Il 1968 fu un anno ingeneroso con Nicola Chiaromonte. A dicembre cessava infatti le pubblicazioni “Tempo presente”, la rivista fondata insieme a Ignazio Silone nel “memorabile”, e ormai lontano, 1956. Con la sua fine a Chiaromonte veniva meno il luogo virtuale, faticosamente e tardivamente raggiunto, da cui -nonostante il non facile rapporto con Silone- condurre liberamente la propria ricerca intellettuale, ragionando -come era solito affermare- «senza rispetti umani», rispondendo cioè delle sue idee solo a se stesso e ai suoi lettori. E veniva meno mettendo inopinatamente in dubbio agli occhi dei più proprio quell’indipendenza di giudizio, quell’assenza di condizionamenti esterni, quel non avere tesi precostituite da difendere, che invece per Chiaromonte, come per Silone, aveva costituito la cifra della rivista, la sua stessa ragione d’essere. Gliene derivò -stando anche alla preziosa testimonianza di Gino Bianco- una sofferenza profonda che forse non fu estranea a un ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute (Chiaromonte, da tempo cardiopatico, sarebbe morto alcuni anni dopo, nel gennaio del 1972).
Non è qui il luogo per ripercorrere la ormai nota vicenda dei finanziamenti della Cia al Congress for Cultural Freedom e al circuito delle riviste delle sezioni nazionali che lo costituivano.
Indipendentemente dal grado di consapevolezza che Chiaromonte ebbe dell’origine dei finanziamenti che attraverso una complessa operazione finanziaria arrivavano fino a “Tempo presente”, a testimonianza della libertà di giudizio di Chiaromonte e di Silone rimangono infatti le pagine della rivista, tutt’altro che prive di critiche nei confronti della politica estera statunitense e del cosiddetto “mondo libero” (come anche gli articoli qui riprodotti documentano). Lo scandalo però incrinava, come Chiaromonte stesso privatamente certo non si nascondeva, l’autorevolezza della sua voce. Ne comprometteva soprattutto la possibilità di accreditarsi quale interlocutore credibile non tanto presso l’opinione pubblica e meno che mai presso la “classe intellettuale” genericamente intesa, del cui giudizio peraltro poco si interessava, quanto, usando le sue parole, presso quei “non indifferenti” che avessero la ventura di imbattersi nelle sue riflessioni. E fra questi, massimamente, i giovani.
Non stupisce allora il ricordo di Marino Sinibaldi secondo il quale per la generazione del ’68 Nicola Chiaromonte era semplicemente il critico teatrale de “L’Espresso”, «un ruolo tutto sommato marginale di un settimanale percepito come autorevole e utile, ma estraneo, distante dalla cultura del movimento». Un’estraneità che non è difficile immaginare si sia tradotta per una minoranza, magari a conoscenza del suo percorso intellettuale e politico, in qualcosa di più, in diffidenza quando non in aperta ostilità.
Nonostante il sospetto con cui potevano essere accolte le sue parole, Chiaromonte nell’ultima fase della sua vita tentò, prima dalle pagine di “Tempo presente” poi da quelle de “La Stampa”, cui prese a collaborare proprio alla fine del ’68, di allacciare un dialogo con quella generazione, nella cui inquietudine scorgeva potenzialità positive, ma anche una pericolosa tendenza autodistruttiva. Ne risultò una lettura della contestazione studentesca lucida e preveggente, fra le più interessanti e certo disconosciute, che non a torto è stata accostata, pur nella profonda differenza di accenti, a quella ben più nota offerta da Pier Paolo Pasolini.
All’origine della sua riflessione vi era un rapportarsi ai giovani contestatori che evitava tanto l’atteggiamento di chi pensasse «che i giovani hanno ragione perché sono giovani» correndo loro appresso «nella certezza che essi marciavano nel senso della Storia» che quello di chi al contrario si rifugiava nella riprovazione moralistica, rifiutandosi categoricamente a ogni confronto.
L’approccio di Chiaromonte voleva essere di altra natura, «senza indulgenza né disprezzo». Probabilmente dettato anche dalla propria condizione personale, di intellettuale in un certo senso “marginale” (che faceva sì che neppure metaforicamente si sentisse “padre” di quella generazione), sostenuto da un profondo desiderio di comprensione, volle proporsi come un vero interlocutore, riconoscendo a quei giovani una piena maturità intellettuale, dichiarandosi disponibile a discuterne sul serio le idee, a «fomentarne lo spirito di libertà» «con la critica», anche aspra. Offriva loro di condividere no ...[continua]

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