«Non sono la pigrizia, la cattiva volontà, la goffaggine che mi fanno fallire in tutto -scriveva Kafka nei suoi Diari- ma la mancanza di terra sotto i piedi, d’aria, di legge». E aggiungeva: «Crearmi queste cose è il mio compito».
Noi sappiamo che, se si tratta di letteratura, Kafka non fallì. Ma sappiamo anche (o dovremmo sapere) che, per un vero scrittore -cioè per un uomo che non si contenti di finzioni-, nessun successo letterario può surrogare «la mancanza di terreno sotto i piedi, d’aria, di legge», perché queste son cose che non riguardano l’esistenza giornaliera, le virtù, i vizi, le fortune e sfortune occasionali dell’individuo, ma il rapporto fra la coscienza e il mondo e, più semplicemente, la questione se ciò che si fa e si pensa giorno per giorno abbia o non abbia senso e scopo.
E, per quanto riguarda tale questione, noi sappiamo anche, (o dovremmo sapere) che «la terra sotto i piedi», l’«aria», la «legge», nel senso in cui la intendeva Kafka, di fondamenti ultimi del vivere, non sono cose che l’individuo possa crearsi da sé: dipendono da tutti noi in generale e da nessuno in particolare, dallo stato attuale delle cose, da ciò che accadde in passato, e, in ultima analisi, non si sa da che: non certo da quella che s’usa chiamare la Storia pretendendo di sapere che cosa sia, quali ne siano le leggi, a che punto sia e dove conduca.
Kafka era dunque ingenuo, e cedeva al timore reverenziale per un dovere inesistente e impossibile (nel quale del resto tutta la sua opera ci dice che egli non riusciva a credere), quando si proponeva il compito di «crearsi» da sé e da solo quelle realtà morali. Tutto quel che egli poteva fare era di soffrirne l’assenza; e, naturalmente, nella sua sofferenza era, più che implicita, incarnata l’aspirazione a una condizione diversa, di fermezza e di pace, a essere infine ammesso a oltrepassare la soglia di quella porta di cui si parla in uno dei suoi apologhi più belli, dinanzi alla quale uno straniero languisce fino all’estrema vecchiaia, credendola vietata, per apprendere infine dall’impassibile guardiano che il passaggio ne era sempre stato libero, e anzi riservato proprio a lui.
Pochi anni dopo la morte di Kafka e la pubblicazione del Castello nel 1929, un filosofo compatriota di Kafka e israelita d’origine come lui, Edmund Husserl, iniziava una delle sue opere più importanti, la Logica formale e logica trascendentale, con le seguenti considerazioni:
«La situazione attuale delle scienze europee impegna a prendere radicalmente coscienza di taluni fatti. Le scienze hanno, in fondo, perduto la grande fede in se stesse e nel loro significato assoluto. L’uomo moderno d’oggi non vede, come l’uomo "moderno” del secolo dei lumi, nella scienza e nella nuova cultura, plasmata dalla scienza, l’obiettivarsi della ragione o la funzione universale che l’umanità s’è cercata per rendersi possibile una vita di cui possa essere pienamente soddisfatta, una vita, cioè, sia individuale che sociale la quale sia dettata dalla ragione pratica».
«Questa grande credenza -che sostituì le credenze religiose- che la scienza conduce alla saggezza, a una conoscenza di sé, a una conoscenza del mondo e a una conoscenza di Dio veramente razionali, e quindi a una vita fondata sulla felicità, sulla soddisfazione e sul benessere, vita che sebbene rimanga da plasmare in modo sempre più perfetto, è veramente degna di essere vissuta, tale credenza, dunque, ha perduto la sua forza in larghe cerchie di persone. Si vive dunque in un mondo divenuto incomprensibile, un mondo nel quale ci si pone invano la domanda "a che pro?”, un mondo di cui si cerca invano il senso una volta così indubitabile, giacché era riconosciuto sia dall’intelletto che dalla volontà».
Non entriamo in merito. Limitiamoci a notare che, formulate da due punti di vista molto diversi (soggettivo quello di Kafka, puramente obbiettivo quello di Husserl), queste due osservazioni sono fra le più chiare e tranquille che siano state enunciate su quella «crisi della coscienza europea» di cui si parla da almeno cinquant’anni a questa parte, e non s’è ancora finito di parlare, per la buona ragione che, nonché risolversi, la crisi stessa non ha fatto che approfondirsi e estendersi. Notiamo anche, per quanto riguarda Husserl, che tutta la sua ricerca filosofica, dal 1900 al 1938, è un grande e scrupoloso tentativo di riconfermare il valore della verità in una cultura minata dal relativismo su due punti principali: l’uno, l’idea che la ve ...[continua]

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