(continua dal numero precedente)
Contrariamente a Bruxelles e Strasburgo, le città che frequento da più di vent’anni, trovare un posto dove cenare a tarda ora a New York non è affatto un problema. A Manhattan puoi farlo in qualsiasi momento; sono moltissimi i locali aperti 24 ore. Si entra, ci si serve da soli dagli scaffali e dai banchi di cibo già pronto, si paga alla cassa, ci si accomoda attorno ai tavoli sistemati a lato e si mangia. La città, peraltro, è percorsa da un’ondata di salutismo che obbliga i ristoranti a mettere a disposizione del cliente cibo organico di qualità discreta. E non si ferma mai. Ci sono agenti di polizia e clochard a ogni angolo di strada. Vado a zonzo alla ricerca dei luoghi che hanno popolato la mia adolescenza. Passo dalla Settima Strada cantata da Simon & Garfunkel in “The boxer”, uno dei pezzi che amavo di più suonare con la chitarra, a Central Park, scena di concerti, crimini e incontri sentimentali di tanti, forse troppi film. Quello che manca, però, è una piazza. La piazza è lo specchio di una città. Nella piazza si riflettono la storia, le abitudini e la cultura della città. Una città senza piazza è una città senz’anima. Passo e ripasso da Times Square. Più che una piazza è uno slargo fra due strade. Tanta folla in movimento ammaliata dagli immensi tabelloni dove scorrono le immagini di pubblicità, i video degli artisti più in voga e i mini-trailer dei film in cartellone. Fiction e realtà si incrociano e si fondono. Forse è proprio questa l’America. La gente fa la fila per una fotografia sotto alla targa della Trump tower. Non c’è coda, invece, anche se c’è un incessante via vai, davanti agli ingressi degli edifici in Midtown Manhattan che ospitano gli uffici Bloomberg, la celebre compagnia che si occupa di servizi e analisi del mondo della finanza e dei media. Il suo fondatore, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, è uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti e del pianeta intero con una fortuna stimata di quasi sessanta miliardi di dollari. Per il suo impegno in campo ambientale è stato nominato “Inviato speciale delle Nazioni Unite per l’azione sul clima” ed è in questa veste che lo incontriamo per un breve scambio di vedute su quella che è ormai divenuta la principale emergenza globale. La sua collaboratrice, che ci attende al piano terra distribuendoci i badge davanti gli ascensori, ci illustra brevemente la filosofia dell’azienda. “Niente uffici chiusi, solo spazi aperti”, enfatizza mentre passiamo di fianco alle postazioni dove siedono gli impiegati, “il luogo di lavoro deve trasformarsi anche in luogo di incontro dove sviluppare le relazioni sociali”. Fra i box multipli ci sono anche i punti di ristoro dotati di angolo cottura, frigoriferi, tavoli e sedie dove i dipendenti possono prepararsi i pasti o fare la pausa caffè. Tutto il cibo è fornito gratuitamente dall’azienda. Ci accomodiamo in una sala dalle pareti di vetro da cui si scorgono gli studi della rete televisiva di notizie economiche che arriva in tutto il pianeta che, peraltro, possiamo seguire anche dai monitor sparsi un po’ dappertutto. Michael Bloomberg arriva dopo qualche minuto in completo casual con uno sfavillante pullover arancione. Modi informali, diretti, sorridente con una stretta di mano e una battuta per tutti. “Dobbiamo agire in fretta -sottolinea- il 2050 potrebbe essere troppo tardi”. “Bisogna anticipare gli obiettivi sulla lotta al cambiamento climatico al 2040 o, meglio ancora, al 2030”, sentenzia. Conta di riuscire a far chiudere tutte le centrali a carbone del globo nel giro di pochi anni riconvertendo gli impianti alle energie rinnovabili. Si lamenta di non ricevere alcun aiuto dal governo federale americano e non risparmia frecciate a Donald Trump. “Gli umori dell’opinione pubblica del mio paese nei confronti del surriscaldamento del pianeta sono cambiati -osserva con ironia- si è passati dalla negazione ostinata al complotto comunista per arrivare oggi, finalmente, a riconoscere che il cambio del clima è in corso e occorre intervenire”. “Ma c’è bisogno di leadership per spiegare alla gente cosa sta succedendo e questa purtroppo manca”, conclude. Nonostante ciò si congeda esprimendo ottimismo per quanto riguarda l’azione dell’Unione europea e dei singoli stati Usa in controcorrente rispetto all’amministrazione di Washington. E da buon operatore del mondo della finanza non manca di sottolineare l’importanza dell’obbligo per le aziende di rendere pubblici i rischi finanziari connessi ai cambiamenti climatici legati alle proprie attività. Solo in questo modo si può capire il vero valore e la sostenibilità di una compagnia.
