Un binazionalismo egualitario
israele-palestina

Una Città n° 307 / 2025 febbraio
Intervista a Bashir Bashir
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
UN BINAZIONALISMO EGUALITARIO
Nel contesto di una situazione che è andata deteriorandosi, il coraggio di una proposta che è etica prima che politica, e che, rompendo un tabù, parte da un confronto con le memorie dell’Olocausto e della Naqba, i traumi che hanno segnato i due popoli; la necessità, per qualsiasi processo di pacificazione, di riconoscere l’asimmetria di partenza; la “Palestina globale”, che è diventata metafora della lotta contro l’ingiustizia. Intervista a Bashir Bashir.
Bashir Bashir, cittadino israeliano-palestinese, è nato a Sakhnin, nel nord di Israele. Dopo aver studiato sociologia e antropologia all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha conseguito un dottorato in teoria politica alla London School of Economics. È docente presso il dipartimento di sociologia, scienze politiche e comunicazione della Open University of Israel e ricercatore senior presso il Van Leer Jerusalem Institute; attualmente è borsista al Wissenschaftskolleg di Berlino. Il libro di cui si parla nell’intervista è Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma (Zikkaron, 2023), che ha curato insieme a Amos Goldberg dell’Università ebraica di Gerusalemme.
Puoi parlarci di come vedi la situazione in Israele-Palestina e di come l’hai vista cambiare negli ultimi anni?
Purtroppo le cose sono andate peggiorando. Ci sono ovviamente ragioni molto complesse, ma la principale, almeno in senso politico, è che la società ebraica israeliana sta scivolando verso una nuova forma di fondamentalismo populista di destra, caratterizzata anche dalla presenza di gruppi neofascisti. È una trasformazione che influenza la politica e le dinamiche del Paese e, per estensione, anche il modo in cui esso si rapporta ai palestinesi in Israele e, in modo più generale, sta impattando sulle libertà individuali e collettive, anche degli ebrei.
Un indicatore del deterioramento della situazione è che le prospettive di un impegno serio da parte di Israele rispetto alla tutela dei diritti fondamentali dei palestinesi sono molto scoraggianti. Israele è andata adottando una forma sempre più brutale e aggressiva di colonialismo anche a Gerusalemme Est, luogo dove vivo e della cui condizione straziante sono testimone.
In questi anni si è manifestata una tendenza molto chiara, iniziata già con i governi precedenti, segnata da una mancanza di volontà politica e di testardaggine ideologica della stragrande maggioranza dello spettro politico israeliano, alcuni esponenti della sinistra sionista inclusi, nel non lavorare per un accordo serio in direzione della creazione di uno Stato palestinese nel rispetto delle loro aspirazioni minime. Piuttosto, abbiamo assistito a un’indurimento dell’occupazione israeliana, con l’espansione degli insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania e il prolungato assedio della popolazione di Gaza, che aveva portato alla trasformazione di Gaza in un luogo a malapena vivibile, già prima del 7 ottobre.
Tutto questo, messo insieme, fa presagire sviluppi molto inquietanti, in un clima in cui l’oppressione dei palestinesi e le violazioni dei loro diritti vanno aggravandosi. Sicuramente nel caso del genocidio di Gaza l’abbiamo visto in modo più esplicito, ma le basi erano già ravvisabili nella crescente brutalità esercitata negli ultimi anni.
Puoi parlarci del progetto avviato con Amos Goldberg, dove, nel rispetto delle diverse specificità e proporzioni, sostenete che i due traumi, quello della Shoah e quello della Naqba, hanno aspetti comparabili? Nel fare questo accostamento, avete in qualche modo violato un tabù.
È un progetto che risale a oltre dieci anni fa ed è frutto di una lunga storia di collaborazione con Amos. Tutto è iniziato con una conversazione, che non si è mai interrotta, molto seria e motivata, almeno dal mio punto di vista, ma credo anche da quello di Amos, dalla convinzione che dobbiamo entrambi essere molto sinceri e sensibili e al contempo cercare di progredire verso una soluzione più inclusiva ed egualitaria. I rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch e altri, con diverse varianti, denunciano come il comportamento del regime israeliano sia oggi molto problematico, sicuramente in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, ma anche all’interno di Israele dove, come ricordavo, assistiamo a un forte scivolamento verso tendenze antidemocratiche ed etniciste. Alcuni di questi rapporti arrivano a definire Israele un apartheid; altri sono più cauti.
Per quanto riguarda la tua osservazione sulla violazione di un tabù, noi riteniamo che non ci sia altra scelta: bisogna confrontarsi con le memorie dell’Olocausto e della Naqba, perché queste sono centrali, costitutive e fondanti tanto per gli arabi palestinesi quanto per gli ebrei israeliani. Naturalmente si tratta di una questione estremamente delicata, quindi è necessario farlo con molta cautela. Se abbiamo violato un tabù, certo l’abbiamo fatto avendo a cuore i sentimenti, le storie, le particolarità e le specificità dei palestinesi, degli israeliani e degli ebrei in generale.
Devo anche segnalare che in questa operazione non c’è una vera originalità, non siamo dei pionieri. Qualsiasi conversazione seria tra un israeliano e un palestinese o comunque tra coloro che sono impegnati in questo conflitto arriva sempre a toccare le vicende dell’Olocausto e della Naqba.
Come ricordiamo nell’introduzione, l’aveva già fatto il poeta Avot Yeshurun, e con lui molti altri, sia da parte israelo-ebraica che da quella palestinese e araba. Noi abbiamo voluto fare un passo ulteriore e capire cosa comporta mettere queste due vicende all’interno di una stessa cornice sul piano etico e politico.
Proprio approfondendo questi due traumi, si è rafforzata la nostra convinzione per cui l’unico futuro ragionevole per questa terra che va “dal fiume al mare” non possa che essere un regime di collaborazione tra arabi ed ebrei, che devono quindi poter vivere all’insegna dell’uguaglianza e non di un regime suprematista ebraico-israeliano che nei fatti si sta trasformando in un apartheid.
