Paolo Stanzione, neurologo, docente all’Università degli Studi Tor Vergata, è direttore della Stroke Unit al Policlinico Tor Vergata di Roma.

Vorremmo tornare a parlare del problema della cosiddetta "medicina difensiva”, che consiste in un eccesso di prescrizioni e contemporaneamente in un astenersi dei medici da interventi a rischio, il tutto allo scopo di tutelarsi da potenziali contenziosi con i pazienti. Come ha visto cambiare il suo mestiere in questi anni, anche rispetto al rapporto medico-paziente?
Ho iniziato a frequentare corsie (allora erano veramente delle corsie di otto-dieci letti) ospedaliere nel 1973. All’epoca i pazienti erano contadini di cinquant’anni che sembravano gli ottantenni di oggi: tutti ipertesi con valori di pressione arteriosa massima a oltre i duecento, con valori ematici fortemente alterati per un’alimentazione del tutto incongrua. Gli infarti del miocardio erano mortali nei primi giorni nell’80% dei casi (oggi nell’80% dei casi il paziente sopravvive benissimo quasi senza reliquati), gli ictus cerebrali erano altrettanto devastanti: mortalità dell’80% a un mese. Le occlusioni delle arterie coronarie e cerebrali non erano trattabili in alcun modo. I leucemici morivano nel 90% dei casi (oggi solo nel 20%). Entrare in camera operatoria voleva dire non avere alcuna sicurezza di uscirne vivi, non fosse altro per la limitatezza delle metodiche anestesiologiche. La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica erano nel mondo dei sogni. Gli accertamenti erano tutti terribilmente invasivi: angiografie per puntura diretta dei vasi cerebrali con aghi di lunghezza impressionante, immagini del midollo ottenibili solo con immissione di mezzi di contrasto che provocavano spaventose infiammazioni delle meningi. I pazienti avevano il terrore di ricoverarsi in ospedale. Non parliamo poi dei reparti universitari, nei quali era comune credenza che si facessero solo esperimenti sui pazienti inconsapevoli. Ma nessuno osava protestare, al massimo rifiutavano di ricoverarsi. I medici erano poco meno che degli dei e nessuno osava chiedere conto del loro operato. Tanto con o senza il loro operato si era destinati a morire. Forse con il loro operato le probabilità erano leggermente minori.
Poi la medicina migliorò, arrivarono i primi trapianti di cuore del prof. Barnard. Sembrò un miracolo: l’uomo stava diventando onnipotente. La televisione iniziò a lanciarsi sull’argomento medicina. Si iniziarono a pubblicizzare le prime cure avveniristiche. Progressivamente nell’arco di trent’anni da ché eravamo destinati tutti a morte certa, sembrò improvvisamente che tutto fosse curabile e la morte non esistesse più. In realtà la mortalità è rimasta del 100% dei nati: tutti quelli che nascono prima o poi muoiono, solo che ora muoiono dopo. L’età media è passata da 70 a 85 anni nell’arco di tre decenni. Due intere classi di età, quelle dei nati tra il 1920 e il 1940, se sono sopravvissute alla guerra e al dopoguerra, si sono praticamente "immortalizzate” perché la loro età aumenta di pari passo con l’aumento della vita media.
Nel frattempo però il medico, da dio in terra, è diventato poco più di un impiegato che "deve” attuare tutte le procedure di cui il paziente è a conoscenza e se il risultato non è il salvataggio e la buona salute, dall’altra parte la reazione sarà: "Adesso qualcuno mi deve spiegare il perché”, anche se detto paziente dovesse avere 90 anni. In sostanza le aspettative sono diventate praticamente infinite.
Come si è arrivati a questo punto? I medici sono spesso accusati di non saper gestire la comunicazione. D’altra parte anche i pazienti, a detta di molti medici, non sembrano più in grado di affrontare prognosi infauste...
Negli anni Settanta il medico parlava con paziente e parenti quasi solo per alzate di occhi. Non si pronunziava mai su di una prognosi, non aveva alcun bisogno di spiegare alcunché tanto era chiaro che il paziente era destinato a un esito infausto a meno di una congiunzione astrale tra fortuna del paziente e imperscrutabile bravura del medico. Certo nessuno chiedeva al medico in cosa sarebbe consistito il suo intervento: sarebbe stato come mettere in dubbio la sua capacità. Era una situazione spaventosamente sbilanciata a favore dell’onnipotenza e intoccabilità del medico. Oggi tutti chiedono -anzi esigono- più che informazioni, prognosi precise e soprattutto fauste. La prognosi infausta, ancorché ampiamente motivata, non è accettata. Tutti i giornali ...[continua]

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