Dino Cofrancesco è professore emerito di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Genova. Ha diretto il Centro per la filosofia italiana e il Centro internazionale di studi italiani dell’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Isaiah Berlin. Il pluralismo preso sul serio (Rubbettino, 2025), Democrazie alla prova. Sfide, trappole e prospettive (Genova University Press, 2024) e Per un liberalismo comunitario. Critica dell’individualismo liberista. Antologia da HuffPost (La Vela, 2023).

Può spiegarci cos’è il liberalismo comunitario? 
Dunque: stando a una classificazione del compianto Bernard Manin, i liberalismi sono sostanzialmente due: il liberalismo del mercato e quello dei contropoteri. Il liberalismo del mercato assegna precisi limiti al potere dello Stato, si basa sostanzialmente sulla proprietà privata, la concorrenza, la libertà di investire, di comprare e vendere dove più conviene. Il liberalismo dei contropoteri fonda la libertà dei cittadini sul fatto che in ogni sistema politico ci sono poteri e contropoteri che si bilanciano l’un l’altro; a un potere, cioè, reagisce un altro potere. Pertanto nessun potere può derogare da quelli che sono i suoi compiti istituzionali perché altrimenti ne incontrerebbe un altro che lo ferma su questa china pericolosa. Io credo che entrambe queste concezioni del liberalismo non colgano nel segno: il primo, quello del mercato, che fissa dei limiti all’attività dello stato, considerandolo in sostanza solo un vigile urbano del traffico sociale, di fronte a forti movimenti sociali e partiti che vorrebbero assegnare allo stato più potere (in vista, ad esempio, di un welfare state, di una redistribuzione della ricchezza) dovrebbe considerarli anticostituzionali e questo sarebbe certamente un grave problema. Ma anche il liberalismo dei contropoteri, d’altra parte, non è rassicurante se si pensa -ma questo già lo ipotizzava Montesquieu- che i poteri in concorrenza potrebbero trovarsi d’accordo su determinati fini e questi fini potrebbero a loro volta non essere in linea con gli ideali di libertà. Per esempio, in Italia, se la magistratura è un contropotere, ecco, lascio al lettore saggio stabilire se questo contropotere effettivamente allarga la libertà dei cittadini; sicuramente limita la libertà dei governi, anche però laddove al potere giudiziario conviene, ma certo limita sostanzialmente anche la libertà dei cittadini. 
Il liberalismo comunitario invece parte dal principio che i protagonisti della democrazia liberale sono le persone e non già gli individui, come diceva il mio compianto maestro Norberto Bobbio; e per persone intendo uomini radicati in una comunità con delle tradizioni, con un passato, con simboli e valori condivisi. Il liberalismo comunitario parte dal principio che ogni libertà, per essere reale ed effettiva, deve fondarsi su una comunità. 
Non ci possono essere, come pensava John Locke, individui astratti, isolati, che a un certo punto si riuniscono e stabiliscono un patto sociale fondato su principi come la libertà, la vita e la proprietà. Ecco, questa è un’astrazione illuministica. Il liberalismo moderno, piaccia o non piaccia, nasce dalla critica dell’universalismo e del razionalismo illuministico che i liberali tra Settecento e Ottocento vedevano incarnato nella rivoluzione francese o, meglio, nella seconda parte della Rivoluzione francese, quella che inizia nel 1791. Non è casuale del resto che Robespierre sia stato considerato l’antesignano di Lenin e che su questo abbia scritto un grande storico della rivoluzione francese Albert Mathiez. Ecco, se si capisce questo, si comprende perché il liberalismo moderno nasce come critica della Rivoluzione francese, non dell’89, ma del ’91; nell’89, infatti, noi abbiamo la rivoluzione di Mirabeau, la rivoluzione di quelli che verranno chiamati con disprezzo i “foglianti”, e questi guardano al modello inglese, alla divisione dei poteri, alle libertà dei cittadini eccetera, cioè non assegnano allo stato compiti di riscatto e di redenzione sociale. 
Il liberalismo comunitario parte proprio dal riconoscimento che lo stato non è un male necessario come ancora sembrava a un grandissimo liberale come Luigi Einaudi. Lo stato è il fondamento di tutte le libertà e di tutti i diritti perché se non c’è lo stato a renderli efficaci dove vanno a finire i diritti? Naturalmente, quando si dice stato si dice istituzione e le istituzioni non sono per definizione buone, ma diventano ...[continua]

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