Quello che per me e Amos va fatto è intanto far emergere l’asimmetria. Non si può infatti parlare di pacificazione presupponendo una simmetria, ignorando quindi il colonialismo e la segregazione dei palestinesi.
Noi parliamo di un “binazionalismo egualitario” considerandolo una forma di etica. Ma non ci limitiamo a fare una diagnosi: vogliamo anche provare a indicare una strada che non può che fondarsi su una parità del partenariato arabo-ebraico al cui centro dev’esserci la reciproca legittimità.
Questo significa avviare un processo di decolonizzazione e quindi di riconciliazione storica tra arabi ed ebrei.
Il nostro è un invito che riguarda noi, ma anche voi, perché in fin dei conti la questione di Israele e Palestina è una questione europea, perché è nata dall’incapacità dell’Europa di affrontare la questione ebraica. So che questo non è un punto di vista popolare, ma aggiungo che esiste una complicità dell’Europa cristiana con Israele e il progetto sionista. È una provocazione, ma anche un invito serio e sincero a pensare fuori dagli schemi, a ripensare le cose e a interrogarsi, a infrangere i tabù non per il gusto della provocazione, ma per aprire nuovi orizzonti piuttosto che chiuderli.
Ricordavi come questi due eventi, la Naqba e la Shoah, emergano inevitabilmente nel dialogo tra ebrei israeliani e palestinesi. Esistono ancora momenti e luoghi in cui gli ebrei israeliani e i palestinesi dialogano?
I palestinesi dei Territori Occupati e gli ebrei israeliani avevano ampie opportunità di interazione nel mercato del lavoro, nel commercio, nel turismo interno, e così via. Paradossalmente, dopo gli accordi di pace di Oslo quelle opportunità sono diminuite a causa delle politiche israeliane di separazione (tramite check-point, strade inaccessibili di attraversamento, muri, etc.) e della seconda Intifada.
Il punto però non riguarda meramente le possibilità d’interazione o la loro assenza, bensì i valori e le norme che governano queste interazioni.
Quelli che viviamo sono giorni di lutto, di tristezza, giorni in cui ciascuno di noi si confronta con tutta una serie di riflessioni dentro di sé. E certo il tipo di dialogo di cui parlo è incredibilmente difficile oggi, come lo è parlare di binazionalismo egualitario, di Olocausto e Naqba. I palestinesi stanno assistendo ad alcune delle forme più atroci di violenza mai sperimentata dal ‘48 in poi, la cui intera portata deve essere ancora svelata. Anche gli israeliani si portano dietro i propri traumi, altrettanto atroci, e mi riferisco agli attacchi criminali da Gaza contro i civili israeliani, crimini che hanno fatto riaffiorare in loro molte paure.
Purtroppo sono molti gli elementi che continuano ad alimentare la mancanza di fiducia reciproca e le rispettive paure. E tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola di rappresentare gli israeliani esclusivamente come vittime. Uno degli aspetti che ritengo abbia reso la condotta israeliana a Gaza così spregiudicata, è che Israele insiste sempre nel parlare a nome degli ebrei. Quello che è accaduto in questi mesi ha aperto una sfida etica senza precedenti che riguarda sicuramente gli ebrei israeliani, ma anche gli ebrei in generale, rispetto alle atrocità che Israele ha compiuto negli ultimi settant’anni, e che continuano ancora oggi a Gaza, in Cisgiordania, all’interno di Israele e a Gerusalemme.
Gli ebrei stessi oggi si interrogano su questo loro privilegio del vittimismo. Perché oggi proprio il loro regime è responsabile di un genocidio. E tuttavia noi insistiamo che proprio il dramma di questa realtà, fatta di sangue, violenza, odio e paura, può spingere verso una conclusione molto audace, e cioè che per arabi e israeliani non c’è altra scelta che cercare una soluzione praticabile e condivisa.
Gli ebrei israeliani non possono far sparire il popolo palestinese. Le immagini che abbiamo visto, con centinaia di migliaia di persone che marciano dal sud al nord di Gaza, non fanno che confermare che i palestinesi non hanno alcuna intenzione di scomparire. I palestinesi non diventeranno l’ennesimo gruppo indigeno di qualche angolo del globo sradicato e ripulito etnicamente. Dall’altra parte, anche i palestinesi devono rendersi conto, però, che neppure gli ebrei israeliani hanno intenzione di sparire, né di andarsene.
Questa è la situazione e qualsiasi osservatore onesto vede quanto sia esplosiva questa situazione, proprio perché è ingiusta e si fonda sul terrore e su una forma di suprematismo razzista.
I palestinesi non possono accettare di essere subordinati a questo regime coloniale che vuole mantenere il privilegio e la supremazia agli ebrei. Credere che una maggiore violenza porti a una maggiore sicurezza e che si possa far sparire i palestinesi e al contempo integrarsi nella regione e fare la pace con il mondo arabo è una strada senza uscita. Costruire più muri e posti di blocco, impiegare sempre più sofisticate tecnologie di sorveglianza e oppressione, dotarsi di più armi e bombe sono tutte cose che non renderanno gli israeliani più sicuri. Gli ebrei israeliani saranno al sicuro solo quando i palestinesi vedranno riconosciuti i loro diritti e le loro libertà e vedranno esaudita la loro richiesta di giustizia e uguaglianza. Ora, se condividiamo che questa è un’osservazione ragionevole, qui si aprono nuovi orizzonti per quello che stiamo proponendo.
Voi parlate non solo di una nuova politica, ma anche di una nuova “grammatica”.
Se vi trovate nel bel mezzo di un disastro, dove all’orizzonte vedete solo altra paura, terrore, delegittimazione e violenza brutale, dentro di voi, casomai nella parte più recondita della vostra mente, sentirete una voce che vi dice che ci dev’essere, che c’è un’altra via.
Questo libro ne propone una, quella appunto del binazionalismo egualitario.
