La storia controfattuale -costruita sui “se”- ritorna. Che cosa sarebbe accaduto se la Russia non avesse invaso l’Ucraina? Che cosa sarebbe accaduto se nessuno si fosse vaccinato contro il Covid? Un paragrafo di storia controfattuale riguarda il destino degli scrittori.
Se Primo Levi fosse vivo, che cosa direbbe davanti alla tragedia del 7 ottobre e di Gaza? Ascoltiamo spesso questa accorata domanda. Nell’anno del centenario ci sarebbe da estendere la domanda anche a Italo Calvino, se non fosse subentrata una delusione immensa. Pochi giorni dopo la strage del 7 ottobre l’occhio mi è caduto su una sua lettera a Franco Fortini da New York. Vigilia di Natale 1959: sottolineo questa datazione, anomala per un autore che nella medesima lettera si dichiara “politeista”. Calvino inveisce contro “gli ebrei, questi cani che non hanno mai costruito niente”, poi lamenta che l’America pensi oggi “con un cervello ebreo, novantacinque per cento ebreo” - e termina con il chiedersi: “Gli ebrei cosa hanno risolto?”. Parole che siamo abituati a vedere in bocca a un Boine, a un Orano, non allo scrittore progressista dell’Italia post-resistenziale autore del Sentiero dei nidi di ragno. Che cosa avrà pensato, leggendo quelle righe, lo stesso Fortini, sempre poco tenero verso gli ebrei, ma mai al punto di cadere così in basso? E che cosa avrebbero detto di quelle righe, se le avessero lette, Cesare Cases, Cesare Segre, Natalia Ginzburg, Primo Levi? Che cosa direbbe oggi Calvino, se le riascoltasse emergere come nuovi-vecchi fantasmi che s’aggirano per l’Europa?
Lasciamo Calvino e rimaniamo sulla historical fiction applicata a Primo Levi. È stata riproposta un’intervista del 1984, che già nel titolo (“Se questo è uno Stato?”) smentisce l’equilibrio mirabile di quell’intervista. “Il rapporto di Levi con Israele oscillò come un pendolo tra una serie di poli esperienziali, etici ed emotivi: trauma e speranza, lacerazione e solidarietà, ragione e angoscia, tolleranza e disconoscimento, disapprovazione e rimozione” (Stefano Bellin). Il giudizio sui governi di Israele, sulla loro aggressività si è fatto in lui sempre più duro, ma attribuirgli una valenza ontologica, sacrale, da ipse dixit buono per ogni stagione a che cosa serve? Nulla si dice delle ragioni storiche -e delle responsabilità altrui- che hanno reso irriconoscibile la linea dei governi di Israele dal 1982 in poi. Ciò che Levi detestava non era soltanto la bellicosità dei governi israeliani, cui cercava sempre di dare una spiegazione storico-psicologica, ma anche le vuote fantasie degli interpreti frettolosi. Nel 1972, a Natalia Ginzburg che dopo l’attentato alle Olimpiadi di Monaco s’era lasciata sedurre dal fascino della controfattualità (“Se io fossi Golda Meir”) Levi replicava così: “Se Golda Meir avesse chiesto il mio parere, avrei liberato i 200 prigionieri, ma questa appunto è una ‘fantasia vacua’, perché le persone come me e te non vengono consultate su questi argomenti, e non possono diventare primi ministri in quanto non desiderano il potere, anzi lo temono”.
L’espressione “fantasia vacua”, sia detto per inciso, viene da un famoso verso di Milton. Quando il gioco si fa duro, Levi guarda sempre in alto. Sempre nella stessa lettera a Natalia fa la parodia di Cyrano e fa sua la celebre tirata sul naso quando deve riconoscere le colpe di Israele: “Je me sers de moi même avec assez de verve, mai je ne permets pas qu’un autre me le serve”. A criticare Israele preferiva essere lasciato solo, il contrario di quanto sta accadendo oggi quando si fa a gara per forzare il suo pensiero. Inutile aggiungere che vacue fantasie le ritroviamo anche nelle conversazioni da bar di molti editorialisti e commentatori, imbattibili campioni della virtual history: “Se io fossi Zelenskj, se io fossi Nethanyau”.
