A nessun politico, oggi, verrebbe in mente di dire che la rivendicazione essenziale del nostro tempo è una rivendicazione di libertà. Quel che conta, lo sappiamo, sono le esigenze concrete, i piani, le programmazioni e le organizzazioni efficienti.
Eppure i soli momenti in cui l’inerzia politica caratteristica dei nostri giorni è stata scossa ed è sembrata far posto a una vera partecipazione, e i soli fatti di fronte ai quali la passione politica è parsa risvegliarsi sono stati dei momenti e dei fatti nei quali si trattava di libertà. Esempio primo e memorabile fra tutti, l’insurrezione d’Ungheria, guidata da intellettuali e combattuta da giovani e giovanissimi in nome della libertà senza aggettivi. Prima d’essa, c’erano stati Poznan e l’«ottobre polacco», e anche lì s’era trattato in primo luogo di intellettuali e di giovani che reclamavano libertà1.
Se si deve parlare dei casi nostri, si può ricordare il luglio ’60, quando la reazione pubblica all’eventualità di un governo autoritario ebbe tre caratteri principali: l’indipendenza (almeno in un primo tempo) da ogni parola d’ordine di partito; la gran partecipazione di giovani che non avevano conosciuto il fascismo e, anche qui, contro quello che sembrava pericolo di neofascismo; la rivendicazione di libertà pura e semplice2.
Più significativo, c’era stato in Francia il movimento d’opinione e d’azione contro la guerra d’Algeria, anch’esso indipendente dai partiti, anch’esso animato e condotto principalmente da intellettuali e da studenti, anch’esso infine movimento per la libertà, sia degli algerini dall’oppressione, sia -come si disse- dei francesi dall’obbligo di opprimere. Il suo documento più significativo fu il manifesto detto dei 121, che proclamava con tutta chiarezza un solo principio: quello libertario del rifiuto d’obbedienza all’ordine ingiusto3.
Ci fu poi nel luglio ’63, lo sciopero dei minatori delle Asturie. Del quale si potrebbe dire che la libertà non c’entrava, trattandosi della miseria dei salari. Ma non sarebbe giusto giacché, in verità, preliminare alla questione del salario, e più importante, c’era l’esigenza della libertà di associazione contro i sindacati di Stato4.
C’è ora, in tutta la Spagna (ed era cominciata, non dimentichiamolo, nel 1955, con le manifestazioni degli studenti madrileni in occasione della morte di Ortega y Gasset), la ribellione degli studenti e dei professori universitari che reclamano libertà d’associazione e di parola. E per la stessa esigenza di libertà sono in fermento da anni gli studenti portoghesi, dei quali abbiamo appreso in questi giorni la molto giusta lezione che hanno inflitto al rettore dell’università di Lisbona, il quale aveva creduto di poter impunemente esercitare contro di loro il suo zelo poliziesco5.
Finalmente dunque -si vorrebbe concludere- la libertà torna chiaramente ad essere il lievito della lotta politica, e la gioventù si trova naturalmente alla testa del movimento, senza aspettare che i politici abbiano terminato i loro calcoli, messo a punto le loro tattiche e diramato le opportune parole d’ordine.
Si vorrebbe che fosse così. Ma, in ogni caso, è a una forte e quasi universale ondata d’opposizione all’antiautoritarismo e di rifiuto d’obbedire a norme che non abbiano altra giustificazione che l’autorità di uno Stato, di un partito, di una Chiesa o di una qualsiasi ragione politica, che stiamo assistendo oggi, fra la gioventù d’Europa e altrove. La ribellione degli studenti comunisti francesi contro le gerarchie del loro partito, la fronda di quelli italiani contro le loro proprie gerarchie e, infine, proprio in questi giorni, il rifiuto dei dirigenti della Jeunesse étudiante chrétienne di obbedire all’ingiunzione dell’arcivescovo coauditore di Parigi, monsignor Veuillot, che in sostanza vietava agli studenti cattolici di occuparsi di politica, fanno parte di questo movimento.
Ma del medesimo movimento fa certamente anche parte la ribellione, quest’inverno, di un nucleo assai considerevole dei venticinquemila studenti dell’università di Berkeley, in California, contro l’ordine del rettore che voleva proibire agli studenti di discutere di politica, e più precisamente di far propaganda per l’eguaglianza razziale e contro la guerra in Vietnam, all’interno del campus6. La stampa cosiddetta di informazione non ne ha parlato, ma il fatto è molto importante, perché è la prima volta, dopo la guerra, che negli Stati Uniti prende forma collettiva concreta un movimento d’opinion ...[continua]

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