Ovviamente siamo consapevoli dei limiti di questo progetto e anche della sua possibile impopolarità, ma credo che il suo successo derivi soprattutto dal fatto che porta con sé un invito alla conversazione, al dialogo, e al perseguimento di una soluzione.
Attenzione, però, lo ripeto: non stiamo dicendo che Palestina e Israele devono parlarsi come se fossero uguali. L’analisi sull’oggi non può che partire dalla consapevolezza che gli israeliani sono gli occupanti e i palestinesi gli occupati. Non c’è simmetria e questo va riconosciuto per una qualsiasi forma di dialogo e coesistenza.
Chiediamo di riconoscere che la realtà esistente è asimmetrica e fondata sulla paura e su traumi che, se non riconosciuti, e strumentalizzati, continueranno a riproporsi.
Noi invitiamo a guardare le cose all’insegna dell’impegno reciproco e del mutuo coinvolgimento. Questo ha un costo che è quello che noi chiamiamo “inquietudine empatica”. Parliamo infatti di una conversazione che destabilizza, che deve destabilizzare, nel senso di portar fuori dalla zona dalla comodità, dalla comfort zone, non nel senso di mettere a disagio, ma di infastidire positivamente il pensiero e l’azione perché ci si armi di senso di giustizia, verso un’etica dell’equità e una legittimazione reciproca. Dunque, sì, riconosco la difficoltà di questa conversazione, ma al contempo vedo in questa tragica serie di sviluppi recenti la possibilità di un’apertura verso queste idee.
Hai parlato di binazionalismo. Ma tra i palestinesi dei Territori non è nettamente prevalente l’aspirazione a uno Stato palestinese più che a uno Stato binazionale?
Il binazionalismo egualitario non è una soluzione politica, ma una forma di etica. Un’etica fondata sulla parità, sulla legittimità reciproca, sull’uguaglianza e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale per gli ebrei israeliani e per gli arabi palestinesi. Tutto questo prevede lo smantellamento di tutte le forme di supremazia, controllo e dominio ebraico-israeliano a favore di un processo di decolonizzazione. Solo allora potrà crearsi quel contesto paritario in cui gli israeliani potranno recuperare la loro legittimità agli occhi delle loro vittime, cioè i palestinesi. Ora, qualsiasi cornice istituzionale che risponda a questa etica è per me assolutamente accettabile, comprese le soluzioni a due Stati.
Inutile dire che la soluzione a due Stati che potenzialmente può rispondere o abbracciare questa etica non è quella offerta da Netanyahu e nemmeno quella proposta dai governi laburisti prima di lui, dove per “Stato palestinese” in realtà si intende una sorta di groviera, cantonizzato e sconnesso, in cui verrebbero perpetuate e riprodotte la dominazione e il controllo ebraico-israeliano.
Cosa ne pensano i cittadini palestinesi di Israele?
Immagino tu intenda alludere al fatto che i cittadini palestinesi di Israele in media sono più inclini a questa formula del binazionalismo. Che dire, in realtà non lo sappiamo con certezza; non è stata fatta alcuna indagine seria. In effetti, alcuni di coloro che auspicano questo impegno egualitario, me compreso, sono cittadini palestinesi di Israele. In un lavoro recente che ho presentato alla Yale Law School in cui ho ripercorso il pensiero politico palestinese dalla fine degli anni sessanta fino ai primi anni ottanta emergono tracce di un’idea di binazionalismo anche nel pensiero politico mainstream del nazionalismo palestinese. Nella sua versione contemporanea, tra coloro che si esprimono a favore del binazionalismo ci sono diversi cittadini palestinesi di Israele, anche a causa della sensibilità, della familiarità che hanno sviluppato in relazione al sistema politico israeliano.
In realtà, come dicevo, quello dei due Stati è uno dei possibili disegni istituzionali dell’arco entro cui questa idea di binazionalismo egualitario può essere realizzata: potrebbe anche essere una confederazione di due Stati, una federazione, o molte altre opzioni ancora. Il tipo di istituzioni e la costituzione da adottare sono questioni politiche incredibilmente importanti che tuttavia potranno assumere forme diverse. Qui parliamo di una cornice diversa che è quella appunto etica e di impegno per il rispetto di determinati valori e diritti.
Detto questo, date le lotte che i palestinesi da tempo conducono per essere riconosciuti come Stato, credo che la via più agevole, più breve, allo stato attuale sia quella dello Stato palestinese. Non escludo altre soluzioni nel lungo periodo, ma dato che siamo vicini a diventare uno Stato, perché puntare a vie più complicate?
Ovviamente nell’ambito di un binazionalismo egualitario, i palestinesi non devono rinunciare alle conquiste realizzate come nazione. Queste vanno tutelate, così come vanno preservate e soddisfatte le istanze degli israeliani che da decenni aspirano a una patria sicura (che però non può voler dire supremazia ebraica e segregazione). Il binazionalismo egualitario è la cornice in cui tutto questo può realizzarsi, in cui trova spazio anche la presa in carico dei traumi provocati dai pogrom, dall’antisemitismo nell’Europa cristiana, fino all’Olocausto. La soluzione però non può essere quella di trasformare in capro espiatorio i palestinesi.
In questo momento, i palestinesi sono sotto attacco in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est e in generale all’interno di Israele. L’obiettivo di Israele non è solo quello di attaccare Hamas: basti guardare alla portata della devastazione inflitta, agli ospedali bombardati, alle università distrutte, alle scuole rase al suolo. Hanno colpito le infrastrutture e la spina dorsale del nazionalismo e dell’identità palestinese.
Questo è anche un invito a prendere sul serio il quadro giuridico internazionale e a combattere il doppio standard e l’ipocrisia dell’Europa, l’applicazione selettiva delle norme internazionali che facciamo valere per l’Ucraina, ma non per la Palestina. Questo eccezionalismo di Israele, per ragioni diverse, non rende un buon servizio né ai palestinesi né agli israeliani nel lungo periodo perché contribuisce a perpetuare il conflitto.
