Arya (nome di fantasia) è afghano tagiko. Vive in Italia.

Raccontare tutto è un po’ difficile. Ripenso spesso al giorno in cui, da piccolo, mentre stavo giocando a casa dei miei cugini in Iran, il telegiornale ha iniziato a far vedere questi aerei sulle Torri gemelle a New York. Parlo dell’11 settembre del 2001. Noi eravamo piccoli e non capivamo cosa stesse succedendo, però ricordo che mio padre e mio zio erano sicuramente dispiaciuti, ma allo stesso tempo speranzosi perché immaginavano già l’intervento americano in Afghanistan. All’epoca c’erano i talebani al governo, e adesso che sono più grande so che allora la gente aspettava l’intervento dell’Occidente perché li liberasse da questi.
Gli americani sarebbero arrivati a ottobre di quell’anno, quando noi eravamo rifugiati in Iran. I miei erano già scappati più volte, prima per l’invasione sovietica, poi durante la guerra civile, quindi quando sono arrivati i mujaheddin, e poi quando sono arrivati i talebani, ogni volta cambiavano casa, città, paese e vita...
Come rifugiati non avevamo diritti. Non ce li hanno neanche gli iraniani stessi, figuriamoci gli stranieri. Gli afghani sono considerati degli animali. Qualsiasi crimine accada ripetono sempre, anche sui giornali: “Sono stati gli afghani”. Gli afghani vengono umiliati, derisi, sottomessi. Altro che avere diritti sociali! In molti casi nemmeno ai bambini venivano riconosciuti; per fare giusto un esempio, a molti non veniva data la possibilità di andare a scuola o, nei migliori dei casi, a chi aveva questa possibilità veniva poi negato il diritto di avere un trattamento pari a quello dei bambini iraniani, non gli veniva consegnata la pagella per “punire” i genitori che magari non avevano documenti e così via, oltre al fatto che, se gli altri studenti scoprivano che eri afghano ti prendevano in giro per tutto l’anno scolastico. Insomma, anch’io ho avuto questa inumana esperienza. Là puoi anche essere il migliore di tutti, ma sei sempre considerato meno di niente perché sei afghano. Per cui qualche anno dopo l’invasione ricordo che un giorno dissi a mio padre che volevo tornare in Afghanistan. Sin da piccolo cercavo di capire di dove fossi, quale fosse la mia identità, a casa mi sentivo afghano mentre fuori casa ero iraniano. Mi mancava l’idea di avere un paese mio. Volevo tornare a Herat, la mia città natale e dei miei genitori. Era l’inizio del governo di Karzai, il famoso primo presidente “democratico” scelto dagli americani, l’inizio di un succedersi dei “governi fantoccio” in Afghanistan.
Alla fine sono riuscito a convincere i miei e sono partito da solo. Lì c’erano i miei zii e sono rimasto circa un anno e mezzo a casa loro. Mi sono iscritto a scuola, ho cominciato a studiare. È stata un’esperienza molto bella, la gente era molto semplice, la vita era più lenta. Nonostante la povertà e un paese distrutto da decenni di guerra, la gente sembrava molto felice e speranzosa in un futuro migliore. Alla fine, però, quell’identità che cercavo non l’ho trovata neanche lì. Lì mi chiamavano “l’iraniano”, in Iran ero l’“afghano”... C’era questo, come dire, sentimento della mancanza di identità che mi perseguitava anche nel mio paese natale. Poi, in occasione del Nowruz, il capodanno persiano, siccome le scuole erano chiuse, sono tornato in Iran a trovare i miei. È allora che ho cominciato a pensare di andare in Europa, anche perché in molti sognavano di farlo.
Io non ho mai fatto politica, però mi piaceva scrivere, e vedendo che in Afghanistan i mujahedin avevano il controllo di tutto, mi rendevo conto che tutta questa “democrazia” portata dagli occidentali per salvare il paese, tutta questa libertà, i diritti di cui si parlava non c’erano davvero. Così avevo iniziato a scrivere di queste cose. Venendo dall’Iran pensavo che nel mio paese fossi libero di parlare: “Adesso c’è la democrazia, mica come in Iran…”. Ricordo che un giorno, prima di andare in Iran, avevo scritto un articolo e l’avevo fatto leggere al professore di letteratura. Dopo averlo letto mi aveva detto: “Mi raccomando, o lo strappi, o non lo fai vedere a nessuno, eh? Non si scherza…”. Ed era veramente così. All’epoca non capivo bene i rischi che correva una persona a dire la sua contro i mujahedin. Anche per questo episodio ho cominciato a pensare che forse nemmeno l’Afghanistan fosse il posto per me. Non ero certo l’unico, all’epoca tante persone se ne andavano.
Quando sono tornato in Iran, a sedici anni, ho iniziato a fare un tirocinio da un cugino mio coetaneo che faceva il sarto. Un giorno, mentre ero al lavoro, mi ha chiamato mio padre dicendo che un nostro lontano parente aveva un figlio della mia età che stava per andare in Europa e mi ha chiesto se volevo partire anch’io. Senza pensarci ho detto di sì. Questo succedeva il martedì e il giovedì siamo partiti. In questi due giorni ovviamente mi è passato in mente di tutto: “Dove sto andando?”, “Cosa farò?”, “Quando rivedrò la mia famiglia?”. Ero ancora molto giovane per andare così lontano da solo, per lasciare casa e famiglia, a cui sono legato tantissimo. Già avevo vissuto ogni sorta di incertezza, un altro cambiamento non ci voleva proprio, questo andare incontro a un destino che non si sapeva come sarebbe stato... Era veramente difficile. Però ormai avevo detto di sì a mio padre e lui aveva fatto partire tutta la procedura.
In tutto ciò, c’è una cosa che non scorderò mai; un pensiero fisso che mi porto dietro tutt’oggi e che probabilmente rimarrà irrisolto per sempre. A casa avevamo una piccola cucina. Quando eravamo molto piccoli io e miei fratelli e sorelle andavamo sempre lì a rubare del cibo mentre mamma cucinava, e anche il giorno prima di partire ero andato a prendere qualcosa del buon cibo che mia madre stava preparando prima che partissi verso un destino ignoto. Sin da piccolo mi piaceva farmi coccolare dalla mamma, qualsiasi occasione era buona per appoggiare la testa sulle sue gambe finché non mi fossi addormentato. Ecco, quel giorno sono entrato in cucina e mamma era lì. Da noi anche la cucina ha un tappeto, così mi sono sdraiato e ho messo la testa sulle sue gambe e lei ha iniziato a coccolarmi. Ricordo che le ho chiesto -cosa che non accadeva spesso nella mia famiglia, non abbiamo mai avuto questa abitudine di confidarci con i genitori- cosa ne pensasse della mia partenza. Lei mi ha guardato negli occhi e mentre cercava di trattenere le lacrime mi ha detto: “So solo dirti che ovunque andrai sarai sempre uno straniero”. Anche lei e tutta la sua famiglia erano stati stranieri sin da sempre. Erano scappati dall’Afghanistan, erano andati in Iran, poi in Pakistan e ritornati in Iran… Insomma, lei l’aveva vissuta sulla sua pelle questa sensazione. Dovunque erano stati trattati come stranieri, anche nel loro paese, proprio com’era successo a me. In seguito, questa sensazione di essere sempre stranieri l’ho avvertita in maniera molto forte per tutto il viaggio.
Arriva il giovedì. Io e questo mio cugino (da noi viene chiamato “fratello” o “cugino” anche chi non lo è davvero) eravamo andati a cercarci uno zaino, qualcosa per il viaggio, senza aver idea di cosa ci aspettasse. Ci era solo stato detto che avremmo dovuto camminare per circa quattro ore per arrivare a Istanbul. Ricordo persino con che vestiti sono partito: essendo giovane e seguendo la moda, avevo i jeans, un paio di scarpe eleganti e una maglietta. Eravamo a primavera, se non erro tra marzo e aprile, e a Teheran faceva caldo, si stava bene; peccato che, non avendo mai fatto trekking né camminate in montagna e neppure fuori città, non avevo idea che ci saremmo trovati davanti situazioni anche pericolose. Insomma, non eravamo affatto preparati per questo viaggio.
Mio padre aveva preso accordi con il trafficante e per me e quest’altro ragazzo era già stato pagato non ricordo se 600 o 900 dollari per portarci da Teheran a Istanbul. Soldi solo depositati, che sarebbero stati sbloccati una volta che fossimo arrivati a destinazione. Ricordo benissimo il momento in cui ho dovuto salutare le persone più care della mia vita, la mia famiglia. Abbiamo preso un taxi fino al terminal e io e mio cugino siamo saliti sull’autobus che andava verso nord-ovest, a Tabriz, una città vicina al confine. Ovviamente, essendo noi afghani, non avevamo certo il permesso di oltrepassarlo; potevamo stare solo a Teheran, era illegale anche solo andare al nord. Ancora oggi lo è.
