Giuseppe Moscati lavora presso il Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università degli Studi di Perugia. Redattore della rivista “Rocca”, è autore di diversi saggi, tra i quali Il libero-socialismo di Aldo Capitini, in Aa.Vv., A. Capitini tra socialismo e liberalismo (a cura di G.B. Furiozzi, Franco Angeli 2001).

Quella di Aldo Capitini è sicuramente una figura molto particolare. Mi pare infatti egli avesse tutti i crismi per essere considerato un vero e proprio intellettuale, appunto, ma senza mai vivere appieno questo suo ruolo, o almeno non nel senso tradizionale del termine.
Concordo. La stretta aderenza dello stile di vita adottato al proprio pensiero, l’estrema coerenza di scelte e principi, azioni e valori, in breve la simbiosi di teoria e prassi, stanno a testimoniare la riluttanza di Capitini a sentirsi un intellettuale per così dire “puro”. Queste caratteristiche fanno di lui, semmai, un pensatore di grande umanità che ha pagato duramente il suo coraggio nel difendere le proprie idee, un filosofo con un’eccezionale attenzione alla realtà socio-politica e un lucido lettore del suo tempo. Ma credo anche, profeticamente, del nostro. Ce ne fornisce una significativa conferma quanto ha voluto sottolineare di recente il sociologo Franco Ferrarotti scrivendo che “aprire il discorso sulla complessa figura di Aldo Capitini comporta, in via preliminare, la considerazione di un paradosso: quanto più un pensiero appare ai contemporanei come ‘sfasato’ e inattuale, tanto più questo stesso pensiero si pone in realtà come significativo e pieno d’avvenire” (Stato laico e religione civile: l’esempio di Aldo Capitini, “Lettera internazionale”, n. 86/2005, p. 51).
Capitini parte da studi letterari per poi approdare alla filosofia, che vede subito sostanzialmente come un soccorso del pensiero all’azione di opposizione al sistema totalitario prodotto dal regime fascista. Ma la filosofia cui egli guarda non può essere naturalmente quella dell’idealismo, cui reagisce con forza poiché trova che sia un pensiero chiuso; né può dirsi soddisfatto dall’esistenzialismo, cui pure si riferisce sotto alcuni punti di vista, rielaborando quella peculiare forma di esistenzialismo che è stato il pensiero tragico di Carlo Michelstaedter. Esistenzialismo, comunque, che Capitini non può non avvertire come insufficiente soprattutto per via di una certa forma -diciamo così- di “esilio volontario dal mondo” che l’esistenzialista finisce, pessimisticamente, per scegliere con la sua rinuncia di fondo alle grandi potenzialità insite nell’azione trasformatrice della politica.
Allo stesso tempo Capitini, pur non ripudiandola in toto, intende oltrepassare la visione dello storicista, che fa bene a concepire l’uomo come soggetto reale, concreto, e Dio come immanente all’umano e però sbaglia nell’accogliere in maniera inerte il mondo “così come viene” con la certezza giustificatoria che anche il male è strumentale al “bene che verrà”. La via ricercata da Capitini, in questa direzione, è invece quella di una sorta di riforma-aggiunta religiosa, ma di una religione aperta -come amava ripetere- e libera o meglio liberata, ovvero finalmente liberata dai vincoli asfissianti del dogma, da una parte, e della gerarchia ecclesiastica, dall’altra, a favore di una trascendenza rivoluzionariamente orizzontale.
A partire da questa tensione e volendo seguire da vicino il percorso che porta Capitini a indagare quelle che sono le dinamiche relazionali fondamentali proprie dell’agire sociale, è possibile rinvenire un filo conduttore della sua elaborazione teorica e della sua azione pratica?
C’è sicuramente un filo rosso tra le opere capitiniane, da Elementi di un’esperienza religiosa del 1937 a Vita religiosa del ’42, da Atti della presenza aperta del ’43 a La realtà di tutti scritto nel ’44 e pubblicato solo quattro anni più tardi, fino al Saggio sul soggetto della storia, a Religione aperta e a La compresenza dei morti e dei viventi, rispettivamente del ’47, del ’55 e del ’66 (solo per citare le principali). E’ il filo che lega la religione alla politica, la religione intesa come prassi, sentimento ed esperienza religiosi, e la politica vista come vita sociale e come insieme di quelle relazioni interpersonali di cui si nutre una comunità. Quest’ultima, secondo la visione di Capitini, non può che essere una comunità allargata nei propri orizzonti e aperta a tutti, persino ai morti, che cooperano con i vivi alla comune costruzione dei valori ...[continua]

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