Ritieni che i cambiamenti nel contesto regionale, per esempio il cambio di regime in Siria o l’indebolimento di Hezbollah in Libano e il nuovo governo possano avere un’influenza sulla soluzione?
È molto difficile fare ipotesi, però vedo due tendenze. Una prima, incredibilmente allarmante, è legata all’avvento di Trump e riguarda coloro che vedono nelle dinamiche in Siria, Libano, Iraq e oltre, una spinta verso un secondo Accordo di Abramo, per proseguire su quella falsariga per cui ci si limita a “rendere omaggio” alla causa palestinese. L’atroce campagna israeliana condotta a Gaza e, per estensione, contro tutti i palestinesi in Cisgiordania, ecc. ha dimostrato, semmai, la centralità della causa palestinese e il suo potenziale esplosivo. Il rischio è di interpretare gli sviluppi regionali come un invito per Israele a pensare che i paesi vicini si sono indeboliti e che quindi si può imporre una normalizzazione con l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, mettendo da parte la questione palestinese o lasciando loro solo le briciole, diciamo. Intraprendere questa strada si rivelerebbe una scelta ben poco promettente, per non dire catastrofica. Hanno già provato a ignorare i palestinesi: Netanyahu, anzi, ne era orgoglioso; si vantava di “non vederli nemmeno”.
La strada è lunga. Sicuramente gli ebrei israeliani dovranno impegnarsi seriamente in un processo di riconciliazione. Se anche ci imbarcassimo in un binazionalismo egualitario, dovremmo comunque mettere in conto che ci saranno ancora due o tre generazioni future di palestinesi totalmente traumatizzati.
Abbiamo davanti opportunità di portata drammatica. Dopo Gaza, l’etica ebraica non potrà rimanere la stessa. Se in passato questa era elaborata in relazione all’antisemitismo, al cristianesimo, al liberalismo, al cosmopolitismo, oggi il test definitivo per qualsiasi posizione etica seria e coerente è la questione palestinese.
Intendiamoci, personalmente sono contrario a forme di etica etnicizzata. Resta il fatto che oggi sono i palestinesi a fare da banco di prova della morale. Non è più il cristianesimo, né l’antisemitismo -fenomeno che, ci tengo a ribadirlo, è reale, doloroso, disgustoso, oltre che un grave crimine che va combattuto con ogni mezzo. Oggi, oltre all’antisemitismo, la vera sfida per l’etica ebraica e per il mondo, quindi anche per l’Europa, per l’Italia, è la mancanza di un impegno serio nei confronti dei diritti dei palestinesi. È questo che ha reso la Palestina un tema globale. La Palestina oggi rappresenta metaforicamente milioni di persone in Italia, in Spagna, negli Stati Uniti, e altrove, anche per tanti ebrei, perché è diventata sinonimo di lotta per la giustizia, l’uguaglianza e la libertà; ripeto anche per molti giovani ebrei che non vogliono che Israele parli a loro nome e che si oppongono all’idea che il sionismo sia l’unico, definitivo orizzonte in cui un ebreo può impegnarsi. Allo stesso tempo, la Palestina globale disturba la bella favola che gli italiani, i tedeschi e gli europei tutti si sono raccontati su come, dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto, sono diventati paesi liberali che rispettano le norme internazionali. Il mondo, gli organismi di diritto internazionale non sono finora riusciti a riconoscere ai palestinesi i loro diritti e a trattarli come una nazione. Al contrario, Israele è diventata molto più esplicitamente di prima un avamposto imperiale dell’Europa e dell’Occidente, e di fatto gode di un’impunità, anche dopo aver commesso i crimini più atroci.
Purtroppo la Palestina sta diventando globale anche per un’altra ragione: Israele usa i luoghi dei palestinesi, la loro geografia, i loro corpi e la loro psiche per sviluppare tecnologie sempre più sofisticate, dalla sorveglianza alle armi. Queste tecnologie vengono poi vendute sul mercato globale come “efficaci” perché già testate sul campo sui palestinesi.
Allora, il sionismo ha davvero rivoluzionato la vita ebraica moderna. Da insignificante movimento di minoranza è diventato un movimento popolare molto serio. È per questo che la stragrande maggioranza degli ebrei nel mondo ha un forte legame con lo Stato di Israele. Ma questa rivoluzione è stata fatta a un costo enorme, ben prima della Naqba del 1948 e della creazione dello Stato di Israele.
Essere ebreo può significare molte cose. Significa Hannah Arendt e Primo Levi, essere cosmopolita, socialista, marxista, comunista; essere un ebreo ultra-ortodosso che crede nell’esistenza diasporica e anela a un’identità nazionale ebraica, un’identità nazionale che, come ci ha insegnato il Bund, movimento non religioso, non dev’essere per forza sionista. Ecco, il sionismo ha ristretto tutto questo ventaglio di identità a una sola forma, quella etno-nazionalista ebraica, con alcune forme più esclusive, fasciste e razziste, di altre. Sono proprio i palestinesi e l’identità palestinese oggi a riaprire questa crepa e a esporla al mondo. Molti giovani ebrei hanno iniziato a dire “non in mio nome”, “non mi interessa essere sionista”. Alcuni sono antisionisti, altri rivendicano che essere ebrei oggi significa essere cosmopoliti e liberali, impegnati senza compromessi nei diritti umani, anche se questo dovesse voler dire affermare che Israele è uno Stato criminale.
Per concludere?
Per tornare allo scenario regionale, Israele può cogliere positivamente le opportunità che le si presentano o abusarne, indebolendo gli avversari per liquidare ulteriormente la causa palestinese, cosa che non accadrà: come ha dimostrato Gaza, i palestinesi non scompariranno. Sicuramente gli israeliani hanno danneggiato pesantemente le infrastrutture, e ci vorrà molto tempo per ricostruire Gaza, se mai sarà possibile, e a un costo incredibile, ma i palestinesi ne sono usciti, e il mondo oggi è molto più consapevole che in passato della loro causa.