Solo tre ore di treno separano Washington da New York. È un collegamento comodo e veloce. Non avevo mai provato la ferrovia negli Usa anche se nei viaggi precedenti avevo girato il paese in lungo e in largo. Il treno in America non è un mezzo di trasporto popolare sia per la rete limitata che per la tradizionale riluttanza americana all’utilizzo dei mezzi pubblici. Sono le undici di sera. Piove e non c’è anima viva in giro per le strade della capitale. Il contrasto con New York è scioccante. Anche l’hotel dove alloggiamo è immerso in una quiete quasi irreale. A Washington si svolge la seconda e ultima parte della missione che prevede una serie di incontri con il mondo politico statunitense. Poi si ritorna in Europa anche se per me ci sarà un’appendice alla ricerca del tempo vissuto.
È un compito difficile quello che spetta a Stavros Lambrinidis, il nuovo ambasciatore dell’Unione europea presso gli Stati Uniti, visto i tempi che corrono per le relazioni transatlantiche. Politico e allo stesso tempo diplomatico di lungo corso Lambrinidis conosce molto bene gli ambienti delle politica americana. “È di assoluta importanza per l’Europa mostrare unità e coesione -sono le sue prime parole mentre ci riceve nella sede della delegazione Ue- la forza e l’unità europea è una buona notizia anche per gli Usa sia per ragioni economiche che di sicurezza”. “Le economie delle due sponde dell’Atlantico sono fittamente intrecciate -osserva- basti pensare che il 70% degli investimenti esteri negli Stati Uniti sono di provenienza europea”.
Si sofferma, poi, sui contenziosi commerciali in corso, il caso Airbus-Boeing in primo luogo, auspicando si possa trovare un accordo in tempi brevi che rafforzi il partenariato economico transatlantico. “Anche per quanto riguarda i prodotti agricoli -nota l’ambasciatore- le distanze non sono così marcate come sembra”. In realtà sulle produzioni di qualità, Dop e Igp, le parti non si sono mosse dalle posizioni di partenza con l’amministrazione americana che non ha alcuna intenzione di accettare una pratica europea che assimila a forma di protezionismo commerciale. Altro elemento di frizione è la lotta ai cambiamenti climatici dopo la decisione di Donald Trump di abbandonare gli accordi di Parigi. “Affrontare il problema del surriscaldamento del pianeta è di fondamentale importanza per il futuro delle nostre economie -mette in evidenza- dal 1990 siamo riusciti a ridurre del 20% le emissioni di gas serra aumentando, nel contempo, la crescita economica del 60%”.
