Marco Bifani, di Napoli-Barra, è operaio alla Fiat Avio di Pomigliano d’Arco.

Dopo il diploma sono andato a lavorare in officina, meccanica di precisione per il campo aeronautico; sono entrato senza paga, tramite una conoscenza, sono andato per imparare un mestiere, per strada non si poteva stare, avevo il diploma in meccanica e sono andato a lavorare là. I primi mesi io sapevo che non dovevo essere pagato, invece mi diedero cinquecentomila lire: per me che non avevo mai visto soldi era un capitale! All’inizio facevo le otto ore, scopavo per terra, facevo il caffè, ero il ragazzo dell’officina; poi ho cominciato a fare le operazioni come alla catena di montaggio, sempre lo stesso movimento: mi attrezzavano la macchina e io facevo la produzione.
Piano piano ho cominciato a capire qualcosa, perché io ero uscito dalla scuola che non sapevo nemmeno cosa fosse un giravite, non lo potevo proprio concepire questo mondo; facendo tante cose, e facendole bene, ho cominciato a collegarle con quello che avevo studiato a scuola, questo mi ha avvantaggiato rispetto al ragazzo che non le aveva fatte nemmeno a scuola. Dopo due o tre anni di officina sono diventato abbastanza autonomo: non riuscivo a fare i disegni sul computer perché non li avevo mai fatti, però riuscivo a lavorare da solo: il capo mi dava il disegno e io in base a quello facevo il programma, andavo a prendere i materiali fuori, tutta l’utensileria che mi poteva servire, e riuscivo a fare il pezzo, perché poi l’obiettivo è il pezzo; la prima volta che lo feci non me la potrò mai dimenticare: presi coscienza che stavo imparando.
Quando facevo la produzione mi davano 4500 lire all’ora, poi dopo nove mesi feci un’interruzione per il servizio militare; quando tornai mi tolsero quasi mille lire all’ora: rimasi deluso, ma ero ancora ragazzo, lavoravo al nero.
Dopo tre o quattro mesi mi proposero il contratto di formazione, io ero contento perché prendevo una via, mi incanalavo. Poi la mia ragazza rimase incinta, erano problemi seri e io forse non ero ancora maturo per affrontarli; in officina facevo molti guai, era proprio un periodo negativo. Io cercai un aumento, proprio perché affrontavo questa nuova vita, e invece mi fu detto di emigrare, l’ingegnere disse che con un milione non potevo vivere a Napoli, con moglie e figlio. Mi caddero le braccia; perché comunque stavo imparando, lavoravo dieci ore al giorno, compreso il sabato, non ero il tipo che creava problemi, che faceva scostumatezze. In seguito ho parlato con altre persone, e mi hanno confermato che questo ingegnere era cattivo con tutti, dannato per i soldi, mentre suo padre era stato una persona specialissima, da un buco aveva creato una grande officina e non si sarebbe comportato così. Comunque io fuori non volevo andare, continuai a lavorare, e proprio allora feci il pezzo tutto mio, e capii che stavo entrando nel meccanismo.

Dopo un po’ di tempo seppi da un parente che stavano assumendo alla Fiat, io non ci credevo, comunque feci quelle quattro o cinque domande spinto dalla famiglia, e dopo circa un anno fui assunto in Fiat. Mentre aspettavo la notizia andai dall’ingegnere a chiedere un altro aumento, perché un milione e tre con un figlio che cresceva non erano abbastanza: lui mi disse che era contento di me, ma non era ancora il momento; io lo avevo fatto di proposito, infatti non passò una quindicina di giorni che gli portai i documenti che ero stato assunto alla Fiat! E’ stata una delle soddisfazioni più grandi che abbia mai avuto: lui capì di aver sbagliato, mi chiese pure se potevo andare dopo l’orario finché non trovava qualcuno per sostituirmi. Era rimasto proprio male! Sarebbe bastato poco e forse sarei rimasto all’officina; comunque se sono stato assunto lo devo anche all’officina, perché quando andai a fare il colloquio riuscii bene, io la meccanica la stavo cominciando a capire: lessi un disegno di un formato che ti metteva ansia, davanti a due persone che non conoscevo, l’ingegnere capo e il capo del personale, risposi alle loro domande, feci un problema di trigonometria che avevo affrontato pochi giorni prima in officina, insomma uscii da quella stanza soddisfatto di me stesso.

All’inizio la differenza tra l’officina e la grande fabbrica era abissale. Intanto in officina non c’era un momento libero: era impensabile che il fatidico mastro ti potesse vedere fermo, oppure a parlare, subito alzava la voce “che so’ sti communelle lloco!”. Bastava uno sguardo; invec ...[continua]

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