La causa palestinese e i palestinesi non erano mai entrati nel tinello di milioni di case come è accaduto in questi mesi. Israele rischia di essere visto come uno Stato paria, razzista e genocida.
Io non vedo altre strade: o assieme intraprendiamo seriamente un percorso attraverso il quale ci impegniamo ad affrontare tutti questi interrogativi, oppure si può essere tentati di prendere delle scorciatoie; purtroppo, l’arrivo di Trump aumenta la spinta verso quest’ultima ipotesi, per cui è molto probabile che si vada in quella direzione. Questa però non è una buona notizia per nessuno, perché significa che la questione israelo-palestinese e questo conflitto sono destinati a durare ancora a lungo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
Puoi parlarci di come vedi la situazione in Israele-Palestina e di come l’hai vista cambiare negli ultimi anni?
Purtroppo le cose sono andate peggiorando. Ci sono ovviamente ragioni molto complesse, ma la principale, almeno in senso politico, è che la società ebraica israeliana sta scivolando verso una nuova forma di fondamentalismo populista di destra, caratterizzata anche dalla presenza di gruppi neofascisti. È una trasformazione che influenza la politica e le dinamiche del Paese e, per estensione, anche il modo in cui esso si rapporta ai palestinesi in Israele e, in modo più generale, sta impattando sulle libertà individuali e collettive, anche degli ebrei.
Un indicatore del deterioramento della situazione è che le prospettive di un impegno serio da parte di Israele rispetto alla tutela dei diritti fondamentali dei palestinesi sono molto scoraggianti. Israele è andata adottando una forma sempre più brutale e aggressiva di colonialismo anche a Gerusalemme Est, luogo dove vivo e della cui condizione straziante sono testimone.
In questi anni si è manifestata una tendenza molto chiara, iniziata già con i governi precedenti, segnata da una mancanza di volontà politica e di testardaggine ideologica della stragrande maggioranza dello spettro politico israeliano, alcuni esponenti della sinistra sionista inclusi, nel non lavorare per un accordo serio in direzione della creazione di uno Stato palestinese nel rispetto delle loro aspirazioni minime. Piuttosto, abbiamo assistito a un’indurimento dell’occupazione israeliana, con l’espansione degli insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania e il prolungato assedio della popolazione di Gaza, che aveva portato alla trasformazione di Gaza in un luogo a malapena vivibile, già prima del 7 ottobre.
Tutto questo, messo insieme, fa presagire sviluppi molto inquietanti, in un clima in cui l’oppressione dei palestinesi e le violazioni dei loro diritti vanno aggravandosi. Sicuramente nel caso del genocidio di Gaza l’abbiamo visto in modo più esplicito, ma le basi erano già ravvisabili nella crescente brutalità esercitata negli ultimi anni.
Puoi parlarci del progetto avviato con Amos Goldberg, dove, nel rispetto delle diverse specificità e proporzioni, sostenete che i due traumi, quello della Shoah e quello della Naqba, hanno aspetti comparabili? Nel fare questo accostamento, avete in qualche modo violato un tabù.
È un progetto che risale a oltre dieci anni fa ed è frutto di una lunga storia di collaborazione con Amos. Tutto è iniziato con una conversazione, che non si è mai interrotta, molto seria e motivata, almeno dal mio punto di vista, ma credo anche da quello di Amos, dalla convinzione che dobbiamo entrambi essere molto sinceri e sensibili e al contempo cercare di progredire verso una soluzione più inclusiva ed egualitaria. I rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch e altri, con diverse varianti, denunciano come il comportamento del regime israeliano sia oggi molto problematico, sicuramente in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, ma anche all’interno di Israele dove, come ricordavo, assistiamo a un forte scivolamento verso tendenze antidemocratiche ed etniciste. Alcuni di questi rapporti arrivano a definire Israele un apartheid; altri sono più cauti.
Per quanto riguarda la tua osservazione sulla violazione di un tabù, noi riteniamo che non ci sia altra scelta: bisogna confrontarsi con le memorie dell’Olocausto e della Naqba, perché queste sono centrali, costitutive e fondanti tanto per gli arabi palestinesi quanto per gli ebrei israeliani. Naturalmente si tratta di una questione estremamente delicata, quindi è necessario farlo con molta cautela. Se abbiamo violato un tabù, certo l’abbiamo fatto avendo a cuore i sentimenti, le storie, le particolarità e le specificità dei palestinesi, degli israeliani e degli ebrei in generale.
Devo anche segnalare che in questa operazione non c’è una vera originalità, non siamo dei pionieri. Qualsiasi conversazione seria tra un israeliano e un palestinese o comunque tra coloro che sono impegnati in questo conflitto arriva sempre a toccare le vicende dell’Olocausto e della Naqba.
Come ricordiamo nell’introduzione, l’aveva già fatto il poeta Avot Yeshurun, e con lui molti altri, sia da parte israelo-ebraica che da quella palestinese e araba. Noi abbiamo voluto fare un passo ulteriore e capire cosa comporta mettere queste due vicende all’interno di una stessa cornice sul piano etico e politico.
Proprio approfondendo questi due traumi, si è rafforzata la nostra convinzione per cui l’unico futuro ragionevole per questa terra che va “dal fiume al mare” non possa che essere un regime di collaborazione tra arabi ed ebrei, che devono quindi poter vivere all’insegna dell’uguaglianza e non di un regime suprematista ebraico-israeliano che nei fatti si sta trasformando in un apartheid.
Quello che per me e Amos va fatto è intanto far emergere l’asimmetria. Non si può infatti parlare di pacificazione presupponendo una simmetria, ignorando quindi il colonialismo e la segregazione dei palestinesi.
Noi parliamo di un “binazionalismo egualitario” considerandolo una forma di etica. Ma non ci limitiamo a fare una diagnosi: vogliamo anche provare a indicare una strada che non può che fondarsi su una parità del partenariato arabo-ebraico al cui centro dev’esserci la reciproca legittimità.
Questo significa avviare un processo di decolonizzazione e quindi di riconciliazione storica tra arabi ed ebrei.
