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e del presente misurandosi con altri, giova-
ni e meno giovani, che lavorano per rimar-
ginare le ferite rimaste nel dopoguerra. La
discussione è ampia e difficile da riassume-
re. Per dare al lettore un’impressione d’in-
sieme basterà proporne alcuni passaggi sa-
lienti.
Marijana Grandits, allora deputata della
minoranza croata al Parlamento austriaco,
ricorda quando nel ’92 era andata con Alex
Langer in un campo vicino a Lubjana, a
parlare con i primi profughi fuggiti dalla
Bosnia: raccontavano storie che in quel mo-
mento sembravano incredibili, come le pri-
me uccisioni, improvvise, senza ragione. E
l’Europa rifiutava qualsiasi azione preven-
tiva contro un conflitto che stava oramai
precipitando sotto gli occhi di tutti. “Il male
non è mai lontano da noi -commenterà poi
in proposito Selim Beslagic-, ma se bussa
alla tua porta è oramai troppo tardi”. Rada
Gavrilovic, per molto tempo referente del
Verona Forum a Bruxelles, parla invece
delle conferenze telefoniche che contribuiva
a organizzare fra le diverse città della ex-
Jugoslavia in guerra, grazie alla rete del
Parlamento europeo: “Allora era l’unico mo-
do per comunicare. Alex parlava con tutti e
smussava con cura tutte le asperità per ga-
rantire che il dialogo potesse proseguire.
Era sempre angosciato dall’idea di non fare
abbastanza”. Di lui Edi Rabini cita la pro-
posta di trasformare almeno una parte del
volontariato attivo nel sostegno ai popoli
colpiti dalla guerra in un Corpo europeo ci-
vile di pace, riconosciuto e organizzato
dall’Unione europea, per svolgere compiti
civili di prevenzione, mitigazione e media-
zione dei conflitti, attraverso un’opera di
monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul
territorio; insomma, per stare nella guerra
curando le necessità quotidiane delle perso-
ne in una prospettiva diversa, di pace e di
ricostruzione degli spazi di dialogo nei do-
poguerra.
Sempre Beslagic tiene a sottolineare che
quando la Nato, dopo mille tentennamenti,
decise di porre fine al conflitto con la forza,
bastarono poche ore per sedare gli irriduci-
bili: una lezione -sottolinea- da non dimen-
ticare per il futuro. Sul dopo parla di “de-
gradazioni” imposte alla Bosnia quasi peg-
giori della guerra: un sistema scolastico dif-
ferenziato su base etnica, partiti politici di-
versi fra loro in ragione dello stesso criterio
e non per le loro idee, una classe politica al
potere trasformatasi in “un gruppo di inte-
resse finanziario”.
Il discorso si apre poi in molte direzioni.
Abdurahman Malkic, sindaco di Srebrenica
subito dopo il genocidio, si interroga su co-
me sia possibile raggiungere e mantenere
un livello sostenibile di convivenza multi-
culturale anche in condizioni estreme come
quelle della sua città: “Il rispetto dei diritti
umani può voler dire lasciare all’altro la li-
bertà di odiarti, a condizione che accetti di
vivere insieme a te. Non devi condannarlo
perché ti odia, ma solo se mette in pericolo
la tua vita”. Igor Soltes, deputato europeo
sloveno, presente al convegno insieme al
croato Davor Skrles, spiega per parte sua
come a Bruxelles sia difficile far votare a
maggioranza risoluzioni impegnative: su
Srebrenica non ci si è riusciti, mentre su
questioni più generali e astratte il consenso
è più facile da raggiungere; viceversa mani-
festa la speranza che i giovani provenienti
dai diversi paesi della ex-Jugoslavia, ora-
mai nelle condizioni di potersi muovere li-
beramente per l’Europa, possano fare mas-
sa critica e favorire un futuro migliore.
Una ragazza di Tuzla si mostra meno otti-
mista: “Mi sono chiesta a lungo se emigrare
o rimanere. Ho deciso di restare per prova-
re a cambiare il mio paese. Ma, mi chiedo,
com’è possibile realizzare quel cambiamen-
to?”. Al riguardo, in molti fra gli intervenuti
ritengono che la chiave di volta stia nel su-
peramento delle condizioni imposte a Day-
ton dagli accordi che hanno definito l’asset-
to del dopoguerra. Ma, se all’interno della
Bosnia-Erzegovina -sottolinea Paolo Berga-
maschi, consigliere della commissione este-
ri del PE- pare mancare una spinta suffi-
ciente a voler modificare quegli accordi, allo
stesso modo non sembra esserci in Europa
una reale volontà a fare pressione dal-
l’esterno in quella medesima direzione.
Questo, insieme alla decisione dell’Unione
europea di rinviare il possibile ingresso del-
la Bosnia almeno per i prossimi cinque an-
ni. Di qui un senso profondo di frustrazione.
Non meno frustrante e dolorosa risulta es-
sere la condizione della giustizia. Natasa
Kandic, avvocata di Belgrado dell’Hlc, im-
pegnata a fondo nella questione, traccia al
riguardo un quadro d’insieme dei processi
ai criminali di guerra. Dopo un certo nume-
ro di sentenze di condanna in primo grado,
si va affermando in appello una tendenza
alle assoluzioni, senza ulteriore possibilità
di ricorso. Va peraltro ricordato che l’incar-
dinamento dei processi si è svolto negli
scorsi anni fra mille resistenze e con estre-
ma lentezza; mentre oggi continuano a
emergere altri crimini rimasti sinora scono-
sciuti. Difficili sono anche le condizioni dei
mezzi di comunicazione, racconta Zlatko
Dizdarevic, già direttore del quotidiano
“Oslobodjenje” nella Sarajevo assediata.
Essi sono in vario modo facile preda, come
peraltro l’insieme della politica bosniaca, di
pesanti interferenze internazionali: da par-
te della Russia, decisa a far valere i propri
rapporti privilegiati con la Serbia e con la
Repubblica Srpska di Bosnia, della Turchia
e dell’Arabia Saudita, determinate ognuna
per la sua parte a fare da contrappeso a
un’Europa poco presente e per nulla propo-
sitiva. Tutto ciò in presenza di reiterati ten-
tativi di arruolamento nelle milizie dell’Isis
e di un clima nel quale l’immobilismo e l’in-
certezza sono all’origine di un diffuso senso
di impotenza.
Verso sera, una volta terminata la discus-
sione, la platea del convegno si suddivide in
gruppi, condotti ognuno da attori su vari
percorsi nel centro cittadino. Alla guida un
cavaliere e il suo scudiero che riescono ad
animare piccoli cortei via via più numerosi.
Fino alla grande piazza centrale di Tuzla,
dove si forma un grande cerchio di pubblico
e la rappresentazione ha inizio.
È da un mese che giovani di Srebrenica, di-
plomati e allievi dell’Accademia di teatro di
Tuzla lavorano con Teatro Zappa di Bolza-
no alla realizzazione di un’opera teatrale
ispirata al Don Quijote. Il tema è quello dei
conflitti; come traccia per la discussione è
stato scelto il testo “Tentativo di decalogo
per la convivenza interetnica” di Langer. Le
discussioni sono state accese e produttive.
La trama che ne è venuta racconta di un
mondo diviso in due: gloriosi cavalieri, de-
diti ognuno alla propria alta missione, da
una parte, e servi capaci e fedeli dell’altra.
Con il tempo matura però la rivolta dei più
deboli che arrivano a fronteggiare con im-
pensato coraggio i loro padroni. Al culmine
quando la Nato decise di porre fine
al conflitto con la forza bastarono
poche ore per sedare gli irriducibili
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