Fu un viaggio abbastanza lungo, di 14-15 ore, durante il quale sentivo forte la mancanza della mia famiglia e la sensazione che non li avrei più visti. Alla fine siamo arrivati al terminal di questa città, e già scendendo dall’autobus ho iniziato a respirare un’aria diversa. Lì iniziava il vero viaggio clandestino. C’erano due persone che ci aspettavano, che a noi ragazzini mettevano anche un po’ paura. Hanno iniziato a dirci: “Correte, salite sulla macchina”, e lì mi sono accorto che anche altre persone che erano con noi sull’autobus facevano parte del gruppo.
Ovviamente non dovevamo sapere nulla, perché se ti ferma la polizia e dici qualcosa degli altri il trafficante rischia di più. Da lì ci hanno trasferiti in un villaggio, non so come si chiamasse, all’epoca non esistevano gli smartphone con Google Maps, per cui non avevamo la minima idea di dove fossimo. Sapevo solo che eravamo ancora in Iran.
Durante il viaggio in auto, poi, continuavano a dirci di stare bassi, di nasconderci, di non guardare fuori… Siamo arrivati nei pressi di un edificio, una casa indipendente, e una volta scesi ci hanno detto: “Entrate e mi raccomando non parlate, non fatevi vedere, rimanete in questa stanza”. In quella stanza saremmo rimasti per cinque-sei giorni. Altro che “In quattro ore sarete a Istanbul”!
All’inizio in quella stanza eravamo solo io e mio cugino, poi si è aggiunto un ragazzo di Teheran nostro coetaneo e dopo un po’ due pakistani, uno dei quali ci aveva raccontato di aver tentato questo viaggio almeno quindici volte, ma lo avevano sempre rimandato indietro… Per i pakistani è ancora più difficile perché devono venire dal Pakistan all’Iran, poi dall’Iran alla Turchia… In quei cinque giorni ci ha raccontato la sua storia. Io parlavo un po’ inglese, forse anche meglio di come lo parlo ora, per cui riuscivo a comunicare. Lì avevamo tutto il tempo.
Mi ricordo che la famiglia che viveva in quella casa era molto gentile e ospitale, avevano anche un bambino. Dopo ho saputo che esiste una rete di famiglie povere che vivono lungo il confine pagate per ospitare delle persone. Avevamo instaurato un buon rapporto con loro, tant’è che alla nostra partenza la signora si è messa a piangere.
Ogni due giorni veniva un trafficante a trovarci e ad aggiornarci: “Partiamo oggi”, oppure: “Partiamo stasera”, “No, domani”… Non c’è una vera organizzazione; in base alle informazioni decidono qual è il momento giusto per farti partire. Magari stai dormendo e all’improvviso ti dicono: “Ok, bisogna partire”. C’era questa incertezza continua. Una sera è arrivato il trafficante: “Stanotte partiamo sicuramente, siate pronti”. Non ricordo che ore fossero, però di notte è arrivata un’auto. Noi eravamo in cinque e nell’auto c’erano già altre persone, almeno due trafficanti più qualcun altro. Parlo di un’auto normale. A un certo punto non c’era più posto e quel nostro amico iraniano era rimasto fuori insieme a un altro. Così hanno aperto il baule e li hanno messi lì.
Avevano preparato anche delle tende per i finestrini, le hanno chiuse e siamo partiti. Lì non puoi dire: “Non parto, sono scomodo…”. No, parti. Noi pensavamo: “Siamo al confine, andremo in Turchia”… Ci sbagliavamo. Quella stessa notte ci hanno portati in un altro villaggio. Lì ci hanno fatti salire su una sorta di pulmino, sporchissimo e puzzolente, con tutte le tende chiuse. Si sono raccomandati: “State zitti e niente sigarette”, perché poi si sarebbe vista la luce. Il pulmino andava per villaggi a caricare altre persone. Avevamo paura, un sentimento ambiguo: da una parte sei spaventato perché vedi salire persone che non conosci, d’altro canto riconosci dei tuoi connazionali, tanti afghani -anche se la maggior parte erano pakistani- e il fatto che fossero persone più grandi di noi ci dava un po’ di sicurezza.
Siamo arrivati ai piedi di una montagna che era ancora buio. Da lì dovevamo proseguire a piedi per arrivare a un altro villaggio la mattina dopo.
A un certo punto ha iniziato a fare molto freddo, poi ha preso a piovere. Un ragazzo mi ha prestato una giacca che si era portato come cambio. Non è poi che procedessimo spediti, ogni tanto ci dicevano di stare fermi, di sederci, di non muoverci per non fare rumore. Un’atmosfera molto pesante, soffocante; non mi sarei mai immaginato di sentire una tale oppressione in mezzo alla natura. Siamo rimasti su questo monte per qualche ora, sotto la pioggia, al freddo, finché un gruppo più avanzato non ha mandato l’ok che era sicuro e potevamo ripartire. La zona era piena di terreni agricoli coltivati a riso; mettevi il piede in terra e finivi con l’acqua alle ginocchia.
Camminando per questi terreni tutta la notte, in mezzo all’acqua, nel fango, pensavo: “Io torno a casa, non fa per me”. Finalmente verso le sei del mattino siamo arrivati in un villaggio, presso una casa, sempre parte di questo network di trafficanti, dove viveva una famiglia che aveva tante figlie e tanti animali da cortile. Sono stati molto gentili, ci hanno dato delle coperte e del cibo. Siamo rimasti lì per tutto il giorno, perché di giorno non si viaggia mai, e la notte stessa siamo ripartiti. Ci hanno portato all’ultimo villaggio da cui poi saremmo finalmente partiti per il confine. Anche per arrivare lì abbiamo camminato attraverso campi e montagne, sempre al freddo. Siamo arrivati in un altro villaggio e lì, invece di una casa, ci aspettava una stalla buia con due stanze, una con un cavallo e l’altra con una pecora. Noi eravamo arrivati lì in dodici, stanchi morti, ci siamo sdraiati subito per dormire. Appena ha fatto giorno ci siamo resi conto che lì dentro eravamo oltre settanta. Quello era il gruppo totale che doveva poi partire insieme per la Turchia: afghani, pakistani e qualche bengalese.
Dato che eravamo quasi al confine, la mattina dopo la speranza era che saremmo partiti la sera stessa; invece siamo rimasti lì per giorni. Ricordo di aver chiesto al trafficante un telefono perché volevo chiamare mio padre. Dopo due-tre giorni me l’ha portato, così l’ho chiamato e gli ho detto: “Voglio tornare a casa, non voglio continuare”. Poi però ho saputo che il trafficante gli ha parlato dopo di me e lo ha tranquillizzato dicendogli che era tutto a posto. Ovviamente non raccontano i dettagli, dicono: “Sì, siamo al confine, abbiamo avuto un problema, però fra quattro ore saremo a Istanbul”. La chiamata è stata comunque inutile, anche perché mio padre non poteva fare nulla: una volta che parti sei in ostaggio, loro vogliono solo quei 600-1.000 dollari, per cui finché non ti portano a destinazione e i soldi non vengono sbloccati non gli interessa niente, puoi anche morire.
Siamo rimasti lì qualche notte. Ci portavano da mangiare qualcosa quando ci andava proprio di lusso, un pezzo di pane, una patata lessa o un pomodoro, oppure un uovo sodo. È stato sempre così durante tutto il viaggio. Camminare per giorni senza mangiare, senza acqua, senza una doccia… io i capelli li ho persi così. Sono partito con i capelli lunghi, ma già a Istanbul erano tutti rovinati e ho dovuto rasarmeli.
Dopo qualche sera sono cominciate anche le liti tra i vari gruppi. Noi, poverini, eravamo i più piccoli, ma i grandi litigavano: pakistani con bengalesi, ma anche gli afghani, succedeva un po’ di tutto.
Qualche giorno dopo, finalmente una sera ci hanno fatto partire verso il confine. Eravamo tutti contenti, ma ovviamente nessuno sapeva dove fosse questo confine. Volevamo solo andarcene da lì. Eravamo in un villaggio a una certa altezza rispetto al livello del mare, quindi dovevamo scendere e poi risalire la montagna. Non avevo le scarpe adatte e in queste tante ore di cammino sono scivolato e caduto più volte su questi sassi e pietre enormi, facendomi anche male, ma siamo arrivati al confine, al filo spinato.
Ci hanno fatto aspettare un po’. Mi viene sempre in mente, quando parlo del confine, che il cielo bellissimo che ho visto quella notte mi ricordava molto il cielo limpido di Herat d’estate, mentre dormivamo nel cortile con i cugini. I trafficanti avevano con loro dei pezzi di legno enormi con cui poi avrebbero aperto il filo spinato, che in alcuni punti era anche elettrificato.
A un certo punto abbiamo sentito degli spari. Non stavano sparando a noi: in diverse parti del confine c’erano vari gruppi che contemporaneamente tentavano di oltrepassarlo. Si sentiva un ragazzo urlare dal dolore perché era stato colpito. A quel punto abbiamo visto i trafficanti correrci incontro e gridare: “Correte, correte! Tornate indietro!”, e siamo tornati nella stalla. Non ricordo più quanto tempo siamo rimasti lì. Non vi dico la stanchezza, la frustrazione...