Il nostro è un invito che riguarda noi, ma anche voi, perché in fin dei conti la questione di Israele e Palestina è una questione europea, perché è nata dall’incapacità dell’Europa di affrontare la questione ebraica. So che questo non è un punto di vista popolare, ma aggiungo che esiste una complicità dell’Europa cristiana con Israele e il progetto sionista. È una provocazione, ma anche un invito serio e sincero a pensare fuori dagli schemi, a ripensare le cose e a interrogarsi, a infrangere i tabù non per il gusto della provocazione, ma per aprire nuovi orizzonti piuttosto che chiuderli.
Ricordavi come questi due eventi, la Naqba e la Shoah, emergano inevitabilmente nel dialogo tra ebrei israeliani e palestinesi. Esistono ancora momenti e luoghi in cui gli ebrei israeliani e i palestinesi dialogano?
I palestinesi dei Territori Occupati e gli ebrei israeliani avevano ampie opportunità di interazione nel mercato del lavoro, nel commercio, nel turismo interno, e così via. Paradossalmente, dopo gli accordi di pace di Oslo quelle opportunità sono diminuite a causa delle politiche israeliane di separazione (tramite check-point, strade inaccessibili di attraversamento, muri, etc.) e della seconda Intifada.
Il punto però non riguarda meramente le possibilità d’interazione o la loro assenza, bensì i valori e le norme che governano queste interazioni.
Quelli che viviamo sono giorni di lutto, di tristezza, giorni in cui ciascuno di noi si confronta con tutta una serie di riflessioni dentro di sé. E certo il tipo di dialogo di cui parlo è incredibilmente difficile oggi, come lo è parlare di binazionalismo egualitario, di Olocausto e Naqba. I palestinesi stanno assistendo ad alcune delle forme più atroci di violenza mai sperimentata dal ‘48 in poi, la cui intera portata deve essere ancora svelata. Anche gli israeliani si portano dietro i propri traumi, altrettanto atroci, e mi riferisco agli attacchi criminali da Gaza contro i civili israeliani, crimini che hanno fatto riaffiorare in loro molte paure.
Purtroppo sono molti gli elementi che continuano ad alimentare la mancanza di fiducia reciproca e le rispettive paure. E tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola di rappresentare gli israeliani esclusivamente come vittime. Uno degli aspetti che ritengo abbia reso la condotta israeliana a Gaza così spregiudicata, è che Israele insiste sempre nel parlare a nome degli ebrei. Quello che è accaduto in questi mesi ha aperto una sfida etica senza precedenti che riguarda sicuramente gli ebrei israeliani, ma anche gli ebrei in generale, rispetto alle atrocità che Israele ha compiuto negli ultimi settant’anni, e che continuano ancora oggi a Gaza, in Cisgiordania, all’interno di Israele e a Gerusalemme.
Gli ebrei stessi oggi si interrogano su questo loro privilegio del vittimismo. Perché oggi proprio il loro regime è responsabile di un genocidio. E tuttavia noi insistiamo che proprio il dramma di questa realtà, fatta di sangue, violenza, odio e paura, può spingere verso una conclusione molto audace, e cioè che per arabi e israeliani non c’è altra scelta che cercare una soluzione praticabile e condivisa.
Gli ebrei israeliani non possono far sparire il popolo palestinese. Le immagini che abbiamo visto, con centinaia di migliaia di persone che marciano dal sud al nord di Gaza, non fanno che confermare che i palestinesi non hanno alcuna intenzione di scomparire. I palestinesi non diventeranno l’ennesimo gruppo indigeno di qualche angolo del globo sradicato e ripulito etnicamente. Dall’altra parte, anche i palestinesi devono rendersi conto, però, che neppure gli ebrei israeliani hanno intenzione di sparire, né di andarsene.
Questa è la situazione e qualsiasi osservatore onesto vede quanto sia esplosiva questa situazione, proprio perché è ingiusta e si fonda sul terrore e su una forma di suprematismo razzista.
I palestinesi non possono accettare di essere subordinati a questo regime coloniale che vuole mantenere il privilegio e la supremazia agli ebrei. Credere che una maggiore violenza porti a una maggiore sicurezza e che si possa far sparire i palestinesi e al contempo integrarsi nella regione e fare la pace con il mondo arabo è una strada senza uscita. Costruire più muri e posti di blocco, impiegare sempre più sofisticate tecnologie di sorveglianza e oppressione, dotarsi di più armi e bombe sono tutte cose che non renderanno gli israeliani più sicuri. Gli ebrei israeliani saranno al sicuro solo quando i palestinesi vedranno riconosciuti i loro diritti e le loro libertà e vedranno esaudita la loro richiesta di giustizia e uguaglianza. Ora, se condividiamo che questa è un’osservazione ragionevole, qui si aprono nuovi orizzonti per quello che stiamo proponendo.
Voi parlate non solo di una nuova politica, ma anche di una nuova “grammatica”.
Se vi trovate nel bel mezzo di un disastro, dove all’orizzonte vedete solo altra paura, terrore, delegittimazione e violenza brutale, dentro di voi, casomai nella parte più recondita della vostra mente, sentirete una voce che vi dice che ci dev’essere, che c’è un’altra via.
Questo libro ne propone una, quella appunto del binazionalismo egualitario.
Ovviamente siamo consapevoli dei limiti di questo progetto e anche della sua possibile impopolarità, ma credo che il suo successo derivi soprattutto dal fatto che porta con sé un invito alla conversazione, al dialogo, e al perseguimento di una soluzione.
Attenzione, però, lo ripeto: non stiamo dicendo che Palestina e Israele devono parlarsi come se fossero uguali. L’analisi sull’oggi non può che partire dalla consapevolezza che gli israeliani sono gli occupanti e i palestinesi gli occupati. Non c’è simmetria e questo va riconosciuto per una qualsiasi forma di dialogo e coesistenza.
