Aris Accornero è docente di Sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma ed è membro della Commissione di garanzia sui servizi pubblici.

Cosa ne pensa del recente Rapporto della Banca d’Italia nel quale viene denunciata la difficoltà delle aziende del Nord, in particolare del Nord-Est, a trovare manodopera qualificata?
Ero a Treviso quando il rapporto è uscito, quindi ho potuto verificare sul campo le reazioni. Il problema, mi sembra, non è tanto quello di specifiche professionalità, quanto di comuni professionalità operaie. Quindi le lagnanze degli imprenditori riguardano l’aspetto medio-basso del livello qualitativo della forza lavoro. Per quanto riguarda il Sud il problema è legato alla disponibilità alla mobilità. Quindi sono realtà diverse che però riconducono ad un problema unico.
Per il Nord comunque si tratta della mancanza di operai qualificati come tempo fa; questo comporta un’offerta bassa di fronte a una domanda di qualità alta. Questo ci pone automaticamente un ulteriore quesito: quanta gente è ancora disposta a fare l’operaio? Perché alla radice di tutto è questo il problema, cioè l’evoluzione, il mutamento della struttura sociale, della rappresentazione sociale, delle professioni che tende ormai a penalizzare la figura, l’identità dell’operaio sia come individuo che come classe. Da qui si capisce che la soluzione del probIema è difficile, non è certo per l’oggi, ecco allora che gli industriali di Treviso, per fare un esempio, si rivolgono al mercato del lavoro sloveno o croato, a dimostrazione che non hanno bisogno di lavoratori così qualificati come si dice. In realtà, come dicevo, il lavoro in fabbrica non attira più, c’è un impallidimento dell’identità operaia: non è una scelta preferibile neanche in zone come Pordenone o Vicenza dove la presenza operaia è in crescita grazie a un processo d’industrializzazione recente e dove la terziarizzazione non si è fatta ancora sentire.
Se non ci sono alternative si manda il figlio in fabbrica, altrimenti qualunque cosa va meglio. Su questa dinamica hanno nuociuto teorie post-industriali , annunci della morte della classe operaia, insomma un po’ di paccottiglia intellettuale ...
In una recente intervista, De Rita ha affermato che, secondo lui, il divario Nord-Sud non si è allargato, anzi la differenza si è attenuata. E’ d’accordo?
Completamente d’accordo. De Rita in quell’intervista all’Unità e ancora prima su La Stampa, ha affermato che il divario non è aumentato, anche se sotto l’influsso della crisi c’è stato un peggioramento, ma in ogni caso il dato è stabile anzi prima della crisi si stava riducendo.
Inoltre mette giustamente in evidenza come di fronte ad un Nord che viaggia a livelli “tedeschi”, il Sud si sia in qualche modo inserito in questa scia. Condivido inoltre quando afferma che questo paese non è così pieno di scandali come si vorrebbe far credere. La stessa vicenda degli invalidi deve essere messa nella giusta prospettiva: gli invalidi sono stati una pratica sociale di governo per 20 anni. Esiste una norma dell’Inps che stabilisce che la pensione di invalidità non deve essere collegata al lavoro, ma al reddito. Quindi non c’è da stupirsi che ci siano così tanti casi, molti dei quali illegali, verso cui la comunità riconosceva che, non avendo possibilità economiche, a prescindere dalla capacità lavorativa o meno, era bene concedere quella pensione. Molte di queste pensioni hanno tutti i crismi, sarebbero criticabili dal punto di vista della produttività, della razionalità delle scelte, ma in realtà si esagera.
Lasciamo per un momento da parte l’attualità, che caratteristiche ha avuto storicamente la disoccupazione in Italia?
Rispetto agli altri paesi europei, i dati dicono che persino in questi ultimi anni di crisi, la disoccupazione, in senso stretto, è stata minore. La caratteristica della situazione italiana è che coloro che perdono il lavoro rappresentano una quota sistematicamente più bassa, a volte molto più bassa del dato europeo. Ciò dipende dal fatto che noi consideriamo disoccupate anche persone che non si trovano in condizioni professionali: questo aggiunge 600.000 unità. Non dico che sbagliamo a contarli, facciamo male a chiamarli disoccupati, perché non hanno perso un lavoro.
Poi abbiamo una quota d’inoccupazione giovanile, cioè persone che “viaggiano” da un lavoretto all’altro e magari continuano a studiare, in attesa di un lavoro serio.
Questi in Italia sono molti, sono in gran parte ...[continua]

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