Dopodiché siamo ripartiti. Eravamo più o meno nello stesso punto della volta precedente ad aspettare che i trafficanti aprissero la rete, io vedevo queste stelle e mi dicevo: “Cavolo, forse questa è la volta buona, forse passeremo…”. Poi ho saputo che al confine ci sono anche terreni minati. Quella sera ci è andata bene. Abbiamo oltrepassato il confine e, dopo circa due settimane di viaggio, eravamo in Turchia. Peccato che il viaggio era appena iniziato!
Dovevamo arrivare a Van, una città turca, forse la città principale dell’area, sempre passando per delle risaie. Eravamo in 70-75, quasi un corteo. E questo di notte, tutti stanchi morti, senza aver mangiato niente. Quella notte persi anche una scarpa. Per fortuna un ragazzo afghano-hazara aveva un paio di scarpe in più nello zaino e me le ha prestate.
Arrivammo verso le 5-6 del mattino in questo primo villaggio turco, in una casa un po’ sperduta. Siccome volevo restituire quelle scarpe al ragazzo ho chiesto al padrone di casa se poteva portare ad aggiustare la mia scarpa rotta. Con me avevo 50 dollari che mi aveva dato mio padre, così a lui ne ho dati 10. Non ho visto più né la scarpa né i soldi. Alla fine quel ragazzo mi ha regalato il suo paio...
In questa casa non ci hanno dato niente da mangiare, così ci siamo messi subito a dormire. Avevamo i vestiti bagnati, eravamo distrutti dalla stanchezza e dallo stress continuo di essere presi o dalla polizia oppure dai banditi del confine -che poi ti vendono ad altri banditi dell’oltre confine in Iran, com’è successo a tantissime persone. Siamo rimasti lì fino a sera, poi siamo ripartiti, sempre a piedi, fino a Van; qualche tratto lo abbiamo fatto in pulmino, però la maggior parte del tragitto a piedi. Alla periferia di Van ci aspettava un’altra stalla, anche stavolta con gli animali. La stalla era tutta chiusa perché nessuno ci doveva vedere, mentre la famiglia aveva la casa lì a fianco.
Siamo rimasti in quelle condizioni per 17-18 giorni, mangiando sempre le stesse cose, senza poter mai uscire… Anche lì non avevamo né bagni, né docce, niente. Per un mese nessuno di noi si è lavato. A parte mio cugino, che si era fidanzato con la figlia di questa famiglia… La prima sera, quando siamo arrivati, prima di portarci nella stalla alcuni di noi sono entrati in casa perché c’era l’idea di suddividerci in vari ambienti. Tra quelli entrati nella casa c’era mio cugino, ed è lì che ha conosciuto la ragazza. Non so come abbia fatto, perché lui non parlava nessuna lingua diversa dalla sua… Poi però tra gli altri ragazzi è scoppiata una lite, o qualcosa del genere, così hanno deciso di portare tutti nella stalla. Ogni tanto questa ragazza veniva e portava via mio cugino, poi lo riaccompagnava da noi. Per il resto, in quei giorni non abbiamo mai visto la luce del giorno, solo uno spiraglio quando qualcuno veniva a portarci dell’acqua o del cibo. Ancora oggi non ci posso credere che per quasi 20 giorni non ho visto la luce del giorno.
Da lì è cominciato il vero viaggio clandestino, il più brutto della mia vita.
Ci hanno portati fuori tutti, sempre di corsa, sempre nascosti, fino a una zona deserta del villaggio dove ci aspettava un grande camion che, però, per 75 persone non bastava di certo. A un certo punto ci dicono di salire, ma non c’era posto dove sederci; stavamo tutti in piedi. Ci dicono di sederci dove potevamo e ci coprono con dei pallet di legno enormi perché nessuno doveva vederci. Mi dico: “Quanto ci vorrà da qui a Istanbul? Saranno le famose quattro ore?”. Erano le sette o le otto di sera. Van si trova nei pressi di un lago -ovviamente sono tutte cose che ho saputo dopo, una volta arrivato, quando ho potuto guardare una mappa. Da quel villaggio vicino al lago ci avevano portati a una montagna, passando a tutta velocità per campi e strade secondarie per non farci intercettare, perché poi vicino al confine c’erano diversi posti di blocco di polizia. Dentro al camion, tutti stipati, eravamo come pollame: salti a ogni buca, sbatti contro gli altri… Dopo qualche ora siamo arrivati al lago, erano forse le dieci e trenta, le undici di sera. Ricordo che c’era la luna perché pur essendo al buio si vedeva qualcosa. Pensavamo che avremmo preso una barca, poi un’auto e saremmo arrivati a Istanbul, invece ci hanno detto che dovevamo attraversare la montagna a piedi. Ecco, quella camminata è stata la più difficile della mia vita. Parliamo di una camminata da sportivi, dovevi essere un esperto per fare quel tragitto.
Faceva freddo, venivamo da giorni di stanchezza, senza aver mangiato bene, con la paura, c’erano gli animali… Lì mi è parso di vedere animali che non credevo esistessero. Ovunque giravo la testa vedevo per esempio dei cavalli enormi che poi sparivano all’improvviso. Dopo, parlandone con dei miei amici, mi hanno detto che era la stanchezza, era la fame… erano allucinazioni.
Una volta arrivati in cima dovevamo attraversare la sommità della montagna, dove c’è pochissimo spazio, le pietre sono scivolose o rischiano di cadere con te sopra. Io inciampavo spesso. Ricordo quella notte di essere finito a terra centinaia di volte. Per fortuna gli altri ragazzi mi hanno sempre aiutato a rialzarmi, qualcuno mi dava anche degli schiaffi per svegliarmi. Due o tre del nostro gruppo si sono persi, credo siano caduti. Non potevamo fare niente per loro.
Verso le sei del mattino siamo arrivati dall’altra parte della montagna dove ci aspettava lo stesso camion. Non avevamo neanche la forza di salire… Dopo ore e ore di cammino eravamo distrutti però dovevamo farlo, perché altrimenti saremmo morti. Non so come, però tutti hanno trovato la forza di salire. Ovviamente non c’era un bagno.
Ci hanno buttato delle buste con del pane e della Coca-Cola, poi ci hanno coperti di nuovo con i pallet e siamo partiti, viaggiando un po’ su strade normali e un po’ su sentieri. Tante volte abbiamo pensato di morire…
Per arrivare a Istanbul ci abbiamo messo 43 ore, senza mai fermarci. Una distanza che normalmente si percorre in poche ore in auto .
Una volta arrivati a Istanbul e aperto il portellone del camion ognuno di noi saltava a terra, ma finiva per cadere perché non sentiva più le ginocchia.
Ci hanno portati in un appartamento dove c’erano altre centinaia di persone. Per arrivarci dovevamo salire quattro piani a piedi… E chi ce la faceva? Non c’era proprio l’energia per farlo. La prima cosa che ho chiesto appena arrivato non è stato da mangiare ma un po’ d’acqua per lavarmi: da oltre un mese non lo facevo.
A quel punto ognuno si doveva arrangiare. Con noi c’erano tante persone che non avevano nessuno a cui rivolgersi. Per loro il viaggio ricominciava lì: dovevano cercare un posto, qualcuno che li ospitasse, che gli desse da mangiare, trovare il modo di farsi mandare dei soldi… Noi invece avevamo il cugino di questo mio parente che addirittura ci è venuto a prendere -un vero lusso- e ci ha portati a casa sua. Tutte queste cose che racconto me le ricordo bene perché me le ero scritte, ero l’unico ad avere un diario e una penna, scrivevo tutte le sere. Purtroppo il diario l’ho perso a Istanbul, appena arrivato, ma finché l’ho avuto ho sempre annotato tutto.
A casa di questo parente ho finalmente fatto il bagno e siamo andati a comprarci dei vestiti. Ho fatto pure l’hammam, il bagno turco… Abbiamo fatto un po’ i turisti, anche se dovevamo nasconderci sempre perché non avevamo i documenti, eravamo clandestini. All’epoca in tanti come noi venivano arrestati e rimpatriati.
Dopo qualche settimana siamo partiti di nuovo. Io volevo andare in Svezia. L’idea mi era venuta da quel ragazzo pakistano che avevo conosciuto nei primi giorni del viaggio, perché è così che funziona, come in una comunità, ognuno raccoglie notizie da parenti e amici che hanno sparsi ovunque e le fa girare. Lui aveva tutte queste informazioni: “In Grecia si guadagna così”, “In Italia no, non si guadagna bene”, “In Germania è così”, “Ah, la Svezia…”. In base a queste informazioni mi ero dato l’obiettivo di andare in Svezia. “In Svezia il governo ti dà una sistemazione, puoi lavorare, studiare, viaggiare”… Pensi: “Vado lì, è il paradiso”. Senza pensare che magari anche in Svezia hanno dei problemi e se non sei bravo non puoi costruirti una vita… Mio cugino, invece, aveva deciso di andare in Inghilterra, cosa che poi è riuscito a fare. Io e altri due-tre, invece, avevamo scelto la Svezia senza sapere ancora che questo viaggio, in molti casi, ti porta ovunque meno che al tuo obiettivo. Tant’è vero che ho perso i contatti con tutti perché ognuno cerca la propria salvezza come può. Non è che puoi organizzarti e dire: “Ok, io e te andiamo in Svezia”.