Chiediamo di riconoscere che la realtà esistente è asimmetrica e fondata sulla paura e su traumi che, se non riconosciuti, e strumentalizzati, continueranno a riproporsi.
Noi invitiamo a guardare le cose all’insegna dell’impegno reciproco e del mutuo coinvolgimento. Questo ha un costo che è quello che noi chiamiamo “inquietudine empatica”. Parliamo infatti di una conversazione che destabilizza, che deve destabilizzare, nel senso di portar fuori dalla zona dalla comodità, dalla comfort zone, non nel senso di mettere a disagio, ma di infastidire positivamente il pensiero e l’azione perché ci si armi di senso di giustizia, verso un’etica dell’equità e una legittimazione reciproca. Dunque, sì, riconosco la difficoltà di questa conversazione, ma al contempo vedo in questa tragica serie di sviluppi recenti la possibilità di un’apertura verso queste idee.
Hai parlato di binazionalismo. Ma tra i palestinesi dei Territori non è nettamente prevalente l’aspirazione a uno Stato palestinese più che a uno Stato binazionale?
Il binazionalismo egualitario non è una soluzione politica, ma una forma di etica. Un’etica fondata sulla parità, sulla legittimità reciproca, sull’uguaglianza e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale per gli ebrei israeliani e per gli arabi palestinesi. Tutto questo prevede lo smantellamento di tutte le forme di supremazia, controllo e dominio ebraico-israeliano a favore di un processo di decolonizzazione. Solo allora potrà crearsi quel contesto paritario in cui gli israeliani potranno recuperare la loro legittimità agli occhi delle loro vittime, cioè i palestinesi. Ora, qualsiasi cornice istituzionale che risponda a questa etica è per me assolutamente accettabile, comprese le soluzioni a due Stati.
Inutile dire che la soluzione a due Stati che potenzialmente può rispondere o abbracciare questa etica non è quella offerta da Netanyahu e nemmeno quella proposta dai governi laburisti prima di lui, dove per “Stato palestinese” in realtà si intende una sorta di groviera, cantonizzato e sconnesso, in cui verrebbero perpetuate e riprodotte la dominazione e il controllo ebraico-israeliano.
Cosa ne pensano i cittadini palestinesi di Israele?
Immagino tu intenda alludere al fatto che i cittadini palestinesi di Israele in media sono più inclini a questa formula del binazionalismo. Che dire, in realtà non lo sappiamo con certezza; non è stata fatta alcuna indagine seria. In effetti, alcuni di coloro che auspicano questo impegno egualitario, me compreso, sono cittadini palestinesi di Israele. In un lavoro recente che ho presentato alla Yale Law School in cui ho ripercorso il pensiero politico palestinese dalla fine degli anni sessanta fino ai primi anni ottanta emergono tracce di un’idea di binazionalismo anche nel pensiero politico mainstream del nazionalismo palestinese. Nella sua versione contemporanea, tra coloro che si esprimono a favore del binazionalismo ci sono diversi cittadini palestinesi di Israele, anche a causa della sensibilità, della familiarità che hanno sviluppato in relazione al sistema politico israeliano.
In realtà, come dicevo, quello dei due Stati è uno dei possibili disegni istituzionali dell’arco entro cui questa idea di binazionalismo egualitario può essere realizzata: potrebbe anche essere una confederazione di due Stati, una federazione, o molte altre opzioni ancora. Il tipo di istituzioni e la costituzione da adottare sono questioni politiche incredibilmente importanti che tuttavia potranno assumere forme diverse. Qui parliamo di una cornice diversa che è quella appunto etica e di impegno per il rispetto di determinati valori e diritti.
Detto questo, date le lotte che i palestinesi da tempo conducono per essere riconosciuti come Stato, credo che la via più agevole, più breve, allo stato attuale sia quella dello Stato palestinese. Non escludo altre soluzioni nel lungo periodo, ma dato che siamo vicini a diventare uno Stato, perché puntare a vie più complicate?
Ovviamente nell’ambito di un binazionalismo egualitario, i palestinesi non devono rinunciare alle conquiste realizzate come nazione. Queste vanno tutelate, così come vanno preservate e soddisfatte le istanze degli israeliani che da decenni aspirano a una patria sicura (che però non può voler dire supremazia ebraica e segregazione). Il binazionalismo egualitario è la cornice in cui tutto questo può realizzarsi, in cui trova spazio anche la presa in carico dei traumi provocati dai pogrom, dall’antisemitismo nell’Europa cristiana, fino all’Olocausto. La soluzione però non può essere quella di trasformare in capro espiatorio i palestinesi.
In questo momento, i palestinesi sono sotto attacco in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est e in generale all’interno di Israele. L’obiettivo di Israele non è solo quello di attaccare Hamas: basti guardare alla portata della devastazione inflitta, agli ospedali bombardati, alle università distrutte, alle scuole rase al suolo. Hanno colpito le infrastrutture e la spina dorsale del nazionalismo e dell’identità palestinese.
Questo è anche un invito a prendere sul serio il quadro giuridico internazionale e a combattere il doppio standard e l’ipocrisia dell’Europa, l’applicazione selettiva delle norme internazionali che facciamo valere per l’Ucraina, ma non per la Palestina. Questo eccezionalismo di Israele, per ragioni diverse, non rende un buon servizio né ai palestinesi né agli israeliani nel lungo periodo perché contribuisce a perpetuare il conflitto.
Ritieni che i cambiamenti nel contesto regionale, per esempio il cambio di regime in Siria o l’indebolimento di Hezbollah in Libano e il nuovo governo possano avere un’influenza sulla soluzione?