Sergej Lagodinsky è un giovane e brillante eurodeputato tedesco che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti. Con lui percorro gli androni del Campidoglio commentando il programma della visita mentre ci spostiamo fra gli uffici del Congresso e quelli del Senato per incontrare rappresentanti e senatori in preda a una inevitabile eccitazione. Sono in corso le procedure di impeachment. Repubblicani e democratici sono ai ferri corti. C’è poco tempo per discutere. Le nostre riunioni vengono interrotte di continuo perché i partner americani devono correre in aula per le operazioni di voto. Parliamo a singhiozzo dei temi più scottanti di politica estera, Siria, Ucraina e Iran in testa, e di come rianimare le relazioni transatlantiche. I rappresentanti democratici sono costernati mentre quelli repubblicani tendono a minimizzare e a giustificare i comportamenti di Trump, pur non mostrandosi particolarmente entusiasti del suo operato. Per i democratici l’America è un paese corrotto e cattivo che dovrebbe evitare di uscire dai suoi confini per non contaminare il mondo; per i repubblicani è il mondo a essere corrotto e cattivo e l’America dovrebbe starsene a casa tranquilla per evitare di contaminarsi. Forse aveva semplicemente ragione l’ex presidente Bill Clinton quando affermava che gli americani sono fondamentalmente isolazionisti e se ne fregano delle relazioni internazionali. Usciamo dal Campidoglio un po’ delusi scansando le comitive dei visitatori che affollano il luogo-simbolo della democrazia americana. Sta per scoccare l’ora x. L’ultimo incontro ufficiale prima della mia uscita di scena è previsto al Dipartimento del Tesoro per affrontare la questione spinosa dei finanziamenti illeciti ai gruppi terroristici ma un disguido tecnico blocca il sottoscritto con buona parte della delegazione nell’anticamera dell’entrata dell’edificio. Le autorizzazioni per l’accesso erano state richieste e ci erano state concesse con largo anticipo ma i dati inviati al servizio di sicurezza non coincidono con i documenti presentati all’ingresso. A nulla vale spiegare che in Europa la data di nascita mette in successione il giorno, il numero del mese e l’anno contrariamente a quanto avviene negli Usa dove è il numero del mese a precedere il giorno e l’anno. Le informazioni non combaciano e ci viene vietato l’accesso subordinandolo a ulteriori accertamenti che arrivano, con colpevole ritardo, solo a riunione finita.
Le misure di sicurezza in America sono soffocanti e invasive creando a volte situazioni paradossali.
Tanto tempo fa, a cavallo del 1972 e del 1973, grazie a una borsa di studio dell’associazione Intercultura ho avuto l’opportunità di passare un anno negli Stati Uniti come studente straniero ospitato da una famiglia americana. È stata l’esperienza che ha cambiato e segnato la mia vita. Da allora non ho più smesso di viaggiare. Nel corso degli anni ho mantenuto, seppure a fasi alterne, i contatti e gli affetti di allora. Non potevo non approfittare dell’occasione di questa trasferta americana per rivedere i fratelli e la mamma di oltreoceano. Saluto ufficialmente, solennemente e sommessamente Sergej e gli altri membri della delegazione parlamentare e mi incammino verso la metropolitana per raggiungere l’aeroporto dove avevo già prenotato un auto a noleggio. Ritiro il mezzo dopo avere bisticciato con l’operatrice. Il navigatore richiesto non funziona e uscire da Washington senza tom tom è un’impresa ardua, oltre alla coda di trenta chilometri che mi costerà due ore di ritardo all’appuntamento con il primo fratello che risiede in Pennsylvania dalle parti di Harrysburg. Jeff mi aspetta impaziente. Lo rivedo, con la nuova moglie, con un certo coinvolgimento emotivo. Sono trascorsi quindici anni dall’ultima volta e l’aspetto di entrambi non fa sconti sull’età che avanza. L’emozione più forte, però, la provo il giorno successivo quando dalla Pennsylvania mi trasferisco di nuovo nello stato di New York anche se sul lato opposto, a settecento chilometri dalla metropoli. Sulle sponde di un piccolo lago dal nome irochese, Chautauqua, ho frequentato la high school e vissuto il punto di svolta della mia esistenza. Riabbracciare mia madre “adottiva” ottantacinquenne negli stessi luoghi dove ho passato i momenti più intensi e spensierati del mio anno all’estero risveglia ricordi profondi che forse aspettavano solo il momento giusto per ritornare a galla. La casa sul lago, le raffiche di vento gelido, la prima neve. Tutto sembra uguale e, invece, è così diverso. Per me le relazioni transatlantiche sono soprattutto queste.