La mossa successiva sarebbe stata andare in Grecia, dove avevo uno zio. Altri sono partiti per la Bulgaria, seguendo la rotta balcanica.
Avevo bisogno di soldi per pagare un trafficante. Ho chiamato mio padre che però aveva i suoi problemi e mi ha detto: “Adesso non ce li ho, chiama tuo zio che se può te li presta, poi quando arrivi lavori e lo ripaghi”. Peccato che io non avevo mai lavorato nella mia vita… Sì, avevo aiutato un po’ mio padre nel commercio degli orologi. Quando sei piccolo tuo padre è il tuo eroe, cerchi di fare quello che fa lui. Quello era l’unico lavoro che avevo fatto, mentre questo mio cugino e altre persone che erano con me, di una classe sociale un po’ più povera, avevano sempre lavorato, o in campagna o come muratori.
Insomma, dovevamo trovare una persona che ci portasse in Grecia. Anche lì è un mondo strano, c’è chi ti dice: “Ti porto in Grecia in due ore, dammi 1.000 euro”, e chi invece: “Ti porto in tre ore, dammi 2.000 euro”. C’è anche chi ti truffa. Per fortuna quel cugino di Istanbul conosceva l’ambiente e alla fine ci ha trovato una persona, ha garantito per me e pagato 600 euro, sempre con il meccanismo del deposito. Anche lì, prima di partire pensavamo: “Adesso ci portano in spiaggia, da lì prendiamo la barca e partiamo”. Invece no.
Siamo partiti dapprima con un pulmino con altre persone e siamo andati in una città sul mare. Lì siamo rimasti circa una settimana, tutti ammassati in un appartamento minuscolo. Non potevamo uscire, non potevamo fare niente; davamo dei soldi a un ragazzo che ci faceva la spesa, così potevamo almeno cucinare e mangiare. Una sera ci sono venuti a prendere verso le nove e mezza, sempre con un pulmino, e ci hanno portati in spiaggia, dove abbiamo aspettato fino alle 11 e mezza. A un certo punto arriva questa barca… Ci avevano detto così, ma in realtà era una barchetta da pesca piena di buchi… Ci siamo saliti in 21. Due settimane dopo, la stessa barca con a bordo lo stesso numero di persone è affondata, si sono salvati solo in sette. Avevamo capito che non era sicura; quando io e mio cugino l’abbiamo vista abbiamo pensato: “Non ci saliamo neanche morti!”. Stava già affondando prima che ci salissimo e io nemmeno sapevo nuotare... Non ero mai stato al mare, forse tre volte ero andato in piscina. Però una volta che sei lì, anche se sai che è pericoloso, non hai la forza di dire di no, pensi che ormai tanto vale partire.
Quella notte ho visto la morte davanti agli occhi.
Durante il viaggio abbiamo fatto amicizia con alcuni degli altri. Non sapevamo chi fosse il trafficante, loro non lo rivelano perché se ti fermano lui rischia di più. Fanno salire tutti, poi a qualcuno dicono: “Ti faccio vedere come si comanda la barca…”. L’idea era che in due ore saremmo arrivati in una spiaggia in Grecia. Siamo partiti da Kusadasi, nei pressi di Ismir [Smirne, ndr] e siamo arrivati in Grecia al mattino, non so che ore fossero perché non avevo l’orologio. Quindi il viaggio è durato tutta la notte, ed è stata veramente dura. Il mare era mosso, le onde alte tre metri… C’è un film, “Le nuotatrici”, su due sorelle siriane, nel quale si capisce molto bene cosa vuol dire stare in una barca simile in mezzo al mare. Per tutto il tempo abbiamo dovuto svuotare la barca con delle bottigliette d’acqua da mezzo litro, ognuno toglieva quel che poteva.
Ovviamente non ci si poteva neppure muovere tanto. Una o due volte si è pure spento il motore. In quelle situazioni vedere intorno a te solo buio… Qualche volta si vedeva una luce in lontananza, e qualcuno diceva: “Vedi? La Grecia è là!”, e invece magari era solo un’altra barca che si allontanava. Non so come descrivere quelle sensazioni, so solo che è stata veramente dura. Lì nessun tipo di preghiera funziona. È la morte, la vedi davanti a te. Dopo le 43 ore in camion, forse questa è stata la parte più dura del viaggio, soprattutto a livello psicologico.
Quando siamo arrivati era mattina e non abbiamo trovato nemmeno una spiaggia, ma gli scogli di un’isola -non ricordo se era Samos o Kos. Inoltre, la barca non poteva attraccare, se no sarebbe andata a sbattere, quindi ci siamo tuffati in acqua per arrivare a riva a nuoto. Lì io non so come ho fatto a salvarmi, mi hanno aiutato gli altri. Alla fine siamo arrivati vivi. Tutti bagnati, compresi i documenti, i soldi… La prima cosa che molti fanno è chiamare a casa, rassicurare i parenti, solo che non tutti ce l’hanno un telefono e anche chi ce l’ha potrebbe averlo rotto o perso in mare. Qualcuno, i più gentili, lo prestano per fare una chiamata veloce. Noi siamo riusciti a telefonare, dopodiché i nostri parenti hanno perso le nostre tracce. Ci siamo avventurati nel bosco sulla montagna e arrivati in cima eravamo pieni di sangue per la fitta vegetazione: non si passava e dovevamo creare dei varchi. I vestiti erano distrutti. Arrivati in cima, una coppia di greci che stavano correndo ci ha visti. Abbiamo pensato: “Adesso ci salvano, ci danno del cibo”… E invece hanno chiamato la polizia.
Qualcuno di noi, i più esperti, sapevano come ci si deve comportare, e infatti se n’erano già andati via da soli; noi, che non sapevamo nulla, siamo rimasti in gruppo e così quando è arrivata la polizia ci ha presi tutti quanti e ci ha portati in caserma. Arrivati lì abbiamo ritrovato anche gli altri, quelli che erano scappati subito! Tutti si accusavano a vicenda: “Mi hanno preso per colpa tua!”... Ci hanno portati in ospedale, hanno fatto dei controlli e ci hanno rasati tutti. Poi ci hanno tenuto in una sorta di prigione per qualche mese, un campo per i profughi chiuso, da dove nessuno poteva uscire. Era un vecchio palazzo di due piani e la situazione dentro era veramente penosa. Ricordo che su un piano erano tutti africani -bambini, donne, giovani, vecchi, tutti, circa tre, quattrocento persone, sopra invece c’eravamo noi, iraniani e pakistani, in diverse stanze. è stata dura condividere il bagno, la stanza, il letto. Lì mi sono ammalato di non so cosa, avevo prurito e mi grattavo continuamente. Avevo perso tutta la pelle tra le dita, vedevo la carne viva.
Ero uno dei pochi che sapeva l’inglese e la polizia mi ha chiesto di fare da interprete. Grazie a questa collaborazione ogni tanto avevo il permesso di chiamare la mia famiglia. Già, perché dentro era vietato avere un telefono. Mi avevano dato anche una radio, così potevo ascoltare le notizie. È stato così che ho scoperto di quella barca che era affondata.
Una notte, circa due settimane dopo il mio arrivo, viene a cercarmi la polizia. Temevo mi volessero rimandare in Turchia. Vado alla porta e vedo un ragazzo -con cui poi sono diventato amico, un giovane afghano di venti, ventidue anni- che aveva i vestiti laceri, bruciacchiati. Gli ho chiesto: “Cosa ti è successo?”. Non riusciva a parlare, diceva solo: “Sono morti tutti”. La polizia mi ha chiesto di andare in ospedale a fare il riconoscimento di alcuni cadaveri -almeno così avevo capito. Io, che non avevo mai visto un cadavere, ho detto di sì. Che altro potevo fare? Arrivato in ospedale, per fortuna non ho trovato dei cadaveri, ma le persone che si erano salvate. Quando li ho visti vivi li ho abbracciati.
Parlando poi con loro mi hanno spiegato cos’era successo: quel ragazzo che avevo visto al campo profughi aveva nuotato per tutta la notte e aveva avvisato la polizia che la loro barca era affondata. Aveva i vestiti laceri a causa dell’acqua salata. Me la ricordo, quell’acqua, a restarci anche solo dieci minuti si sentiva tutta la pelle bruciare… Su queste persone bisognerebbe fare un film. In questa vicenda c’è una storia particolare che riguarda una giovanissima ragazza afghana, sposata con un ragazzo che viveva in Olanda: siccome lui non riusciva a farla arrivare lì legalmente, ha pensato di tornare in Afghanistan e tornare illegalmente con lei, nonostante lui i documenti li avesse.