È molto difficile fare ipotesi, però vedo due tendenze. Una prima, incredibilmente allarmante, è legata all’avvento di Trump e riguarda coloro che vedono nelle dinamiche in Siria, Libano, Iraq e oltre, una spinta verso un secondo Accordo di Abramo, per proseguire su quella falsariga per cui ci si limita a “rendere omaggio” alla causa palestinese. L’atroce campagna israeliana condotta a Gaza e, per estensione, contro tutti i palestinesi in Cisgiordania, ecc. ha dimostrato, semmai, la centralità della causa palestinese e il suo potenziale esplosivo. Il rischio è di interpretare gli sviluppi regionali come un invito per Israele a pensare che i paesi vicini si sono indeboliti e che quindi si può imporre una normalizzazione con l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, mettendo da parte la questione palestinese o lasciando loro solo le briciole, diciamo. Intraprendere questa strada si rivelerebbe una scelta ben poco promettente, per non dire catastrofica. Hanno già provato a ignorare i palestinesi: Netanyahu, anzi, ne era orgoglioso; si vantava di “non vederli nemmeno”.
La strada è lunga. Sicuramente gli ebrei israeliani dovranno impegnarsi seriamente in un processo di riconciliazione. Se anche ci imbarcassimo in un binazionalismo egualitario, dovremmo comunque mettere in conto che ci saranno ancora due o tre generazioni future di palestinesi totalmente traumatizzati.
Abbiamo davanti opportunità di portata drammatica. Dopo Gaza, l’etica ebraica non potrà rimanere la stessa. Se in passato questa era elaborata in relazione all’antisemitismo, al cristianesimo, al liberalismo, al cosmopolitismo, oggi il test definitivo per qualsiasi posizione etica seria e coerente è la questione palestinese.
Intendiamoci, personalmente sono contrario a forme di etica etnicizzata. Resta il fatto che oggi sono i palestinesi a fare da banco di prova della morale. Non è più il cristianesimo, né l’antisemitismo -fenomeno che, ci tengo a ribadirlo, è reale, doloroso, disgustoso, oltre che un grave crimine che va combattuto con ogni mezzo. Oggi, oltre all’antisemitismo, la vera sfida per l’etica ebraica e per il mondo, quindi anche per l’Europa, per l’Italia, è la mancanza di un impegno serio nei confronti dei diritti dei palestinesi. È questo che ha reso la Palestina un tema globale. La Palestina oggi rappresenta metaforicamente milioni di persone in Italia, in Spagna, negli Stati Uniti, e altrove, anche per tanti ebrei, perché è diventata sinonimo di lotta per la giustizia, l’uguaglianza e la libertà; ripeto anche per molti giovani ebrei che non vogliono che Israele parli a loro nome e che si oppongono all’idea che il sionismo sia l’unico, definitivo orizzonte in cui un ebreo può impegnarsi. Allo stesso tempo, la Palestina globale disturba la bella favola che gli italiani, i tedeschi e gli europei tutti si sono raccontati su come, dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto, sono diventati paesi liberali che rispettano le norme internazionali. Il mondo, gli organismi di diritto internazionale non sono finora riusciti a riconoscere ai palestinesi i loro diritti e a trattarli come una nazione. Al contrario, Israele è diventata molto più esplicitamente di prima un avamposto imperiale dell’Europa e dell’Occidente, e di fatto gode di un’impunità, anche dopo aver commesso i crimini più atroci.
Purtroppo la Palestina sta diventando globale anche per un’altra ragione: Israele usa i luoghi dei palestinesi, la loro geografia, i loro corpi e la loro psiche per sviluppare tecnologie sempre più sofisticate, dalla sorveglianza alle armi. Queste tecnologie vengono poi vendute sul mercato globale come “efficaci” perché già testate sul campo sui palestinesi.
Allora, il sionismo ha davvero rivoluzionato la vita ebraica moderna. Da insignificante movimento di minoranza è diventato un movimento popolare molto serio. È per questo che la stragrande maggioranza degli ebrei nel mondo ha un forte legame con lo Stato di Israele. Ma questa rivoluzione è stata fatta a un costo enorme, ben prima della Naqba del 1948 e della creazione dello Stato di Israele.
Essere ebreo può significare molte cose. Significa Hannah Arendt e Primo Levi, essere cosmopolita, socialista, marxista, comunista; essere un ebreo ultra-ortodosso che crede nell’esistenza diasporica e anela a un’identità nazionale ebraica, un’identità nazionale che, come ci ha insegnato il Bund, movimento non religioso, non dev’essere per forza sionista. Ecco, il sionismo ha ristretto tutto questo ventaglio di identità a una sola forma, quella etno-nazionalista ebraica, con alcune forme più esclusive, fasciste e razziste, di altre. Sono proprio i palestinesi e l’identità palestinese oggi a riaprire questa crepa e a esporla al mondo. Molti giovani ebrei hanno iniziato a dire “non in mio nome”, “non mi interessa essere sionista”. Alcuni sono antisionisti, altri rivendicano che essere ebrei oggi significa essere cosmopoliti e liberali, impegnati senza compromessi nei diritti umani, anche se questo dovesse voler dire affermare che Israele è uno Stato criminale.
Per concludere?
Per tornare allo scenario regionale, Israele può cogliere positivamente le opportunità che le si presentano o abusarne, indebolendo gli avversari per liquidare ulteriormente la causa palestinese, cosa che non accadrà: come ha dimostrato Gaza, i palestinesi non scompariranno. Sicuramente gli israeliani hanno danneggiato pesantemente le infrastrutture, e ci vorrà molto tempo per ricostruire Gaza, se mai sarà possibile, e a un costo incredibile, ma i palestinesi ne sono usciti, e il mondo oggi è molto più consapevole che in passato della loro causa.
La causa palestinese e i palestinesi non erano mai entrati nel tinello di milioni di case come è accaduto in questi mesi. Israele rischia di essere visto come uno Stato paria, razzista e genocida.
Io non vedo altre strade: o assieme intraprendiamo seriamente un percorso attraverso il quale ci impegniamo ad affrontare tutti questi interrogativi, oppure si può essere tentati di prendere delle scorciatoie; purtroppo, l’arrivo di Trump aumenta la spinta verso quest’ultima ipotesi, per cui è molto probabile che si vada in quella direzione. Questa però non è una buona notizia per nessuno, perché significa che la questione israelo-palestinese e questo conflitto sono destinati a durare ancora a lungo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
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