“Ormai non sei più tu”. E’ quanto scrive Mahmoud Darwish in un testo in cui si rivolge al popolo palestinese. A tutti i Palestinesi. Con questa frase il poeta sembra prendere atto della normalizzazione dell’islamismo all’interno del movimento palestinese: proprio tu, la cui particolarità, in un mondo arabo-musulmano sopraffatto dal crimine ideologico, era quella di non ucciderti a vicenda, ti trovi oggi di fronte ad un fratricidio.
L’ingiustizia alla base della questione palestinese aveva ammantato la causa di una sorta di sacralità. Scongiurando fino ad oggi, e lungo tutta la sua storia, il rischio di uno scontro intestino, nonostante le divergenze ideologiche, strategiche, le reti di influenza e di pressione, la resistenza palestinese si era imposta all’attenzione internazionale.
Questa identità unitaria non è riuscita tuttavia a resistere agli assalti dell’islamismo instillato metodicamente, qui e altrove, nelle società musulmane.
Le forze che hanno adottato la religione come arma di conquista del potere sui popoli a maggioranza musulmana non potevano ignorare la Palestina. Una delle rare nazioni della sfera culturale islamica ad avere sperimentato, in piena lotta di liberazione, la pratica democratica, era destinata a diventare un obiettivo prioritario dell’islamismo bellicoso. La fragilità di una comunità senza stato e la legittimità della violenza popolare per via dell’occupazione straniera hanno finito per facilitare il compito. L’islamismo, scarto dopo scarto, ha virato: il cannone, puntato in un primo tempo verso il nemico, si dirige così contro ogni ostacolo che si interpone alla sua vocazione totalitaria.
La Palestina si trova oggi nel bel mezzo di questa esperienza fascistizzante. L’Intifada ha costituito un’ottima occasione per i dirigenti islamisti e i loro finanziatori. Una resistenza che ha dimostrato la sua efficacia politica risparmiando il più possibile vite palestinesi si è trasformata in un movimento di violenza suicida, mandando in frantumi la gloria di una lotta che aveva costretto la comunità internazionale con le spalle al muro, mettendola di fronte alle sua responsabilità morali. E non è un caso che proprio quando uno stato palestinese è stato percepito come un “frutto maturo”, l’islamismo ha scoperto la propria vocazione “liberatrice”. Eppure nella storia della colonizzazione non ci sono esempi di una leadership religiosa in una guerra di liberazione. La repressione israeliana, prioritariamente orientata contro i dirigenti dell’Olp dell’interno, ha facilitato l’espansione politica delle organizzazioni islamiste, come Hezbollah e Hamas. Il populismo che Yasser Arafat ha opposto al radicalismo, populista anch’esso, degli islamisti, ha aperto il campo alla loro avanzata ideologica.
E’ la prima volta che un presidente definisce ufficialmente un’organizzazione islamista per quello che è: terrorista. E non senza averne prima fornito la dimostrazione rispettando la scelta popolare di affidarle il governo, assumendosi poi la responsabilità di condividere con essa quello stesso governo.
Assassinando dei poliziotti, dei dirigenti politici, e dei funzionari palestinesi Hamas ha gettato la maschera.
Abbas si è preso le sue responsabilità e così ha messo i suoi amici e i “fratelli” dei palestinesi davanti alle loro.

*Mustapha Hammouche è editorialista del quotidiano algerino Liberté.