Quella notte, quando è affondata la barca, lui è morto, lei si è salvata, ma quando ha capito che il fidanzato non ce l’aveva fatta si è lasciata affogare. Una tragedia. Di ventuno persone se ne sono salvate sette. Ed erano tutte della stessa famiglia.
Dunque sono arrivato in Grecia. Sì, anche in Grecia sei in Europa, ma l’obiettivo è arrivare nella parte “vera” dell’Europa, dove potrai avere dei diritti, dei documenti e verrai riconosciuto come persona facente parte della società. Il mio obiettivo era sempre andare in Svezia e per fare ciò dovevo avere i soldi, conoscere i trafficanti che organizzavano questi viaggi… Ma forse la cosa più importante era avere il coraggio. Non è un viaggio “normale”.
Uno dei modi più economici, facili e “veloci” era partire da soli, senza pagare un trafficante. A Patrasso bisognava entrare nel porto che era superblindato, con la polizia che lo pattugliava continuamente. Una polizia, oltretutto, molto violenta. Una volta nel porto, bisognava nascondersi o sotto il camion -quindi tra le ruote, nello specifico sull’ultima asse del camion- oppure sopra, nella cabina, dove alcuni camion hanno una sorta di rientranza sul soffitto che permette a chi è minuto di potersi nascondere. Una terza posizione è un box dove i camionisti mettono o gli attrezzi oppure del cibo. Queste erano le tre possibilità per poter partire gratuitamente, che poi erano le stesse con cui ti facevano partire i trafficanti. Oltre a queste, ci si poteva nascondere tra la merce, solo che in questo caso avevi bisogno di un trafficante che ti chiudesse dentro. Io le ho provate tutte o quasi.
La prima volta mi resterà impressa per sempre. È stata veramente dura per me, un ragazzino che non aveva neanche il coraggio di restare da solo: ero così ingenuo, avevo paura di tutto...
Il mio primo tentativo è avvenuto due settimane dopo il mio arrivo a Patrasso. Avevo parlato con una persona, un uomo sui quarant’anni, che faceva partire le persone, lo stesso che aveva fatto partire mio cugino, infatti, appena una settimana dopo l’arrivo in Grecia, era già in Italia.
Il trafficante mi ha fatto entrare nel porto, a notte fonda, indicandomi un buco nella rete fatto in precedenza da altri ragazzi e il camion dove dovevo nascondermi.
Ero da solo. Sono entrato tutto tremante, con la polizia che sorvegliava, il rumore delle sirene e dei camion che andavano e venivano. Sono entrato, mi sono infilato sotto il camion in sosta e mi sono messo sull’asse delle ultime ruote.
Queste cose si fanno nei momenti in cui il camionista scende per andare in bagno o per prendere qualcosa da mangiare. Devi essere abbastanza furbo e veloce, guardarti intorno perché nessuno ti veda, né la polizia né l’autista, altrimenti finisce lì.
Quando ti nascondi non sai se il camion sta per partire o no; in tanti casi resti nascosto per ore per accorgerti poi che il camion non si imbarca ma rientra in Grecia. Quella volta sono rimasto sotto il camion per almeno due-tre ore. Mi ricordo che tremavo tutto per la paura. A ogni rumore che sentivo per me era la fine del mondo… Ero tutto sporco di olio. All’improvviso sento le sirene di una macchina della polizia. Cos’era successo? Mentre aspettavo l’autista, non so come, si era accorto della mia presenza lì sotto, così aveva iniziato a dirmi, un po’ in greco e un po’ in inglese: “Scendi! Scappa!”. Non ho fatto in tempo e la polizia mi ha trovato. Mi hanno urlato contro, ricoprendomi di insulti. Solo in seguito, quando ho imparato il greco, ho capito cosa mi avevano detto.
Mi hanno preso, mi hanno messo le mani dietro la schiena e le manette continuando a insultarmi, a prendermi a calci, per poi caricarmi nel bagagliaio di un suv come fossi una valigia. Mi hanno portato alla capitaneria, in una guardiola dove c’erano altri poliziotti. Io avevo imparato in greco a dire “Scusa”, e lo ripetevo, piangendo: “Signomi, signomi”. Il poliziotto mi picchiava, mi urlava contro, mi intimava di chiedere scusa non a lui ma al suo superiore, che stava nella guardiola. Alla fine mi hanno fatto salire su un’auto, riportato vicino al cancello e con un ultimo calcio mi hanno fatto uscire dal porto.
Nei mesi successivi, per il trauma vissuto, non ne ho più voluto sapere di partire. Gli altri mi dicevano che era normale e che però se non rimettevo insieme il coraggio sarei rimasto lì. Lì a Patrasso, all’epoca, vicino al porto, i profughi si erano costruiti un campo con casette di cartone e plastica. Una piccola città. Ora non c’è più, è stato demolito.
Nel campo eravamo quasi tutti afghani. Ognuno aveva un posto in tenda, poi chi partiva lasciava il posto a qualcun altro. Io ne condividevo una con due-tre persone. Da mangiare ce lo portava ogni giorno una cooperativa, non so se c’entrasse la chiesa, credo fossero rimanenze degli ospedali. Si faceva la fila, tante volte si litigava. Chi aveva i soldi magari mangiava al di fuori del campo, ma la maggior parte tutti lì. Quando sei in una situazione difficile non dici di no a niente. Per i vestiti funzionava allo stesso modo, ci portavano dei vestiti usati.
Lì c’era anche un mio zio che abitava in Grecia da tanti anni, ma anche lui aveva perso il lavoro, non si era neanche integrato nella società, era rimasto senza una casa e quindi stava in tenda con noi. È stato veramente difficile. C’erano violenze, giravano malattie di tutti i tipi... La notte capitava di svegliarsi e di ritrovarsi un topo di fianco. Ricordo che avevo trovato un gattino senza un occhio, che è rimasto con me finché sono andato via. Il gatto mi dormiva vicino, quindi almeno dai topi ero salvo.
Una cosa bruttissima è che nel campo girava tanta droga. Dopo ho saputo di alcuni amici morti di overdose da eroina. Il campo non era solo un posto dove dormire, molti spacciavano o commettevano altri tipi di crimini. Io per fortuna sono rimasto sempre fuori da questi giri, ma alcuni amici del mio gruppo non sono riusciti a starne fuori, parlo di ragazzi giovanissimi. Qualcuno è morto, qualcuno è sparito, qualcun altro è rimasto lì perché una volta che fai uso dell’eroina sei finito.
La situazione igienica era al di sotto di qualsiasi livello umano. Non c’erano bagni; in una zona un po’ distante dalle tende avevamo scavato dei buchi coperti da pezzi di legno per sedersi, e due, tre “docce”, cioè un secchio con dell’acqua che scaldavi per poterti lavare.
Non c’era neanche la luce. Per averla attaccavamo dei cavi alla corrente principale. Ogni tanto una tenda prendeva fuoco e una sera l’incendio si propagò rapidamente. Per fortuna non è morto nessuno. C’era anche un gruppo di ragazzi albanesi che vivevano in Grecia e che ogni tanto, di notte, passavano in moto e ci buttavano qualcosa per far prendere fuoco alle tende. Se trovavano qualcuno da solo all’esterno lo picchiavano. In tanti sono finiti all’ospedale, qualcuno è morto.
Dopo un po’ ho riprovato a partire; questa volta ero con mio zio e altre quattro-cinque persone. I trafficanti ci avevano nascosti in un camion in un parcheggio fuori dal porto, avevano aperto il camion, spostato i pallet con la merce e ricavato delle intercapedini dove poterci nascondere. Lì sotto non si respirava, ma ci siamo dovuti restare per tutta la notte. La mattina il camion è ripartito, ma dopo appena dieci minuti di strada si è fermato; noi, che non vedevamo niente, speravamo ripartisse per andare in Italia, invece sono arrivati gli operai e hanno cominciato a scaricarlo -in realtà abbiamo scoperto poi che doveva tornare in Turchia. Quando sono arrivati a noi, un operaio ha chiamato gli altri e, tutti armati di bastoni, ci hanno fatto scendere, poi hanno chiamato la polizia che ci ha preso e poi rilasciato. Per molti è la quotidianità, c’erano persone che tentavano tre, quattro volte al giorno.
Un’altra volta, stessa storia: il trafficante ci ha nascosti in un camion, questa volta già all’interno del porto, ha chiuso il portellone e se n’è andato. Qualche ora dopo sono arrivati i poliziotti, ci hanno presi e hanno cominciato a manganellarci sulle ginocchia. Ricordo che mio zio gridava: “Lui è piccolo, lasciatelo stare!”... Mi hanno fatto scendere e da giù ho sentito le sue urla: l’hanno picchiato ancora più forte.
