Sono nato nel 1935 a Varsavia ma sono vissuto a Plotzk, una piccola città sulla Vistola, dove c’era una delle comunità ebraiche polacche più antiche, che ha dato i natali a personalità importanti. Ci sono documenti storici che ne parlano già a partire dal 1237. Erano circa diecimila ebrei (su una popolazione di trentamila persone), ben organizzati, con tutte le loro istituzioni, i partiti politici, le scuole, gli ospedali, il teatro, l’ospizio.
Non siamo mai stati ricchi. Prima della guerra mio padre aveva un laboratorio tessile che produceva maglie e calzini, una proprietà “comune” della famiglia Guterman.
La nostra famiglia poi era piuttosto bizzarra: una delle sorelle, Sara, era stata in carcere dieci anni come comunista, un fratello di mio padre, invece, era molto religioso e aveva studiato presso un famoso rabbino. Uno zio, Yacoov, era molto malato e mio padre si occupò sempre di lui, anche economicamente. C’era anche una sorta di cassa comune, per cui chi aveva bisogno di soldi poteva usufruirne, una specie di kibbutz in miniatura.
Mio nonno era un ebreo chassidico molto religioso, divenuto poi rabbino, il famoso Guterman di Radzymin. Mio padre mi raccontava di quando, scovato a leggere un libro di Spinoza, gli arrivarono due sonori schiaffi: solo la Torah e il Talmud erano ammessi. Mio padre da giovane militò per molti anni in un’organizzazione socialista sionista, poi verso la fine degli anni Trenta, quando si accorse che il movimento sionista in realtà non decollava, che nessuno partiva per la Palestina -a parte alcuni pionieri un po’ pazzi- cambiò idea e diventò comunista pure lui, vagheggiando una rivoluzione mondiale che ponesse fine a tutte le discriminazioni. Un modo di pensare forse un po’ ingenuo, ma furono in milioni a crederci: tutto il mondo si sarebbe convertito al socialismo e ciò avrebbe segnato la fine dello sfruttamento del proletariato.
Quando cominciò la guerra io avevo quattro anni, ero figlio unico. Mia madre si chiamava Chana, mio padre Simha e mi amavano moltissimo. Ho avuto un’infanzia molto bella e gioiosa, che però è durata solo quattro anni.
Quando i tedeschi entrarono in città, cominciammo a vivere in uno stato di terrore. Io non capivo, ma vedevo i miei genitori tristi e preoccupati, la gente pallida e silenziosa, e poi le voci di persone ferite, catturate, uccise in mezzo alla strada, gli ebrei costretti a girare con la stella di David e a non camminare sullo stesso marciapiede dei polacchi, e se non ti toglievi il cappello davanti a un soldato tedesco venivi colpito… Ogni giorno c’era la minaccia di essere deportati in un campo di lavoro, e poi l’assenza di soldi che angosciava e la minaccia degli imprigionamenti con richiesta di riscatto. Un’atmosfera terribile. E la cosa peggiore era non sapere cosa avrebbe portato il domani. Le notizie si muovevano a velocità telegrafica, avevamo saputo di piccole cittadine in cui gli ebrei raccolti in sinagoga erano stati bruciati insieme all’edificio; in un’altra città vennero catturate venti persone e nessuno seppe mai la fine che avevano fatto. Nella stessa Plotzk vennero presi e uccisi gli anziani dell’ospizio ebraico e i malati e il personale dell’ospedale. E ancora, il primo maggio del 1940 le SS cooptarono un gruppo di operai per lavorare in un piccolo campo (come aderenti alla socialdemocrazia, e quindi al socialismo, i tedeschi celebravano il primo maggio) e quando il lavoro fu ultimato li picchiarono per un giorno interno. Alcuni li spinsero a calci dentro delle casse di di legno con dei chiodi nelle pareti interne…
Anche noi fummo costretti a lasciare la nostra bella casa, una bifamiliare, e a trasferirci nel ghetto.
Quella casa esiste ancora e quando vado in Polonia con qualche gruppo di giovani o amici, torno sempre a Plotzk e mostro loro la “mia” casa… Anche se oggi è diventata una casa come un’altra, ci vivono sei famiglie, mia madre e m ...[continua]
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