Paolo Feltrin, politologo, docente di Analisi delle politiche pubbliche all’Università di Trieste, ha insegnato presso le Università di Firenze e Catania e presso la Scuola superiore di pubblica amministrazione di Roma. È coordinatore dell’Osservatorio elettorale della Regione Veneto.

I risultati elettorali ci restituiscono un paese spaccato, se non due Italie...
Vorrei affrontare l’analisi del voto del 4 marzo partendo da alcuni elementi meno evidenti, il più delle volte giudicati irrilevanti, ma che tuttavia meritano attenzione perché costituiscono delle "spie” per l’interpretazione complessiva dei comportamenti. Una premessa per me necessaria è che il voto, specialmente nel caso di "elezioni critiche” (crucial elections, come vengono chiamate in gergo), svela lo stato d’animo di un Paese e ne riflette le sue reali condizioni sociali molto meglio di qualsiasi ricerca sociologica o di qualsiasi indagine demoscopica: la Brexit ha restituito il volto vero dell’Inghilterra, l’elezione di Trump il volto vero dell’America. Una tendenza come quella degli ultimi due-tre anni in Occidente racconta i caratteri del cambiamento sociale in corso più e meglio di quanto abbiano saputo fare anche gli analisti più acuti. Basta guardare a ciò che è successo nelle votazioni recenti in Olanda, Austria, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, per non parlare di Grecia, Spagna, Portogallo, e così via; senza dimenticare le elezioni prossime venture, come quelle programmate per il 9 settembre in Svezia, dove potrebbe esplodere il partito anti-immigrazione e anti-Europa guidato da Jimmie Akesson.
Prima di analizzare il voto ai partiti, vorrei dunque sottolineare tre dati secondari ma interessanti. Il primo è l’altissima partecipazione elettorale. La percentuale di votanti è del 73%, che è sì praticamente identica a cinque anni fa, ma con mezza giornata in meno per votare, e soprattutto senza due miliardi e mezzo di euro di finanziamento pubblico alla campagna elettorale. In questa campagna non si sono quasi visti spot alla tv, nei giornali, e neppure nessuno si è sognato di spedire in modo massivo lettere elettorali a casa degli italiani. Però la gente è andata a votare lo stesso, tanto che a parità di condizioni (due giorni di voto e una campagna elettorale "ricca”) si può stimare che sarebbero andati a votare almeno un 6-8% di elettori in più. Il secondo dato sorprendente è che, rispetto alle elezioni del 2013, comparativamente, il Sud ha votato più del Nord, un dato straordinario, mai capitato nella storia elettorale del nostro paese. Infine un alto dato, passato sotto silenzio, è il crollo delle schede bianche e nulle. Un crollo analogo l’abbiamo avuto nel 1976, quando il tema era l’eventuale sorpasso del Pci sulla Dc, poi non avvenuto, e nel 1948 quando il leit motiv era lo scontro comunismo-anticomunismo. Oggi, siamo nuovamente davanti ad un minimo storico di schede bianche e nulle: un altro "segnale debole” del sommovimento in corso, come se gli elettori avessero deciso, contro tutto e tutti, di andare a votare e di esprimere questo voto senza alcun tentennamento, nonostante gli arzigogoli burocratici inventati in questa occasione, le file ai seggi e una campagna elettorale povera di spunti e priva di entusiasmo.
Insomma, ciò che balza agli occhi immediatamente è che dieci anni di crisi non passano senza conseguenze: appena possono, attraverso il voto, gli elettori manifestano la loro protesta. Chiamare tutto questo populismo serve solo a chiudere la discussione ancora prima di iniziarla, etichettando un fenomeno senza descriverlo con attenzione. Per certi versi, quando si parla di populismo si usa un vocabolo troppo connotato di accenti valoriali per essere di qualche utilità nel cercare di capire cosa sta capitando, come del resto era accaduto nei decenni trascorsi con il termine "totalitarismo”. Occorre invece rinunciare alle stigmatizzazioni e fare uno sforzo per capire il messaggio che gli elettori hanno mandato… "forte e chiaro”.
Ce l’aveva già spiegato Albert O. Hirschman quarant’anni fa, studiando le crisi latino americane: le persone non si lamentano quando sanno di essere tutte insieme in mezzo ai guai, ma appena vedono che l’economia riparte, ti presentano il conto: abbiamo tirato la cinghia per dieci anni, voi ci dite che adesso la crisi è finita, ma noi non vediamo i benefici di cui parlate; al contrario, siamo arrabbiati perché qualcuno ...[continua]

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