Passata la paura, ho ripreso le mie “prove”. La volta dopo ho tentato di partire direttamente con una nave, usando documenti falsi. Lì funziona diversamente: se hai i soldi, spendi tre, quattro, cinquemila euro e compri documenti di varie nazionalità, Spagna, Grecia, Germania, quello che è. Se sei fortunato, ti presenti bene e magari sai un po’ le lingue i poliziotti non si accorgono subito di chi sei, hai più chance di passare il confine. Io sapevo l’inglese, ero giovane, mi sono detto: “Ci provo”.
I soldi però non li avevo. Ho deciso di andare con altri amici da alcuni ragazzi, tutti fratelli, che falsificavano i documenti nel retrobottega di un bar di Atene gestito da uno di loro. Lo fanno ancora, ce ne sono tanti di posti così in Grecia. Ricordo che avevo forse 3-400 euro che mi aveva prestato mio zio. I documenti più affidabili in quel bar costavano tra i 1.200 e i 2.000 euro, ma ho deciso di provarci comunque. I miei amici, che potevano pagare, hanno preso i loro documenti, mentre a me e a qualcun altro che non arrivava alla cifra completa i trafficanti hanno dato dei passaporti più “rischiosi”, delle fotocopie, non ricordo nemmeno di che nazionalità fossero. Il piano era andare a Igoumenitsa, da dove partiva la nave.
Ci siamo comprati dei vestiti nuovi, siamo andati dal parrucchiere e, tutti contenti, siamo partiti. Siamo arrivati la notte, con l’autobus, abbiamo preso anche un albergo. La nave sarebbe partita più o meno verso le tre di notte. Dall’albergo al porto siamo andati a piedi, divisi in vari gruppi per non destare sospetti. Ci eravamo preparati anche degli zaini. Noi non avevamo nulla, per cui io nello zaino ho messo una vecchia coperta prestata da un amico perché non avevo abbastanza vestiti da riempirlo; devi avere un bagaglio per far vedere che stai viaggiando, devi sembrare un normale turista...
Il primo gruppo si è avvicinato all’ingresso del porto e uno dei ragazzi, originario del nord dell’Afghanistan, con i capelli rossastri -lo chiamavamo “il biondo”- è riuscito a passare mostrando quella fotocopia. Ora, la Grecia è nell’area Schengen, e tante volte se hai un po’ di fortuna parti anche con il semplice biglietto; magari i poliziotti sono distratti, stanno chiacchierando, e passi. “Il biondo” è entrato così. Anche altri due, due fratelli, sono riusciti a entrare. Noi, nascosti dietro le macchine e tra gli alberi, controllavamo chi ce la faceva e chi no… Vedendo che loro ce l’avevano fatta ci siamo detti: “Ce la facciamo anche noi, si passa!”.
Ci siamo avvicinati io e un altro ragazzo, più grande di me, siamo arrivati all’ingresso del porto e lì è salita la paura. Un poliziotto ci ha fermati e ci ha chiesto i documenti. Noi, pensando di fare i furbi, gli abbiamo dato i biglietti; sapevamo che anche un bambino si sarebbe accorto che i nostri documenti erano falsi. Niente, non ha funzionato: il poliziotto voleva vedere i documenti. Noi glieli abbiamo dati e lui ci ha portati dentro. Forse non mi hanno fatto niente perché ero piccolo. Dopo, quando ci siamo ritrovati tutti, i ragazzi più grandi mi hanno raccontato che a loro invece avevano dato tante di quelle botte che non volevano più riprovarci.
Dovevo trovare un altro modo, però avevo bisogno di soldi. Ai miei non potevo chiederli, quindi sono tornato a Patrasso e ho cercato un lavoro. Ho fatto di tutto. C’era una piazza dove tutti gli afghani e qualche albanese andavano a cercare lavoro. Chi doveva fare una ristrutturazione o aveva bisogno di manodopera nei campi veniva lì a reclutare i ragazzi. In quella piazza ricordo di essere andato più volte finché un giorno, insieme a un ragazzo che abitava con me e altri in una tenda, abbiamo trovato un signore che ci ha portati in un cantiere. Così ho iniziato a fare il muratore. Non riuscivo neanche ad alzare 10 chili, figurati i sacchi di cemento da 50 chili che dovevamo portare al sesto piano… Tutto ovviamente in nero, non esisteva un contratto. Non potevi chiedere niente, non potevi parlare, dovevi solo lavorare come uno schiavo.
Tempo prima mio zio mi aveva portato con lui a fare la pulizia delle autostrade; ti mettevano sulle spalle un tubo enorme, pesantissimo, una specie di grande aspirapolvere con il quale dovevi togliere la sporcizia. Dopo la prima volta non ci sono più tornato. Per 30 euro preferivo starmene a letto a dormire.
In seguito ho fatto di nuovo il muratore in un posto più stabile, un’azienda di costruzioni. Sempre in nero, comunque. Tramite loro ho fatto anche diversi viaggi. C’era un signore, un hazara di nome Alì, sui quarant’anni, che aveva fatto il muratore anche in Iran e in Afghanistan e mi aiutava.
Ricordo che un giorno io e Alì stavamo lavorando nei pressi della spiaggia, dove c’è un ponte. Era estate, non avevo mangiato nulla ed era molto caldo, così sono svenuto e cadendo ho messo un piede su un chiodo.
Alì si è spaventato molto anche perché entrambi eravamo clandestini, stavamo lavorando in nero… Ha chiamato il capo, che è venuto personalmente e mi ha accompagnato in ospedale, dove mi hanno fatto l’antitetanica. Per un po’ non ho lavorato più, però la ditta mi ha tenuto e appena mi sono ripreso siamo andati in un’altra città, un paesino di nome Vytina, quasi nel centro della Grecia, dove c’era un albergo in costruzione, un progetto molto grande. Queste cose le so perché parlando inglese ogni tanto parlavo con i capi. Lì ho portato anche un altro amico, Keyhan, che ora è finito proprio in Svezia. Lì si faceva di tutto, dalle pulizie al lavoro con il legno, alla verniciatura… noi, pur non sapendo lavorare, mettevamo le mani ovunque.
Alì purtroppo si è rivelato un mostro, ha provato ad abusare di me sessualmente. Dovevamo condividere la stessa camera da letto e una sera, mentre dormivo, lui si è avvicinato a me. Mi sono svegliato e l’ho subito fermato, poi sono andato a dormire da un’altra parte. Io ero molto giovane e ingenuo, ma mi ha fatto molto male questo atteggiamento, rivivere questa cosa che avevo già vissuto in passato e, soprattutto, non avere nessuno con cui parlarne.
Non so come ero riuscito a farmi notare dai proprietari, Giorgos e Vanna, una coppia di persone meravigliose con cui sono ancora molto amico, sono tornato a trovarli nel 2010. Nel cantiere eravamo tantissimi e non è che dessero confidenza a tutti gli operai. Io però cercavo di parlare con loro, di conoscerli; si sono incuriositi, mi hanno chiesto: “Di dove sei?”, “Quanti anni hai?”. Una mattina il mio capo mi ha chiamato, anche un po’ arrabbiato, dicendo: “I capi vogliono parlare con te”. Così sono andato in una stanzetta appartata dove si erano creati una sorta di ufficio, un punto di riferimento per tutti. Appena entrato, li vedo sorridenti. Mi hanno detto: “Abbiamo una proposta per te. Ci sei piaciuto, vorremmo che ti fermassi a lavorare con noi qui anche dopo l’inaugurazione”. Mi hanno offerto 1.200 euro al mese, che nel 2006 erano tanti soldi. Avrei iniziato come tuttofare, con l’obiettivo di lavorare nel bar dell’albergo -altro lavoro per cui non avevo alcuna esperienza! Mi hanno lasciato il tempo per pensarci. Io da un lato ero felicissimo: su cento operai del cantiere lo avevano proposto proprio a me... Certo, volevo sempre partire, ma proprio non potevo rifiutare, anche i miei amici erano increduli. Così ho accettato la proposta e sono rimasto con loro. Il giorno prima dell’inaugurazione abbiamo lavorato fino alla mattina del giorno dopo. Sono rimasto con loro per qualche mese, mi hanno dato anche una stanza e prima dell’inaugurazione la signora Vanna mi ha portato in un negozio e mi ha comprato 400-500 euro di vestiti. Come a un figlio!
Finalmente avevo una vera casa, un lavoro, uno stipendio, delle persone che mi volevano bene. Nei lavori precedenti mi sentivo uno schiavo, sembrava normale che il capo ti urlasse contro.
Ero in paradiso. Lo stipendio era buono, poi ogni mese mi davano anche qualcosina in più. Mi piaceva, solo che avevo bisogno di raggiungere i miei obbiettivi, il principale per me era studiare. Ai proprietari lo chiedevo sempre: “Aiutatemi a prendere i documenti, a studiare”. Avevano anche provato a sentire qualche avvocato, ma non c’era niente da fare. Un giorno, dopo aver messo da parte un po’ di soldi, ho deciso di andarmene. Vanna ha pianto per un’ora. Un po’ mi ricordava mia madre quando sono partito dall’Iran. Dopo mesi di quella vita, sempre ad affrontare problemi e situazioni difficili, avevo trovato finalmente delle persone che si prendevano cura di me e le dovevo lasciare. È stato difficile.
