Prima di partire per Murmansk mi ero informato via internet sulle condizioni atmosferiche che avrei trovato. Sforzo inutile. All’arrivo mi spiegano che oltre il circolo polare artico non è possibile fare previsioni affidabili perché il tempo è troppo instabile. Durante la mia permanenza, infatti, turbini di neve si alterneranno a squarci di sole in modo rapido e improvviso. Due giorni prima la notte era stata illuminata da una magnifica aurora boreale. Murmansk è l’unico porto del mare di Barents dove l’acqua non ghiaccia d’inverno. E’ la ragione per cui la marina sovietica aveva scelto questa città, all’interno di un profondo fiordo, come quartiere generale della Flotta del Nord, costituita in buona parte da sommergibili nucleari. La penisola di Kola è stata a lungo vietata agli stranieri perché costellata di basi militari. Ancora oggi evidenti segnali di divieto sbarrano l’accesso ad ampie fette di territorio attorno a Murmansk. Negli abissi di questo tratto di mare si è consumata la tragedia del Kursk la cui carcassa è stata da poco ripescata.
Da qualche tempo il numero degli abitanti della regione si è stabilizzato. Per sviluppare Murmansk, infatti, le autorità sovietiche incentivavano l’immigrazione con salari più elevati e ferie più lunghe nei luoghi caldi a sud dell’impero. Una volta crollato il regime sono caduti i benefici e con questi anche le ragioni per vivere in un luogo così inospitale. Chi mi accompagna mi racconta della lunga notte artica che inizia a metà novembre e termina a febbraio con temperature che raggiungono i – 42°. Per gli studenti la buona notizia è che a – 26° le scuole restano chiuse, la brutta è che questo accade di frequente. Il freddo, comunque, mi spiegano che non costituisce un grosso problema a parte l’auto che a volte non si mette in moto.
I Norvegesi sospettavano da tempo che in questa zona le pratiche di smaltimento del combustibile nucleare fossero problematiche. Certo non immaginavano, quando riuscirono ad entrare dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di trovarsi di fronte ad una situazione agghiacciante. In tutta la regione non vi è un sito di stoccaggio permanente di rifiuti radioattivi. Buona parte di questi sono in piscine di cemento armato a cielo aperto. A causa delle rigide temperature il cemento non si asciuga completamente e si creano spesso fessurazioni. La penisola di Kola è la più grande discarica di scorie nucleari al mondo. E per anni (dal 1960 al 1991) la marina sovietica ha scaricato illegalmente nel mare di Barents e nel Mar Bianco tonnellate di rifiuti radioattivi. Esperti hanno calcolato che per trasferire in luogo sicuro tutto il combustibile spento, qui accumulato in condizioni precarie, occorrerebbero almeno quindici anni.
Il mare di Barents riveste un’interesse particolare soprattutto per la pesca. E’ considerato il quinto luogo più importante per quanto riguarda la riproduzione del pesce.
Agli inizi degli anni Novanta le autorità russe, non senza una certa resistenza, hanno accettato la collaborazione occidentale per far fronte al rischio di catastrofe ambientale che andava delineandosi in maniera sempre più tangibile. Oggi buona parte delle stazioni di caricamento e scarico della flotta nucleare sono passate sotto le competenze del Ministero per l’Energia Atomica (MinAtom) facendo breccia, in parte, nel muro di silenzio che i militari avevano irresponsabilmente eretto per coprire il problema.
Per chiarire meglio l’argomento vorrei soffermarmi su due storie emblematiche. La prima riguarda Aleksandr Nikitin, capitano in congedo della marina sovietica. Conobbi Nikitin tre anni fa al Parlamento Europeo quando venne a ringraziarmi, assieme ad altri, per le iniziative a sostegno della sua liberazione. Ingegnere nucleare, dal 1987 era divenuto Ispettore Capo per la Sicurezza delle Installazioni Nucleari al Ministero della Difesa. Una volta abbandonata la divisa si era messo a collaborare con Bellona, un’organizzazione ambientalista norvegese, per la redazione di un rapporto che denunciasse le colpevoli carenze nella gestione dei rifiuti radioattivi nella penisola di Kola. Nel febbraio del 1996 Nikitin venne arrestato dalle forze di sicurezza russe (l’ex Kgb) con l’accusa di tradimento e spionaggio per aver passato segreti di stato ad una organizzazione straniera. Dopo una massiccia campagna di mobilitazione di tutte le associazioni europee dei diritti dell’uomo nel dicembre dello stesso anno venne rimesso in libertà, ma solo nel dicembre del 1999 assolto perché il fatto non sussisteva. Nella mia visita a Murmansk Nikitin è tornato con me per sul “luogo del delitto” per la prima volta dopo le sue vicissitudini giudiziarie. Abbiamo visitato insieme i cantieri Nerpa, dove smantellano i sottomarini nucleari e dove era in corso lo smantellamento del Kursk. E’ stata la sua rivincita personale. Mai avrebbe pensato di rientrare un giorno e di constatare che grazie alle sue denunce i sistemi di sicurezza erano stati cambiati radicalmente e finalmente nuove norme più severe erano state introdotte a protezione degli addetti.
