C’era una volta a Roma un magico pentagono. Correvano gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, e alcuni giova­notti d’ogni parte d’Ita­lia esibivano in quel perimetro le prove, a volte già folgoranti e ma­ture, di carriere che si sarebbero dipanate nei mass media, nei giardinetti dell’ac­cademia, nelle lettere, nella politica, nell’industria, magari intrecciando i percorsi disinvolta­mente, curiosi ed eclettici, attenti a non rinchiudersi entro steccati disciplinari. Ai vertici di quel pentagono c’erano "Il Mondo” di Mario Pannunzio in via della Colonna Antonina 52; "L’Espresso” di Arrigo Benedetti in via Po 12; un paio di caffè e la libre­ria Rossetti in via Veneto; altri caffè come Rosati e Canova in piazza del Popolo; "Tempo pre­sente” in via Sistina 23, la rivista fondata e diretta (1956-1968) da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, austeri dioscuri di quella stagione.
Nelle stanze in penombra di "Tempo presente”, dal parquet scric­chiolante, si respirava un’aria cosmopolita, e quindi più attra­ente agli occhi di chi avvertiva il fascino di taluni scrittori. Passavano, visitors eccellenti, Mary McCarthy, Lionel Trilling, Dwight Macdonald e altri che Chiaromonte aveva conosciuto a New York, al tempo in cui, esule antifascista, sbarcato nel Nuovo Mondo dopo le tappe di Parigi, Tolosa, Algeri, Casablanca, lavo­rava all’"Italia Libera” di Gaetano Salvemini e collaborava alle pubbli­cazioni della sinistra intellettuale, da "Atlantic Monthly” a "Politics”, da "The New Republic” a "Partisan Review”. E passa­vano anche Stephen Spender e Francine Camus, conosciuta ad Algeri, nel 1941, insieme al marito Albert, l’autore dello Straniero.
Silone e Chiaromonte non brillavano per abitudini mon­dane. A tu per tu con gli altri si concedevano frugali ar­guzie, misurate iro­nie, e la McCarthy ha ricor­dato frivo­lezze, allegrie, divertimenti di Nicola durante il periodo newyorkese, nella casa vicino a Washington Square e nelle va­canze estive sulla spiaggia di Cape Cod. Al di là del carattere, la loro storia personale suscitava nei più giovani una distanza ri­spettosa e ammirata: il narratore dei "cafoni” di Fontamara per la sua drammatica vicenda poli­tica nel­l’internazionalismo comunista, segnato per sempre dal lutto del "dio che è fallito”; l’intellettuale anarchico e li­bertario, diviso fra il pensiero e l’azione, per un cosmopo­litismo non provinciale, per l’espe­rienza di combattente antifranchista nei cieli di Spagna con la squadriglia aerea di André Malraux, e già eletto a figura letteraria sotto le spoglie di Scali nel romanzo L’Espoir.
Due miti insomma, la cui blindata discrezione e un ben riposto snobismo da una parte, l’indifferenza -ricambiata- della sinistra più settaria dall’altra, non lasciarono che as­sumessero le dimen­sioni pubbliche che meritavano. E si può affermare, senza tema di smentite, che al cospetto di Chiaromonte e Silone, oggi, allo sguardo del postero, ce­lebrità dell’epoca si sono sbriciolate nel nulla.

Nicola Chiaromonte (nato a Rapolla, Potenza, nel 1905, morto a Roma nel 1972) è stato un saggista parco ma inci­sivo, colpevol­mente tra­scurato dalla cultura italiana (come in anni non sospetti ripeteva di continuo Vittorio Saltini, studioso di Estetica e roman­ziere). Quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati postumi. Una trascura­tezza che an­cora perdura: il suo ricchissimo epistolario nel Fondo Chiaromonte alla Yale University è sempre in attesa di un editore. I suoi interessi spaziavano dal cinema al teatro (di teatro si oc­cupò per "Il Mondo” di Mario Pannunzio, per "L’Espresso”, nei vo­lumi La situazione drammatica, Bompiani 1960, e Scritti sul teatro, Einaudi 1976), dalla filosofia alla letteratura, dall’arte alla politica, come dimostrano in parte i ventiquattro saggi confluiti in Il tarlo della coscienza (a cura di Miriam Chiaromonte, introduzione di Gustaw Herling, il Mulino 1992), già editi in periodici vari e in pre­cedenti antologie. Come questo, i titoli dei suoi libri gli somigliano, riflettono il suo carat­tere, il suo profilo intellet­tuale: Credere e non credere (il Mulino 1971), Silenzio e parole (Rizzoli 1978).
La scrittura sobria, affilata sui modelli classici, a comin­ciare dai greci, si abban­dona di rado a sussulti e inarca­ture di stile, ed è disseminata di gemme concet­tuali ta­glienti, soprattutto per quel che riguarda gli aspetti della modernità nell’arte e nel costume di cui Chiaromonte ad­dita gli in­sidiosi meccanismi, i falsi idoli, le ...[continua]

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