I signori sono stati così gentili da portarmi in macchina ad Atene, che dista qualche ora di strada. La notte siamo rimasti a casa della madre di Vanna. Il giorno dopo ho preso un autobus per Patrasso e sono tornato in tenda, con i vestiti nuovi, uno zaino nuovo, i miei soldi…
Al campo ho scoperto che tante cose erano cambiate, alcune tende non c’erano più e c’erano persone nuove. La sera in una tenda di alcuni ragazzi che conoscevo mi dissero che c’erano dei trafficanti nuovi, tra cui Ahmad, un ragazzo che conoscevo, amico di mio zio, una brava persona -dopo ho scoperto che è morto, aveva iniziato a drogarsi. Insomma, la mattina Ahmad mi ha detto: “Perché non parti?”. E io, “Lascia perdere, non voglio riprovare con i camion”. Ma lui, convinto: “Dai, prendi la tua roba e andiamo”. Così, appena sveglio, senza alcun piano e nessuna organizzazione, neppure l’idea di riprovarci subito, ho accettato. Forse perché stavolta il trafficante era un mio amico.
Ho preso il mio zaino con i vestiti nuovi dentro, ho salutato tutti, ma in quel caso i saluti non suonano come un addio, pensi che comunque ti rivedrai dopo perché tanto andrà male. Siamo andati al porto e, come credo si faccia ancora adesso, ci siamo seduti sul muretto dall’altra parte della strada ad aspettare il momento giusto. Con noi c’erano sei-sette ragazzi pashtun e un signore amico di mio zio, di etnia hazara. Dopo un po’ Ahmad ci ha indicato un camion dicendo che al suo segnale avremmo dovuto seguirlo dentro al porto. Lui è entrato e ha aperto il portellone posteriore. Nel camion c’era della merce in scatole di cartone molto grandi, alte circa un metro e mezzo; in tutto il rimorchio ce ne saranno state cinque o sei e noi ci siamo infilati negli spazi tra una scatola e l’altra. Io non avevo speranze. Dopo qualche ora è arrivato l’autista e il camion è partito. Solita trafila: abbiamo sentito il camion fermarsi, i poliziotti arrivare… Ma stavolta, aperto il portellone, non ci hanno visto, così hanno chiuso e il camion è ripartito. Abbiamo sentito il rumore della passerella dove passano le macchine. Di nuovo la polizia, un altro controllo e ancora non ci hanno trovati. A quel punto, anche se in quel tentativo improvvisato non ci credeva nessuno, ce l’avevamo quasi fatta. Dovevamo comunque restare zitti e fermi, perché potevano ancora trovarci. Un’altra cosa era sperare che la nave andasse veramente in Italia.
Dopo qualche ora la nave è partita. Io avevo con me un orologio, per questo sapevo che da Van a Istanbul ci avevamo messo 43 ore. Abbiamo fatto tutto il viaggio senza bere. Non mi ero portato neanche una bottiglietta d’acqua. Figuriamoci, pensavo che dopo mezz’ora sarei tornato direttamente in tenda! Ma è così, se alla fine ce la fai dici: “Va beh, non berrò per 20 ore”.
Alla fine la nave è arrivata in porto e abbiamo sentito gli stessi rumori della partenza. Noi non avevamo idea di dove ci trovassimo, ma quello era il porto di Ancona.
Era il luglio del 2007, avevo 17 anni.
Nelle operazioni di sbarco rivivi l’angoscia della partenza. Senti la gente che urla, hai paura che ti scoprano, c’era qualcuno di noi che voleva aprire il portellone e uscire subito ma lo abbiamo fermato, sempre parlandoci a gesti per non farci sentire. Il camion poi è uscito e al primo controllo la polizia italiana non ci ha visti. Appena il camion ha ricominciato a muoversi abbiamo ripreso a respirare e capito che eravamo fuori dal porto perché, appena sceso il camion dalla nave, avevamo fatto dei piccoli buchi nell’intelaiatura per guardare fuori e vedevamo questa strada lunga, grande, piena di macchine… non sapevamo neanche cosa fosse. Era una superstrada! A quel punto ci sono due opzioni. Molti preferiscono aspettare dentro il camion, perché il camion forse -forse!- va a Roma o, ancor meglio, verso nord, a Milano, perché di lì vai in Svizzera… C’è chi l’ha fatto. Io invece volevo scendere il prima possibile, capire dove mi trovavo e decidere. Dopo circa mezz’ora il camion ha parcheggiato. A quel punto si poteva solo scappare. Alcuni volevano strappare il telo, ma io e l’amico di mio zio ci siamo arrabbiati: “Non lo fate, se poi ci trova il camionista si arrabbia ancora di più”. Dovevamo aspettare che qualcuno aprisse. Insomma, hanno aperto il camion per scaricarlo, perché eravamo arrivati dentro un’azienda, e vedendo noi, sette persone tutte sporche, dapprima si sono spaventati, poi qualcuno ha urlato: “Chiamate la polizia”. Abbiamo visto l’autista che andava a prendere un bastone… Siamo scappati.
Lì vicino c’era la superstrada, eravamo nei pressi di Camerino, in provincia di Ancona. A piedi siamo arrivati nella zona industriale. Ormai sapevo che per salvarsi bisognava separarsi dal gruppo; io poi ero il più presentabile, avevo i vestiti puliti, nuovi, mi ero anche tinto i capelli di biondo… Però questo signore amico di mio zio mi aveva chiesto se poteva venire con me, così ho accettato.
L’obiettivo era arrivare alla prima stazione, prendere un treno o un autobus e andare a Roma o a Milano. Avevo con me un permesso di soggiorno greco, falso, che mi ero comprato perché ad Atene senza documenti ti possono portare in prigione e lì la polizia era ovunque. La prima cosa che ho fatto è stata strappare questo documento e buttarlo in un cestino.
Ci siamo incamminati cercando di orientarci guardando i cartelli. Ovviamente a Camerino non ci sono cartelli che indicano “Milano, di qua” o “Roma, di là”. Abbiamo seguito la strada che diceva “centro”, parola italiana che avevo capito perché assomigliava a “center” in inglese. Sulla strada, ancora in periferia, abbiamo trovato un bar con un parcheggio enorme, lì mi sono nascosto dietro a un camion e mi sono lavato con un po’ d’acqua trovata chissà dove, mi sono cambiato, ho messo i vestiti puliti che avevo nello zaino, così almeno nessuno capiva come ero arrivato lì. Peccato che non eravamo in una metropoli… nessuno parlava inglese. Appena arrivi da fuori in un posto così sanno che sei o uno straniero, o un turista o un clandestino.
Siamo entrati nel bar e ho iniziato a parlare inglese per chiedere qualcosa da mangiare e cercare di capire dove fosse la stazione dei treni, ma mi hanno risposto che lì non c’era.
Appena siamo usciti, e questo l’ho capito dopo, hanno chiamato la polizia.
Noi intanto ci eravamo incamminati senza meta sulla statale. Arrivati sopra a un ponte che va verso l’autostrada, dove non si può passare a piedi, abbiamo sentito le sirene della polizia, credo fossero una macchina e due moto. C’era una poliziotta che mi si è avvicinata per parlarmi, non sapeva bene l’inglese ma ci siamo capiti. Ci hanno controllato le tasche e lo zaino, ma hanno trovato solo i miei soldi. La poliziotta mi ha chiesto dove li avessi trovati, io ho risposto che li avevo guadagnati… Erano forse 1.700 euro. Ma la poliziotta non mi credeva: “Non li hai rubati, vero?”. Ci hanno fatto salire sull’auto e siamo andati alla stazione di polizia.
Ricordo in quel viaggio in auto di aver notato subito la differenza con la Grecia. L’Italia era così bella, c’era così tanto verde, mentre nei dintorni di Atene la vegetazione era molto più brulla.
Durante il viaggio ho continuato a parlare con la poliziotta. Lei mi chiedeva dove volessimo andare, e io: “Andavamo verso Milano o Roma, vogliamo arrivare in Svezia”. E lei: “Perché in Svezia?”. “Bè, perché voglio studiare”. Lei mi ha risposto: “Anche qui puoi studiare! Se prendi i documenti qui puoi lavorare e studiare, puoi fare tutto quello che vuoi”. Queste cose non le sapevo. Avendo vissuto in Turchia e in Grecia, dove non hai diritti… Tutto ciò detto da una poliziotta, che non ti picchia, non ti insulta, non ti sputa in faccia, anzi, è così gentile… In Grecia ricordo di aver preso uno schiaffo in caserma da un poliziotto perché, a detta sua, “lo stavo guardando”. Ricordo di un amico, uno di quei coraggiosi che provava a partire anche dieci volte al giorno, che una volta è stato buttato a terra da un poliziotto -ormai era famoso tra di noi, gli altri ragazzi lo avevano soprannominato con il nome di un attore dei film di Bollywood che interpretava sempre il cattivo perché era proprio così, picchiava forte. Insomma, quella volta lo aveva buttato a terra e gli aveva tenuto il piede sulla testa schiacciandogli la faccia per terra. Era una giornata estiva caldissima, ci saranno stati 45 gradi. Quando l’abbiamo rivisto, al campo, aveva la faccia completamente distrutta, in più i poliziotti gli avevano rasato la testa…
Quella poliziotta, invece, era stata così gentile che anni dopo avrei voluto invitarla alla mia festa di laurea. Era stata lei a dirmi che potevo studiare anche in Italia… Purtroppo non l’ho mai ritrovata.