Purtroppo il caso Nikitin non è rimasto isolato. Da due anni, infatti, si trova in carcere condannato ai lavori forzati per le stesse accuse, Grigori Pasko, giornalista che ha svelato le malefatte dei militari della Flotta Nucleare del Pacifico nella zona di Vladivostok. Pasko è stato adottato da Amnesty International come prigioniero di coscienza e per lui si sta mobilitando l’associazione degli scrittori russi. In una mia precedente visita a Mosca il caso era stato sollevato con il direttore dell’Fsb (l’ex Kgb), Patruscev, che non aveva voluto sentire ragioni. Nella fragile democrazia russa i militari e gli uomini dei servizi segreti controllano ancora le leve del potere e la condanna di Pasko appare come una punizione per chi ha osato sfidare questo apparato. Pasko è stato recentemente candidato in Parlamento Europeo al Premio Sakharov che viene annualmente assegnato a chi si batte per i diritti dell’uomo.
L’altra storia riguarda la nave Lepse. Non sapendo più dove stoccare le barre di combustibile spento si è pensato ad un certo punto di immagazzinarle su navi “di servizio”. Nel porto di Murmansk sono ormeggiate sei di queste imbarcazioni cariche di tonnellate di rifiuti radioattivi solidi e liquidi contenuti in canestri e cassoni. Il Lepse è una di queste. Dopo quarant’anni i contenitori hanno cominciato a corrodersi e parte del combustibile nucleare è colato nella stiva. Si racconta di operai privi di ogni protezione che, armati solo di mazza, hanno cercato inutilmente di far entrare l’uranio in nuovi contenitori. Le barre hanno cambiato forma e con la tecnologia esistente è quasi impossibile rimuoverle. Diciotto marinai si sono dati il cambio negli anni per la manutenzione della nave esponendosi a livelli di radioattività spaventosi (man mano che ci avvicinavamo la lancetta del nostro contatore Geyger impazziva). Grazie all’intervento degli ambientalisti norvegesi questi marinai oggi non sono più costretti a vivere a bordo della nave ma trascorrono buona parte del tempo in container sul molo appositamente attrezzati per il lavoro che devono svolgere.
Nel giugno di quest’anno, in Canada, consci del problema, i grandi della terra riuniti nel G8 hanno deciso di stanziare 20 miliardi di dollari per la messa in sicurezza dei rifiuti nucleari russi. Le scorie della penisola di Kola contengono uranio arricchito fino al 90%, potenzialmente in grado, quindi, di essere utilizzato per la costruzione di ordigni nucleari. Le ragioni di carattere ambientale si sommano a quelle che riguardano la non-proliferazione. A Murmansk negli anni Novanta ci fu un furto di materiale fissile scoperto per fortuna dopo qualche giorno. Un attentato terroristico ad uno di questi siti provocherebbe un disastro di proporzioni inimmaginabili.
Ma è tutto il ciclo del nucleare in Russia che desta profonda preoccupazione. L’uranio arricchito arriva da Mosca dopo un viaggio in treno di 1.700 km. Da Murmansk riparte per l’impianto di ritrattamento di Celiabinsk, negli Urali, a 3.000 km di distanza, dove giunge dopo 15 giorni per ritornare poi a Mosca e percorrere altri 2.000 km per subire una nuova operazione di arricchimento. Per ragioni di sicurezza i convogli non possono superare i 20 km all’ora e, sulla carta, non dovrebbero mai fermarsi. In una Russia dalle infrastrutture fatiscenti, sconvolta da conflitti etnico-religiosi, questi trasporti mettono i brividi. Bisogna considerare, inoltre, che a Celiabinsk, negli impianti di Majak, negli anni Cinquanta e Sessanta si sono verificate le due più grandi catastrofi nucleari dopo quella di Cernobyl. Celiabinsk è ancora oggi “off limits” per gli stranieri ma le denunce di Greenpeace e le foto che filtrano fanno accapponare la pelle.
La Russia dalle casse vuote ha recentemente adottato una legge che permette l’importazione di combustibile nucleare spento. Lo stoccaggio delle scorie è da sempre considerato l’anello più debole del ciclo atomico. L’industria nucleare nei paesi occidentali è in crisi e questa pseudo-sistemazione potrebbe portare un raggio di luce a chi non riesce a fornire soluzioni credibili.
Rimane, comunque, il dilemma degli aiuti. La Russia non ha interrotto il suo programma di costruzione di sommergibili e rompighiaccio atomici.
Il sostegno finanziario alla bonifica della regione di Murmansk è quindi un aiuto indiretto alla sua industria militare nucleare.
Non sarebbe giusto subordinare i soldi occidentali ad una politica di denuclearizzazione? Di fronte alle mie obiezioni gli ambientalisti di Bellona mi confessano di avere avuto agli inizi le stesse perplessità. Ma il rischio di una catastrofe nucleare è così concreto che l’urgenza del problema ha prevalso su ogni altra considerazione.
Qualcuno ha definito le scorie nucleari di Murmansk come l’ultima eredità della guerra fredda. Occorreranno ancora molti anni prima che questa si concluda definitivamente.
Paolo Bergamaschi