Se c’è qualcuno che ancora dubita che l’America sia un luogo dove ogni cosa è possibile, che ancora si domanda se il sogno dei nostri padri fondatori sia ancora vivo oggi, che ancora dubita del potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto la risposta che cercava...
Barack Obama
Chicago, 4 Novembre, 2008

“Il Presidente Eletto Barack Obama”: per i progressisti americani, convinti che negli ultimi otto anni il loro paese sia stato dirottato da spietati bucanieri, queste parole, a settimane di distanza dallo spoglio dei voti, continuano a riecheggiare come una promessa irreale, sospesa a mezz’aria.
Dopo la vittoria sull’imponente macchina elettorale dei Clinton, in quella lotta infinita che sono state le primarie democratiche di quest’anno, Obama ha conseguito un vero e proprio trionfo sul repubblicano John McCain -e sulla campagna di paura e divisione cui, per la disperazione, l’anziano candidato aveva fatto ricorso- trionfo che lo ha portato a diventare il quarantaquattresimo presidente statunitense. Fin dal suo avvio, la campagna di Obama si è dimostrata coerente nel tono e brillantemente organizzata, anche nella militanza di base.
L’intera campagna si è appellata ai “migliori angeli custodi della nostra natura”, per citare le parole di un altro giovane politico dell’Illinois asceso fino all’Ufficio Ovale, l’uomo che Obama ama più spesso citare: Abraham Lincoln. La grande folla in delirio che osannava Mr. Obama e la sua giovane famiglia, mentre questi guadagnava il palco per pronunciare il discorso della vittoria al grande parco lacustre di Chicago, in quella notte, sfoggiava volti colmi di una gioia e di uno stupore che non vedevo sin dalla caduta del Muro di Berlino, diciannove inverni or sono. Dopo una lunga serie di ricorsi, la storia ci ha finalmente offerto una piacevole sorpresa molto attesa. Ancora una volta l’America, terra di giustapposizioni, ibridi e conflitti, combina elementi a noi tutti familiari per offrire al mondo qualcosa di completamente nuovo. La sua gente, con questo ennesimo esercizio di innovazione, ci ispira ancora una volta.
Il nostro primo Presidente nero ha ottenuto il 53% del voto popolare, abbattendo la maggior parte delle linee divisorie -regionali, di classe, etniche, religiose- che per così tanto tempo erano sembrate inespugnabili nel nostro Paese.
Obama ha vinto tra gli indipendenti e gli under-40 -per i quali le categorie razziali sembrano aver perso il loro potere “tossico”- e negli Stati da sempre considerati prettamente repubblicani, nella “Rust Belt” (l’Indiana), tra le Montagne occidentali (il Colorado, il Nevada) e, ciò che più è sorprendente, in quelli che un tempo erano noti come Stati Confederati (la Virginia e il North Carolina). La maggioranza, in questi Stati, ha restituito al mittente l’idea, spinta fino all’estremo con sconsiderata sfacciataggine dalla candidata alla vice-presidenza di McCain (quella Sarah Palin dall’Alaska, ignorante e ambiziosa ex-annunciatrice televisiva e reginetta di bellezza), secondo cui quei bianchi caricaturali, abitanti dei sobborghi o delle campagne, xenofobi e fondamentalisti repubblicani su cui tanto il Partito aveva fatto affidamento in passato rappresentassero la “vera America assediata da un ‘Altro’ esotico e pericoloso”. I tentativi di infangare il senatore Obama definendolo “musulmano inconfessato”, “arabo”, “amico dei terroristi”, e/o “socialista” hanno perlopiù avuto l’effetto opposto rispetto a quello sperato. I motivi? La trasformazione demografica del corpo elettorale, un diffuso senso di insofferenza e risentimento per l’incompetenza, la corruzione e l’estremismo dell’Amministrazione Bush e, non meno importante, la calma che Mr. Obama è riuscito a trasmettere e la sua specchiata condotta rispetto alla peggiore serie di catastrofi economiche dalla fine della Grande Depressione.
La realtà concreta della crisi economica che il nuovo presidente eredita su questo fronte, oltre che su molti altri, diviene sempre più evidente col trascorrere, fin troppo lento, del periodo di transizione...