Alla stazione di polizia è arrivato un ragazzo africano che faceva da interprete e ci hanno chiesto da dove venissimo, in quanti fossimo… Io ancora non lo sapevo, ma avevano già arrestato tutto il gruppo! Erano tutti nell’altra stanza. Ci hanno portato da bere e chiesto se volevamo un caffè, poi ho raccontato il tragitto. Alla fine ci hanno portati tutti in un centro a Camerino, che credo fosse della chiesa, perché la prima notte abbiamo dormito in una specie di monastero.
Prima di portarci a dormire ci hanno condotti in una sorta di magazzino pieno di vestiti usati. Lì mi sono arrabbiato perché quelli della Caritas mi hanno costretto a consegnargli il mio zaino con i vestiti comprati due giorni prima. Avevano detto che il giorno dopo li avrei riavuti, ma chi li ha visti più? Forse aveva a che fare con la quarantena, non lo so.
Uno a uno abbiamo fatto la doccia in questo piccolo bagno, poi siamo andati a dormire tutti insieme in una stanza con tanti letti. Il giorno dopo ci hanno portati in un ufficio del Comune dove c’era un giudice, una signora che ci ha chiesto un po’ di tutto. Da allora non ho più rivisto gli altri. Dopo avermi interrogato, mi hanno portato con altre persone in un paesino, Pioraco, nei pressi di Camerino, dove c’era una comunità per i minori gestita da una cooperativa di Ancona. Ricordo il viaggio, i paesaggi, era tutto così bello che non ci credevo. All’epoca dell’ingresso a Istanbul, in quel famoso camion, c’era un buco tra i pezzi di legno dal quale vedevamo il cielo, il paesaggio. Anche prima di Istanbul c’era una montagna molto verde, piena di vegetazione, ma quello che stavo vedendo in quel viaggio per me era proprio un paradiso. Anche Pioraco era bellissima, sempre immersa nel verde, tutto pulito…
La comunità era in un ex albergo e con me c’erano altri minori albanesi e afghani. Uno di loro, Yama, l’ho invitato alla mia laurea. A ognuno di noi hanno dato un letto in una stanza doppia. Io continuavo a pensare alla Svezia, anche perché quel ragazzo che aveva lavorato con me qualche giorno in albergo ci era arrivato veramente. Era riuscito a raggiungere Roma e, siccome non aveva soldi, gli avevo mandato io 400 euro, così era riuscito a partire e ancora ci sentivamo al telefono o ci scrivevamo su messenger.
A Pioraco sono rimasto sei-sette mesi. Subito ho cominciato a chiedere di poter studiare, volevo avere dei libri, dei quaderni. Quelli della cooperativa ci hanno iscritti tutti al corso serale di italiano a Matelica, dove andavamo sia noi sia altri stranieri di altri paesi vicini.
Il maestro del corso di italiano era il professor Dante, che ogni tanto sento ancora. Lì ho cominciato a parlare italiano. Nel frattempo, quelli della cooperativa si stavano informando per farmi fare gli esami di terza media; una volta capito come fare, ho dovuto preparare l’esame in tre mesi.
Superato l’esame, ero ancora in comunità ma per andare al liceo dovevo andare a Camerino, dato che a Pioraco non c’erano scuole. Mi avevano iscritto come uditore all’Istituto geometri e mi hanno procurato tutto, lo zaino, i quaderni. Mi avevano dato il mondo! Tutte le mattine prendevo l’autobus con un ragazzo, Andrea, che era figlio di un carabiniere, era di Pioraco e anche lui doveva andare a scuola a Camerino. Così ho frequentato per almeno sei mesi l’Istituto geometri.
Lì ho conosciuto la mia “mamma italiana”, Giovanna, la mia insegnante di storia e italiano. Bravissima, molto simpatica...
Ho una foto di quella classe. Io avevo ancora in mente il sistema in Iran e Afghanistan: lì davanti al professore non respiri neanche, mentre a Camerino, sin dal primo giorno, l’atmosfera era molto rilassata e libera, sia tra gli studenti sia con i professori, soprattutto con lei, la prof Giovanna, una tipa molto scherzosa… Il primo giorno, appena mi ha visto, ha detto, scherzando: “Che ci fa questo arabo qui?”. I compagni si sono messi a ridere...
Sin da subito ha iniziato a dedicarmi più attenzione, anche perché vedeva che mi impegnavo. Intendiamoci, non è che prendessi chissà che voti, anzi, tante volte non me li davano neanche, i voti, però mi davo da fare, mi piaceva. Lei ha iniziato a prendersi cura di me, anche durante gli esami era forse l’unica che non mi faceva copiare. Da me pretendeva serietà anche se non ero iscritto, ero solo un uditore.
Questo mi ha aiutato molto a prendere sul serio la cosa, a impegnarmi. Ho preso a frequentare anche la casa di questa professoressa. Anche il marito, Cesare, era una persona molto interessante, un insegnante di storia e filosofia. Mi ricordo di un invito a Natale a casa loro, quando ero ancora in comunità. Io non ero mai stato a un pranzo di Natale! Non sapevo cosa fare, cosa portare… è stato molto bello. Quella sera, poi, ho conosciuto anche la loro figlia.
Tutto questo quando ero ancora a Pioraco, in comunità. Poi, nel febbraio 2008 ho compiuto 18 anni e mi sono trasferito a Camerino, sempre grazie alla cooperativa, che si era messa in contatto con la scuola che frequentavo e il Comune di Camerino.
Lì sono stato fortunato, ho trovato una persona, la signora Stella, che ha preso a cuore la mia situazione, si è messa in contatto con la Caritas e mi ha procurato una stanza nello studentato dell’università, poi mi ha aiutato a prendere una borsa di studio per sostenermi nelle spese quotidiane durante quel primo anno a Camerino. Nello studentato c’erano tanti altri ragazzi con cui sono amico ancora adesso. Insomma, è stato così che mi sono potuto iscrivere a scuola e, sempre grazie a lei, ho avuto accesso alla mensa dove pranzavo gratis. A cena, invece, mi compravo qualcosa con quei soldi che mi passava il Comune. Tutto questo lo devo a Stella, che purtroppo dopo è morta di un tumore, e a Lucia, un’altra signora che è stata la mia “nonna italiana”. Tutte queste cose non le ho mai raccontate a nessuno, almeno non in maniera così dettagliata.
Ora molti della mia famiglia sono in Europa. Mancano solo mio padre e una mia sorella che stanno in Turchia. Sono gli unici che ancora non sono arrivati, ma purtroppo non riusciamo a trovare il modo di riavvicinarli. Se ce la facessero anche loro sarei finalmente libero di vivere la mia vita.
Ho un fratello a Zurigo e uno a Monaco di Baviera. Mia madre sta con mia sorella, suo marito e i loro quattro figli a Basilea. Anche la loro storia è particolare.
Loro avevano sempre vissuto in Iran, è lì che sono nati tre dei loro figli ma, nonostante tutto, dopo tanti anni ancora non avevano diritti. Il motivo per cui hanno deciso di andarsene, anche se là stavano abbastanza bene, è una cosa che è successa a uno dei miei nipotini quando era al secondo anno delle elementari. Lui era il migliore della sua classe, però era anche l’unico afghano. L’ultimo giorno dell’anno scolastico la scuola ha organizzato una festa per tutti gli studenti, in cui hanno consegnato le pagelle e un regalino a tutti, tranne che a lui: il bambino aspettava il suo turno, ma non l’hanno mai chiamato. Il preside aveva deciso che siccome lui era afghano rifugiato non poteva essere premiato. Mia sorella mi ha telefonato in lacrime per raccontarmi cos’era successo, di come il figlio era tornato a casa disperato perché non aveva avuto la sua pagella. Per me è stato come morire di nuovo, così ho detto loro: “Ve ne dovete andare di lì”.
Così hanno deciso e sono andati via. Dopo mi sono pentito del mio consiglio, perché si sono imbarcati nello stesso viaggio che avevo fatto io, con tre bambini piccoli, l’ultima era appena nata… Ho provato a convincerli a tornare in Afghanistan, ma loro volevano venire in Europa. Non vi dico quello che ho sofferto mentre erano in viaggio, sapendo che stavano facendo la mia stessa strada...
(a cura di Gianni Saporetti e Massimo Tesei)