Francesca Sforza è stata corrispondente de "La Stampa” a Berlino e Mosca. Dal 2007 al 2011 ha lavorato a Torino come caporedattore del Servizio Esteri. Attualmente è responsabile dei contenuti digitali della redazione romana. Vive a Roma.

Com’è maturata la scelta dell’adozione?
Non è mai facile decidersi all’adozione; in genere ci si prova quando tutto il resto è fallito, quando non sono riusciti il concepimento naturale, l’eterologa, l’assistita e quindi ci si arriva con l’idea che sia veramente l’ultima spiaggia. La cosa interessante è che quando invece succede davvero, tutta questa lettura che sembrava molto lineare svanisce e resta la sensazione che invece dovevi proprio arrivare lì e che quella è l’unica cosa vera.
Davvero, se penso ai discorsi che abbiamo fatto: non ci assomiglierà, non sapremo di chi è figlio... non mi ci riconosco più. È come se trovarsi nell’esperienza dell’adozione ti desse una lettura del modo in cui ci sei arrivato completamente diversa. Innanzitutto capisci che l’essere genitore è sul serio una cosa che si conquista, anche nel caso del figlio biologico. Tant’è che io difendo tutto l’iter, l’incontro con gli psicologi, con gli assistenti sociali, perché un po’ alla volta ti fa entrare in quella situazione. Dico di più: lo dovrebbero fare tutti! Anche chi ha figli biologici. Perché vieni messo di fronte a ipotesi, a domande che sembrano assurde, ma che poi, quando diventi genitore, capisci quanto sono vere e sensate.
Nel nostro caso, mio marito e io siamo una coppia piuttosto performante, lavoriamo entrambi duro. Ebbene, quando è arrivata la domanda: "Che succede se vi arriva un bambino che non è tanto intelligente?” a me è preso un colpo. Non ci avevo pensato, si dice sempre che i bambini son tutti uguali, quindi non avevo realizzato questa possibilità. Poi non è che tu abbia la risposta, però ti devi porre quella domanda. Oppure: "E quando vi diranno che non è bravo a scuola?”, cosa puntualmente successa. Ecco, devi sapere che questa cosa la dovrai gestire e anche se in quel momento non sai come farai, cominci a pensarci. A quel punto ti rendi conto di quante cose non avevi previsto, e allora cominci a interessarti di bambini complicati, di bambini con disagi, cominci ad allargare il tuo spettro, e questo ti rende già più pronto.
Poi ci sono delle cose che comunque non dipenderanno solo da te, per cui capisci anche quanto l’adozione sia veramente una questione transitiva. Cioè, sei tu che adotti lui, ma è anche lui che adotta te. Questa cosa della scelta è fortissima e ti mette subito davanti un dato che nell’adozione è manifesto, ma che riguarda qualsiasi rapporto genitore-figlio e cioè che il figlio non ti appartiene. Lì è un dato iniziale e ovvio, mentre talvolta i genitori biologici non riescono ad accettare questa realtà: io ti ho partorito, sei parte di me, sei roba mia! In realtà non è mai roba tua. Nel caso dell’adozione è un fatto preliminare, e paradossalmente questo ti aiuta, perché tu lo sai fin dall’inizio: si parte insomma da un piano di verità.
Se accetti questo, si crea un attaccamento completamente diverso, un attaccamento tra persone, tra un bambino piccolo che ha bisogno e un adulto che si occupa di lui, che lo accudisce. Aggiungo che la questione dell’accudimento nel nostro caso si è presentata completamente rovesciata.
I miei figli sapevano già far tutto: nonostante avessero due, tre e cinque anni, si vestivano da sé, potevano scalare le montagne da soli. All’istituto, li vedevi: si rifacevano i letti, si lavavano i denti e pulivano il lavandino...
Ecco, è incredibile come appena sono arrivati a casa sono tornati neonati. Non hanno un problema di autonomia. Infatti io stessa, che credo molto nell’autonomia, sono super accuditiva perché so che è un’altra roba. Non gli devo insegnare niente, l’accudimento è una strada su cui passa puro affetto ed è un binario sempre trafficato. Molta della nostra giornata si sperde in questo accudimento al dettaglio persino inutile, non ti dico l’uso di cerotti che facciamo!
L’accudimento è una zona di amore, come è una zona di amore la lingua. Con loro ho capito che la lingua è una cosa che davvero impari nella misura in cui c’è amore intorno a te. In cento giorni un bambino impara la lingua.
La più grande è arrivata a maggio e in settembre è andata in prima elementare. Vedendoli così svelti, l’abbiamo mandata in prima, dove io penso che lei veramente non ...[continua]

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