“La storia sembra sfuggire totalmente al controllo di coloro che si ritiene siano i suoi artefici”

Così affermava Nicola Chiaromonte nella sua critica delle ideologie messianiche e degli abusi che queste perdonano a chi è in posizione di potere.
Avevo citato queste parole in una lettera inviata a “Una Città” nel marzo 2003, dieci giorni dopo l’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”, convinto, come molti altri americani, che la guerra “preventiva” e di fatto unilaterale di George W. Bush fosse una sventura, un “interventismo eccessivo” sollecitato da ideologi come Cheney, Wolfowitz e Rumsfeld, che correva il rischio di trasformarsi in un altro sanguinoso “pantano” sul tipo del Vietnam.
Ma poi, visto il rapido crollo delle forze di Saddam nelle settimane successive e il simbolico abbattimento delle statue, mi sono chiesto se non fossi stato troppo pessimista, e ho sperato che, nonostante tutti gli argomenti contro questa guerra, nonostante lo spargimento di sangue e le distruzioni avvenute nei giorni del “colpisci e impaurisci”, tutto sommato le cose si sarebbero in qualche modo risolte per il meglio.
Il coreografico atterraggio di Bush sulla portaerei ai primi di maggio, davanti a uno striscione collocato bene in vista che dichiarava “Missione compiuta”, è stata una spudorata messa in scena machista a uso dei fotografi, ma almeno forse il peggio era passato.

Come tutti sanno, il momento euforico della “vittoria” è passato in fretta, e da maggio si sono ricominciati a fare inquietanti paragoni con il Vietnam. E’ diventato sempre più evidente che le giustificazioni per fare la guerra addotte con tanta insistenza da Bush e dal suo partner-in-certezze Tony Blair erano nel migliore dei casi pura illusione, e che nessuna inversione di rotta, nessuna nuova giustificazione avrebbero potuto spiegare l’assenza di armi di distruzione di massa, l’assenza di legami con Al Qaeda, e altri imbarazzanti buchi in questa storia.
Il “vuoto di credibilità” si è progressivamente allargato, a mano a mano che i rapporti dell’amministrazione sui presunti “progressi” vengono quotidianamente smentiti dalla brutale realtà della guerriglia. Solo a novembre, in Iraq, sono morti più di 70 americani, si sono moltiplicati attentati e imboscate e numerosi elicotteri sono stati abbattuti; i soldati Usa, esausti, sotto pressione, intrappolati, si trovano ora asserragliati nelle loro caserme e isolati da una popolazione rivelatasi ostile alla loro presenza, in un luogo di cui poco capiscono la storia locale, il linguaggio, la religione e la cultura. E’ difficile distinguere i buoni dai cattivi, per usare il linguaggio del “bianco o nero” tanto caro a Bush.
A parte la Gran Bretagna, è stato anche difficile ottenere un aiuto internazionale che fosse più che simbolico, dati i crescenti costi dell’occupazione, dovuti sia all’arrogante unilateralismo della Casa Bianca sia al fatto che chi offre aiuto si espone a gravi rischi in Iraq -come l’Italia ha così dolorosamente dovuto imparare. E infine, a questo punto sembra non esserci alcuna reale “strategia d’uscita” per le forze americane in Iraq, né tantomeno una “luce alla fine del tunnel”. Come il segretario Rumsfeld ha recentemente confessato, sarà “un’impresa lunga e faticosa”, che si protrarrà indefinitamente -e che continuerà a sottrarre preziose energie agli altri fronti della “Guerra al terrore” che tutti concordano vada combattuta.
La visita a sorpresa del presidente per servire il tacchino del Ringraziamento alle truppe in Iraq è forse stata un’ottima occasione per fare belle fotografie, utili per il portfolio della sua rielezione, ma non è certo servita a modificare uno scenario fondamentalmente cupo.

Negli Stati Uniti ci sono aspre divisioni nell’opinione pubblica su come giudicare la situazione; gli europei dovrebbero essere rassicurati sul fatto che, nonostante ciò che riportano i mezzi di comunicazione dominanti, gli americani non sono monolitici. Moltissima gente qui si sente offesa o almeno confusa, e molti non vogliono farsi intimidire dalle accuse di ingenuità, di mancanza di patriottismo e anche di “tradimento contro lo stato” (da parte di alcuni dei più sprezzanti apologeti dell’amministrazione), e dichiarano la loro disapprovazione della strategia di Bush.
Resta da vedere che ruolo avrà l’Iraq nella prossima campagna elettorale, ma ad un’amministrazione che mostra scarsa volontà di riconsiderare le proprie posizioni e di imparare dai propri errori dovrà ...[continua]

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