Ancora dopo l’esito elettorale, Wall Street e i mercati continuano a precipitare, senza che sia possibile intravedere la fine di questa caduta libera. I sistemi bancario e creditizio, a dispetto dei miliardi spesi per tentarne il salvataggio, permangono nelle medesime condizioni disastrose. I posti di lavoro continuano a svanire, mentre le case vengono espropriate a una velocità che lascia storditi. I “Big Three”, le tre aziende di Detroit leader del settore automobilistico, si barcamenano sulla soglia dell’insolvenza, mentre i loro inetti e screditati chief executives volano ancora su tre lussuosi jet privati per andare a Washington a implorare “aiuti d’emergenza”. Le aspettative sulla nuova amministrazione restano alle stelle, e sarà da vedere se Obama, per quanto sia indiscutibilmente talentuoso, si rivelerà sul serio come quel “nuovo Franklin Delano Roosevelt” che, in questo momento di smarrimento, molti vorrebbero che fosse. Ha già dichiarato l’intenzione di intraprendere misure la cui portata sarà commisurata alla situazione, e nella sua lista di priorità troveranno lo spazio che meritano questioni trascurate da troppo tempo quali il fair play in economa, la gestione delle infrastrutture e il servizio sanitario.
Ma gli “istinti” di Mr. Obama, tanto nel temperamento che in politica, sono pragmatici, centristi, come già ha avuto modo di dimostrare nei suoi primi incarichi politici. Il mondo osserva (prevalentemente) con benevolenza al nuovo volto con cui l’America si presenta oggi sullo scenario della politica estera, e sarà interessante verificare se il Presidente e Hillary Clinton, la sua ex acerrima rivale (che mentre scriviamo sembra destinata a fargli da Segretario di Stato), riusciranno a usare i propri alti profili per risollevare le sorti di due conflitti, concertare la pace in Medio Oriente, e in generale presentare un approccio più intelligente, meno bellicoso, nella risoluzione delle dispute internazionali.
La maggior parte degli elettori era impaziente di respirare lo spirito bipartisan che la nuova leadership sembrerebbe possedere, e di veder reintrodurre quel sistema di checks & balances finora tanto maltrattato, dentro e fuori del governo. Dato l’abissale fallimento fatto registrare dall’Amministrazione negli ultimi otto anni, le prospettive di un miglioramento in questa transizione politica sembrerebbero incoraggianti. E’ già un sollievo immaginare di avere un presidente che riesce a esprimersi con frasi di senso compiuto, che sembra in grado di afferrare tutte le sfumature e la complessità delle questioni in campo.
Le sfide che ci troviamo a fronteggiare non devono impedirci di soffermarci sulla portata storica di quanto accaduto il primo martedì dello scorso novembre. Con una storia nazionale imbevuta di razzismo e schiavitù, con la segregazione “bonaria” nel segno di Jim Crow (personaggio ricorrente nelle canzoni dei menestrelli dei primi del XX secolo, stereotipo di nero di buon cuore che vorrebbe essere bianco, Ndt) ancora presente nell’immaginario collettivo, con i sogni e le aspirazioni di Martin Luther King e di Robert Kennedy ancora saldi nella nostra mente a quarant’anni dal loro martirio, una First Family nera si trasferirà il 20 gennaio alla Casa Bianca. “Aspettavamo da molto tempo questo giorno”, ha detto il Presidente Eletto alla folla festante, nello stesso parco dove la polizia aveva accolto con manganelli e gas lacrimogeni i manifestanti che protestavano contro la guerra in Vietnam nel 1968. “Stanotte, proprio in virtù di ciò che abbiamo conseguito in queste elezioni, in questo momento storico, il cambiamento è giunto in America”. E’ la nostra occasione di riscattare queste politiche ciniche, prive di immaginazione, dominate dall’avidità e dalla paura, e di affidarci all’ampia visione che Barack Obama ha potuto definire in quello che è già un bestseller, il suo libro L’audacia della speranza. Il dizionario definisce “audacia” come “coraggio ardito e intrepido”.
Ci serviranno queste qualità di immaginazione, in grande quantità, e rafforzate dalla persistenza e dalla determinazione, per navigare negli inediti stravolgimenti in cui ci troviamo.
Gregory Sumner
Detroit, novembre 2008