Luigi Bobbio è direttore del Master di Analisi delle Politiche Pubbliche presso il Corep di Torino.

In diversi paesi, per far partecipare i cittadini alla discussione sui problemi e alle scelte del governo delle città, si sta sperimentando anche il metodo di costituire delle assemblee di cittadini estratti a sorte.
In Italia è ancora una cosa abbastanza inedita. I primi esperimenti li abbiamo fatti noi, come università, a Torino e Bologna, lo scorso marzo.
Quando parliamo di partecipazione, l’obiettivo è sempre quello di includere tutti i possibili soggetti interessati alla questione sul tappeto. Questa è la formula classica. Però ovviamente includere tutti è molto difficile, se non impossibile. Se pensiamo di dover prendere una decisione partecipata sulla fecondazione assistita, per dire, solo in Italia ci sono 50 milioni di persone coinvolte nella questione. Se la decisione riguarda un quartiere, come rimettere a posto la piazza, o ristrutturare un edificio, fare un parco pubblico, magari sono soltanto alcune decine di migliaia, ma sono sempre numeri altissimi.
Da una parte noi avremmo bisogno di mettere dentro tutti, in modo che ciascuno possa esprimersi e dialogare con gli altri, formandosi le idee discutendo. E dall’altra parte c’è un problema di grandi numeri. Come si fa a risolvere quest’impasse? Il metodo tradizionale, quello più usato, è quello della “porta aperta”, cioè di aprire le porte di un’assemblea, di un luogo, permettendo a tutti di entrare e dire la loro…
Questo modello tuttavia comporta un problema molto serio: quando facciamo un’assemblea pubblica (ma vale anche per i forum internet) la questione che viene sollevata da molte parti è quella dell’autoesclusione. Nel senso che non solo vengono poche persone (e questo forse non è neanche male, ci sarà sempre una grande quantità di persone che non ha voglia, non è interessata, non ha tempo per partecipare), ma vengono persone di un certo tipo, che significa più o meno “attivisti”, gente che ha le mani in pasta nella questione, o che è all’interno di qualche tipo di rete.
Questo, che è un nodo fondamentale, è anche uno dei limiti dei bilanci partecipativi, che sono basati appunto sul principio della porta aperta. Senza occuparci di Porto Alegre, che ha una sua specificità (l’hanno inventato lì) resta il fatto che quello che osserviamo nelle repliche europee (allo stato attuale ci saranno 20-30 casi di Comuni che hanno adottato tale modello) è che la partecipazione non è solo limitata, ma è molto connotata.
Prendiamo il caso del Municipio di Roma XI, forse il più interessante rispetto al bilancio partecipativo; è un quartiere enorme, più di centomila abitanti. Ebbene, in un’indagine è stata chiesta un’autocollocazione politica dei partecipanti. Ora, non vorrei dare dati imprecisi, ma mi sembra che più del 50% si è dichiarato di sinistra, il 30% di centrosinistra e gli altri non si sono situati. Ecco, lì è chiarissimo che si sono mosse delle reti associative, di amicizie, di contatti. Parrebbe che nessuno abbia votato il centrodestra, il che non è evidentemente e questo è un problema molto rilevante.
Il modello assembleare poi presenta altri punti di criticità: c’è troppa gente, solo pochi parlano, la maggior parte ascolta, quindi la discussione, di nuovo, è viziata dal fatto che in realtà a esprimersi è una minoranza… Ovviamente l’idea di tenere la porta aperta è molto importante. Decidere che il bilancio di un Comune si fa attraverso decisioni condotte con questa modalità è una novità dirompente perché normalmente i bilanci si fanno a porte chiuse. Non voglio insomma sottovalutare questa opzione perché effettivamente l’apertura è importante, quindi non va disprezzata.
Un secondo modo per garantire la presenza di tutti, o meglio per provarci - parliamo sempre di approssimazioni - è quello di cercare di mettere attorno a un tavolo, non tutte le persone, ma tutti i punti di vista. Per esempio, in un quartiere si tratta di riuscire a coinvolgere le varie figure caratteristiche, famiglie con pochi e tanti figli, anziani e giovani, stranieri e poi associazioni, categorie, gruppi… Questa è una costruzione artificiale abbastanza comune. A differenza dell’assemblea, in cui si apre la porta ed entra chi vuole, qui c’è una sorta di progettazione, di costruzione del processo. Infatti la prima cosa da fare è quella di andare a cercare le persone. Queste cose vanno preparate: bisogna capire chi c’è, che cosa dice, chi sono i ...[continua]

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