Inquieta vedere come, quando viene applicato a Levi, l’esercizio controfattuale dilaghi soltanto in una direzione: quella della sua critica contro Israele. Levi non amava parteggiare, guardava ai fatti. A parte l’anacronismo in cui per definizione incorre lo storico virtuale, c’è da aggiungere altro. Chi s’addentra nella storia controfattuale dovrebbe muoversi con cautela. Non era un esperto di politica internazionale, ma se fosse vivo oggi non sfuggirebbe a Levi che il quadro internazionale si è enormemente modificato rispetto al 1982-1984.
Sono pensieri che sembrano appartenere a un paio di ere geologiche fa. La morte di Levi, avvenuta nel 1987, gli ha impedito di vedere mutamenti che noi oggi non possiamo eludere: il crollo del muro di Berlino del 1989, i sogni imperiali e autocratici di Putin, il fondamentalismo islamico speculare all’estremismo dei coloni, la differenza fra Olp e Hamas, le terribili lacerazioni interne alla società di Israele che, scrive Grossmann, fanno intravedere una corsa verso l’abisso, l’influenza crescente dell’Iran, potenza ormai nucleare, il declino dell’Europa, il sorgere di movimenti sovranisti che rendono concreto il pericolo di un tracollo delle potenze occidentali, grazie alle quali venne sconfitto il nazionalsocialismo: il quadro va dall’Inghilterra della Brexit agli Usa di Trump.
Va infine aggiunto che la sua natura lo portava a essere sincero con se stesso fino in fondo: “Je me sers de moi même avec assez de verve”. E, dunque, non negava valore nemmeno al paragone che oggi ci scandalizza fra la sua condizione di ex deportato e la “disumana disperazione” dei palestinesi. Se fosse vivo, cercherebbe di aprirci gli occhi, questo sì, contro ogni “fantasia vacua”. Sempre nella lettera a Natalia Ginzburg si legge: “Non credo alla ‘disumana disperazione’ dei palestinesi; quelli fra loro (e certo ve ne sono molti) che sono disumanamente disperati non diventano terroristi, ma cadono nell’inerzia, come capitava in Lager, dove i pochi atti di rivolta sono avvenuti a opera di privilegiati.
Il terrorista ha un’altra sostanza umana: è astuto e forte e ha una speranza, cioè è responsabile, e come tale va giudicato; oppure (e credo che questo sia il caso più frequente, ed esemplarmente rappresentato dai killer giapponesi) la violenza gli è stata contagiata e trasmessa dall’alto, e non proviene da una sua spontanea indignazione o disperazione”.
Nota
Un breve, affascinante manualetto di metodologia della virtual history si può consultare adesso in Andrea C. Bottani, “Che cosa sarebbe accaduto se… Il ruolo del pensiero controfattuale nella ricerca storica”, in La storia come cultura. Studi in onore di R. Pertici, a c. di Andrea Frangioni-Federico Mazzei-Gemma Pizzoni, Roma, Studium, 2024, pp. 669-684. L’intervista “Se questo è uno Stato”, a cura di Gad Lerner, ripresa con molta enfasi nei mesi scorsi da “Doppiozero” (https://www.doppiozero.com/se-quest-è-uno-stato-intervista-primo-levi) e da “Il Fatto Quotidiano” (1°dicembre 2023) è raccolta in P. Levi, Opere, vol. III, a c. di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 462-46 (era uscita in origine su “L’Espresso”, 30 settembre 1984). La lettera sull’attentato di Monaco è stata per la prima volta resa nota da Domenico Scarpa in appendice alla nuova edizione di N. Ginzburg, Una vita immaginaria, Torino, Einaudi, 2021, pp. 205-207; quella di Calvino a Fortini si trova in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a c. di Luca Baranelli, nuova ed. riveduta e ampliata, Milano, Mondadori, 2023, p. 411; il saggio di Stefano Bellin, “Israele”, è ora raccolto in Primo Levi, a c. di Alberto Cavaglion, Roma, Carocci, 2023, pp. 308-317.
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