L’ultimo libro di Enzo Traverso (La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona, Laterza) affronta un tema da non sottovalutare: “Piaccia o meno, è un fatto indiscutibile che la storia sia scritta sempre più spesso in prima persona, attraverso il prisma della soggettività dell’autore”. Traverso si dice preoccupato, condivido i suoi timori. Il saggio parte dalla storiografia greca, che ha fissato per regola la scrittura in terza persona e si chiude con un bell’omaggio a Walter Benjamin, il quale diceva di essersi sempre attenuto, nello scrivere, a un’unica piccola norma: “Non usare mai la parola ‘io’ tranne che nelle lettere”. Benjamin certo sapeva che “in ebraico la parola io è costituita dalle stesse lettere della parola niente”, come ammoniva un saggio talmudista alla fine del XVI secolo. “Non c’è barbiere che possa tagliarsi da solo i capelli”, replica il Talmud (Levitico Rabbah 14,9). Nella tradizione ebraica (che Traverso conosce molto  bene) la lotta contro la tirannide dell’io è stato un elemento trainante. Fuori e dentro l’ebraismo gli storici che hanno lavorato di più e meglio di rado hanno ceduto alle sollecitazioni dell’io e quando l’hanno fatto è accaduto per descrivere la fatica della ricerca, la gioia di scoprire nuove fonti, la felicità provata nel dialogo con i propri scolari. Non certo per descrivere in pagine e pagine che cosa hanno visto, che cosa hanno mangiato, che vestito indossavano recandosi sui luoghi della loro ricerca o il mobilio delle case dei testimoni intervistati. Un caso di autobiografia scevra di ogni tirannide dell’io è stato, per eccellenza, quello del maestro di Traverso, Pierre Vidal-Naquet.
“In genere la vita di uno storico consiste nel tenere corsi e seminari, partecipare a convegni e lavorare in archivi e biblioteche, tutte cose non sempre palpitanti e certo meno avvincenti delle avventure di James Bond”. Come ovvio, la soggettività non può essere tenuta fuori dalla ricerca. Da sempre lo storico è stato libero di portare nella sua ricerca la ricchezza dei suoi convincimenti e delle sue esperienze: “Se è un ebreo, un cristiano o un musulmano credente, naturalmente porterà la sua fede nella ricerca”, diceva in una aurea “regola del gioco” Arnaldo Momigliano.
Se è un seguace di Marx, Max Weber, Jung, Braudel, naturalmente adotterà il metodo del suo maestro, ma “una semplice casa non diventerà un santuario perché lo storico è religioso ed Erodoto non diventa un documento di lotta di classe perché lo studia uno storico marxista”. Sono regole che Traverso ha sempre applicato nei suoi lavori, dove risulta chiaro il confine che separa l’autobiografia e l’analisi delle fonti. Di qui la sua perplessità di fronte a tanto narcisismo (si pensi all’uso invalso in molte case editrici di sbattere in quarta di copertina la foto dell’autore in luogo di una sintesi del libro). Narcisi storici, che tendono a confondersi con Narcisi romanzieri. Ne scaturiscono opere qui definite di “non-fiction letteraria”. A Traverso tanto agitarsi fa venire in mente lo sfortunato eroe di Melville, che “non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò”.
La storia ridotta a memoria individuale si trasforma in un insieme di sensazioni che si sostituiscono alla riflessione critica. Questo libro rappresenta un atto di accusa contro la scrittura (anche accademica) vissuta come un selfie.
Due cose, tuttavia, non convincono in questo saggio. Gli esempi che Traverso ci offre (Ivan Jablonka, per la Francia; Sergio Luzzatto per l’Italia) sono guardati con troppa indulgenza. L’autore non può fare a meno di sorridere davanti alla schiavitù di una soggettività che trasforma storici anche bravi in tanti Indiana Jones, secondo l’efficace definizione di Partigia, il libro di Luzzatto su Primo Levi, data da Enrico Mattioda, non a caso un italianista che guarda con giusto sospetto la non-fiction letteraria degli storici.
Un secondo dubbio sorge leggendo in Traverso giudizi troppo sbrigativi verso storici che si comportavano come Benjamin, cioè usavano la parola io soltanto nelle lettere, ma sfornavano libri di una ricchezza straordinaria proprio in seguito a un’esperienza autobiografica impresentabile. È il caso di Roberto Vivarelli, verso il quale Traverso ha parole tanto sprezzanti quanto frettolose, immemori del fatto che l’essere stato repubblichino a Salò ha portato questo storico a cercare il perché del suo sbaglio, riversando nella ricerca ...[continua]

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