreali settimane.
Inutile dire che queste esperienze lasciarono in Vonnegut una grande amarezza rispetto alla guerra e alla credibilità dei governi (gli americani non avevano sentito, letto e saputo praticamente niente dei bombardamenti di Dresda -scoprì con stupore al suo ritorno). Al tempo in cui era uno scrittore professionista, nei primi anni ‘50, l’umanesimo di Vonnegut ne fece un membro consapevole di quella generazione del 1945, una coorte internazionale di veterani di fanteria che includeva figure come Joseph Heller, Norman Mailer, James Jones e il tedesco Heinrich Boll. Come loro, Vonnegut affascinò quella massa di giovani che si ribellava contro il Vietnam e le altre ingiustizie degli anni ‘60 e ‘70. I suoi lavori satirici come Slaughterhouse-Five, Cat’s Cradle Ghiaccio Nove e Breakfast of the Champions La colazione dei campioni, spesso utilizzavano le tecniche “di presa di distanza” della fantascienza, con viaggi nel tempo, prospettive da altri pianeti e civiltà alternative. Affrontavano in toni tetramente divertenti lo spaesamento della vita moderna e la brutalità della concentrazione del potere. Una sorta di calore brilla nei personaggi che, pur vulnerabili e rovinati, si comportano dignitosamente in circostanze disumane. Nei suoi 14 romanzi c’è un’ilarità farsesca, scherzi sofisticati e un’arguzia selvaggiamente ironica, il tutto con un accento distintamente americano; ma al di là della narrazione e dell’umorismo, i giudizi sono inflessibili e mantengono il loro impatto. Qui, in God Bless You, Mr. Rosewater Dio ti benedica, Mr Rosewater, Vonnegut è un moralista arrabbiato che descrive il capitalismo predatorio del tardo novecento, la cui corruzione conduce direttamente alle ineguaglianze del nostro tempo:
Così un manipolo di cittadini rapaci controllava tutto ciò che era necessario per controllare l’America. Questo fu ciò che un selvaggio e stupido e inappropriato e superfluo sistema di classi aveva creato. Cittadini onesti, pacifici, operosi, venivano bollati come sanguisughe se chiedevano un salario che permettesse loro di campare. E vedevano che gli elogi erano riservati, da quel momento, a coloro che trovavano il modo di farsi pagare somme esorbitanti per commettere reati contro i quali non era stata approvata alcuna legge. Così il sogno americano voltò la pancia in su, diventò verde, venne ballonzolando alla limacciosa superficie della cupidigia più sfrenata, si riempì di gas, scoppiò nel sole di mezzogiorno.
Altrove, Vonnegut concludeva che l’America, con la sua mobilità sradicata e l’individualismo radicale, era un esperimento di “una solitudine incredibilmente risoluta”, per molti dei suoi cittadini, che avevano sostituito ad un genuino contatto umano, alle famiglie estese, e ad altre reti di comunità e di supporto, storie romantiche e rigide ideologie. Questa gente, isolata, insicura, refrattaria ad affrontare la realtà, era pericolosamente aperta al richiamo di affascinanti stranieri, e troppo spesso si rifiugiava in dipendenze di vario tipo: macchine (televisione in primis), alcool e consumismo. “Abbiamo creduto di poter vivere senza famiglia” disse Vonnegut, che tra le altre cose aveva studiato antropologia all’Università di Chicago dopo la guerra: “Beh, non possiamo”.
Gli ultimi romanzi di Vonnegut, sebbene meno conosciuti di quelli degli anni Sessanta, non persero nulla nel loro taglio satirico, nulla dell’accalorata protesta dalla parte della “little person” contro le gigantesche e deumanizzanti forze della storia. In Jailbird Un pezzo da galera, Vonnegut dipinse un divertente ritratto dei crimini politici dell’era Nixon; in Galapagos vide gli esseri umani come un tragico inceppamento nel processo dell’evoluzione, domati dalla tecnologia e da altre ingenuità prodotte da un cervello “troppo grosso”. E in Hocus Pocus (1990) dipinse le sofferenze di un veterano traumatizzato del Vietnam, mandato all’estero da giovane per una missione di “vanagloriosa follia” che ora prova a sopravvivere in un’America del dopo Reagan fatta di tesori pubblici depredati, debito estero, prigioni sature e danni ecologici incontrollati.
In Un uomo senza patria, l’ultima delle sue fatiche, riecheggiando il Twain di un secolo prima, raggiunse il suo apice: “Adesso so che non c’è possibilità che l’America diventi umana e ragionevole” scrisse, “perché il potere ci corrompe e il potere assoluto ci corrompe in maniera assoluta”. Leader come Bush, Cheney e Rumsfeld vengono descritti come “personalità patologiche” gente senza dubbi e senza coscienza che ha preso il controllo del paese con un “colpo di stato stile Mickey Mouse” e che si è spinta oltre disattivando ogni allarme antifurto posto dalla Costituzione”. Nella sconfitta irachena, Bush ha continuato cocciutamente a trattare i soldati americani “come io non sono mai stato, cioè come dei giocattoli ricevuti per Natale da un bambino ricco”. Più in generale, Vonnegut avvertì che le nazioni industrializzate erano diventate dipendenti dai carburanti fossili, nonostante gli irreparabili danni all’atmosfera, agli oceani, al sottosuolo. Sempre controcorrente, ribadì che “i cittadini stanno seduti mentre i nostri leader commettono crimini violenti per ottenere quel poco che si può ancora rimediare”. “La più grande verità che dobbiamo affrontare -cosa che mi renderà infelice per il resto della mia vita- è che alla gente non gliene frega niente se il pianeta va a pezzi oppure no” agonizzava Vonnegut. “Conosco davvero poca gente che sogna un mondo per i propri nipoti”.
Vonnegut è rimasto una voce dissidente e militante (incluso l’impegno con il gruppo di scrittori Pen) fino alla fine della sua vita, ed è rassicurante sapere che il suo lavoro sta conquistando nuovi lettori tra i giovani, a molti dei quali “gliene frega ancora se il pianeta va a pezzi oppure no”. Questi giovani sentono la crisi nella quale viviamo e sono alla ricerca di una guida matura per muovere le cose in una direzione diversa. Il caratteristico radicalismo di Vonnegut, che si può trovare nelle numerose traduzioni dei suoi racconti e in altri scritti ancora in stampa, riflette quello che imparò alla scuola pubblica di Indianapolis negli anni più innocenti e ottimisti della sua giovinezza durante la Depressione. Quelle lezioni “sul comportamento decente in una società incredibilmente indecente”, sui limiti ai governi e sui diritti umani, sugli orrori e la vergogna della guerra, sopravviveranno come una guida per la costruzione dell’etica di una “cittadinanza planetaria” che così urgentemente ha inseguito in tutta la sua vita.
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