Gianpaolo Barbetta
La questione del rapporto tra sussidiarietà e potere è oggi particolarmente interessante e mi richiama subito la domanda di Monsignor Nervo: "E’ lo Stato sussidiario alla società civile o il contrario?”, che è in fondo il nodo fondamentale.
Premesso che io credo che sia lo Stato a dover essere sussidiario alla società civile, vorrei arrivarci attraverso un itinerario che spieghi perché è sensato dare una risposta di quel tipo.
Credo sia indispensabile partire da alcune osservazioni, un po’ da economista, un po’ da sociologo. Negli ultimi vent’anni il mondo è cambiato in maniera radicale. In un arco temporale molto breve abbiamo attraversato un cambiamento dal punto di vista economico, sociale, demografico, molto rapido ed intenso. Così rapido e intenso che qualcuno stenta a riconoscerlo. E molti, forse per paura, addirittura non lo vogliono vedere e quindi si comportano come se non fosse avvenuto.
Provo a mettere sul tavolo alcuni elementi che segnano questo cambiamento.
C’è una questione generale che va sotto il termine generale di globalizzazione, che vuol dire maggior facilità nelle comunicazioni, sia in senso fisico, che in senso immateriale; globalizzazione vuol dire anche smaterializzazione dei processi produttivi, competizione fiscale, e pure economica coi paesi emergenti, concorrenza che si allarga. Il tutto con alcune conseguenze che vediamo precipitare anche nel nostro territorio.
Anche il mercato del lavoro è molto cambiato negli ultimi anni all’insegna della precarietà o flessibilità. Un’altra conseguenza di questa globalizzazione è che la competizione ci è venuta in casa ed ha il volto degli stranieri. Una competizione che genera qualche problema di carattere economico, soprattutto ai soggetti "nostrani” più deboli. Quindi timore nelle fasce lavorative più deboli, che però non sono solo di natura economica, ma soprattutto di natura sociale, di integrazione, di multiculturalità, in una società, come quella italiana, che è stata tradizionalmente abbastanza chiusa. A me viene sempre un esempio. Se facciamo paragoni con altre società, come l’Olanda, i paesi del Nord europeo, il numero di italiani che sa parlare una lingua straniera è molto più basso.
E se è vero quello che dice Wittgenstein -i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo- allora è evidente che viviamo in un mondo più piccolo.
Altra conseguenza è che siccome non siamo più in grado di competere sul prezzo, dobbiamo spostare le nostre capacità sulle fasce alte del mercato e questo chiama in causa il cosiddetto capitale umano di qualità.
A fianco di questo fenomeno della globalizzazione che ci ha cambiato il contesto, ci sono un’altra serie di fenomeni: c’è l’invecchiamento della popolazione, che a sua volta ha delle conseguenze in termini di bisogni. Anche l’aumentato tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro genera nuovi tipi di bisogni. La dimensione della cura, prima delegata alla componente femminile, è diventata meno compatibile con un’esistenza che vede entrambi i membri della coppia, della famiglia, lavorare. E poi c’è la questione cui accennavo prima, quella del capitale umano: questo nuovo modello di competizione richiede lavoratori diversi rispetto al passato. Richiede lavoratori che abbiano un capitale umano più qualificato.
Da noi qualcosa è cambiato. Il numero di persone che frequentano l’università è cresciuto, ma il tasso dei laureati a parità di fasce di età nel nostro paese è quasi la metà rispetto agli altri paesi europei. E quindi anche questo genera tutta una serie di dinamiche.
Volendo sintetizzare, io vedo tutta una serie di fenomeni che se non sono adeguatamente contrastati spostano continuamente rischi e potenziali perdite sistematicamente sui soggetti più deboli e meno attrezzati.
Tra l’impresa e il lavoratore il soggetto più attr ...[continua]
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