Aris Accornero è docente di Sociologia industriale all’Università La Sapienza di Roma. Recentemente ha pubblicato L’ultimo tabù, Editori Laterza, 1999.

Partiamo da quello che, come recita il titolo del suo libro-intervista, è argomento ancora tabù in Italia: le norme che regolano il licenziamento. Ora c’è anche un referendum che riguarda l’obbligo al reintegro sul posto di lavoro per chi viene licenziato senza giusta causa. Le sue posizioni, possibiliste, se possiamo dire, hanno suscitato scalpore. Può spiegare?
Io parto da una mera constatazione: le politiche del lavoro recenti hanno reso possibile l’ingresso al lavoro in Italia su modalità molto più articolate e complesse di quanto non fosse anche solo 15 anni fa; si può entrare al lavoro attraverso rapporti di impiego che per tutela, durata, modalità, sono fra loro assai diversi; invece i modi di uscire sono poco cambiati. I modi di uscire collettivamente dopo il provvedimento sulla cosiddetta mobilità "lunga" sono rimasti gli stessi. Soprattutto nel campo dell’uscita individuale dal lavoro, del licenziamento individuale, noi abbiamo norme che sono ferme da tempo. E questa discrasia si nota, anche sotto un profilo statistico: secondo l’Istat nel campo dell’uscita individuale sono più numerose le dimissioni che i licenziamenti, mentre dovrebbero essere più o meno alla pari. Questo avviene per il fatto che parecchi licenziamenti si risolvono concordemente con una buonuscita che, formalmente, è una dimissione. Ma anche questa è una spia del fatto che qualcosa va rivisto: non c’è nulla di male se l’imprenditore paga volontariamente qualcosa per ottenere un licenziamento di fatto, senza farla lunga, però questo non è così giusto perché l’imprenditore non paga a tutti la stessa somma e a taluni non la vuole pagare. Quindi come procedimento snellisce, è un procedimento comodo, ma non sempre è giusto. Però è una spia il fatto che le dimissioni superino i licenziamenti individuali. Questo significa che in effetti per l’imprenditore liberarsi, diciamo pure così, di un dipendente non è tanto facile. Poi ci sono gli elementi simbolici, etici, che richiamavo nel libro; come si dice, dispiace sempre licenziare qualcuno se non si ha una valida ragione, un giustificato motivo, una giusta causa, e non sempre ci sono. Le stesse cause di natura economico-produttiva, che nella normativa francese sono nitide e costituiscono motivazione sufficiente, in Italia sono meno chiare. In Italia si allude a "cambiamenti organizzativi", in assenza dei quali è meno facile per l’imprenditore sostenere un bisogno di licenziare qualcuno.
Quindi ci sono vari elementi che fanno pensare che le norme relative all’uscita siano meno ricche, meno aggiornate, meno articolate delle norme relative all’ingresso e questo crea indubbiamente un problema.
L’altro aspetto della questione è quello sollevato anche con il referendum, che riguarda l’elemento morale e sociale più ostentato, più visibile del licenziamento, e cioè la reintegra del lavoratore licenziato allorquando si appuri, con accertamento fatto dal giudice, l’assenza di una giusta causa. Ora, questa è una norma di altissimo significato che purtroppo, però, nella pratica giudiziaria si applica abbastanza raramente. Quando una causa si inoltra su questa strada non è affatto raro il caso in cui sia la parte lesa stessa a cercare di risolvere il problema in forme pecuniarie. Inoltre in sede giudiziaria è molto difficile dimostrare che c’era un’ingiusta causa o un ingiustificato motivo, a meno che non si tratti di un licenziamento discriminatorio o di rappresaglia. Ma per questi casi vale la stessa dichiarazione reiterata della Confindustria sulla sua intenzione, nel caso si giunga alla riformulazione dell’articolo 18 dello statuto, di salvare il diritto alla reintegra per i casi di licenziamento di rappresaglia o discriminatori.
Certamente l’argomento è delicato: si discute e si litiga se questa sia una norma soltanto italiana; non è molto diffusa nel mondo, ma dipende dal peso che hanno le legislazioni oppure le norme contrattuali, perché questo è un po’ il problema. Noi risolviamo i licenziamenti individuali di fatto mettendo tutto nelle mani del giudice, a meno che non ci sia quel patteggiamento con buonuscita di cui parlavamo prima. Non che sia giusto o sbagliato percorrere questa strada, il fatto è che in Italia questa strada è onerosa, incerta e sempre lunga: cause a volte fissate ad un anno dalla richiesta, con processi ch ...[continua]

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