Lavoro femminile in Italia: un ritardo che si colma solo lentamente
Negli ultimi quarant’anni sono stati compiuti importanti passi in avanti: il tasso di occupazione delle donne, che partiva da livelli bassissimi (nel 1977 appena un terzo delle donne era occupato) è aumentato di 16 punti, superando il 53% nel 2020 (ma nella UE a 27 era già il 67,5%). Di conseguenza il divario di genere nei tassi di occupazione si è più che dimezzato (dai 41,1 punti percentuali del 1977 ai 18,1 del 2018), anche se rimane ancora tra i più alti d’Europa (quasi 19 punti in Italia contro una media europea di circa 10), a dispetto di livelli di istruzione femminili mediamente più elevati. Il progresso del periodo 1977-2020, inoltre, è risultato molto meno marcato nelle regioni meridionali: +6,8% contro +20,2% nel Nord e +23,4% nel Centro. Questa situazione, ovviamente, incide non solo sui redditi, ma di conseguenza anche sulla tipologia e sull’importo delle pensioni degli uomini e delle donne.
Nel 2012, il 56,5% delle lavoratrici si è presentato all’appuntamento con la pensione con un’anzianità fino a 25 anni; ciò significa che era in possesso soltanto del requisito contributivo minimo di 20 anni, che consentiva di andare in quiescenza al compimento dell’età di vecchiaia (ora 67 anni). Con una storia lavorativa così breve, indipendentemente dal tipo di calcolo (retributivo o contributivo), l’importo della pensione non può che essere modesto.
Diverso era il caso degli uomini: il 70,6% di loro aveva un’anzianità di 35 anni e più. Le ripartizioni interne (soprattutto con riferimento al 53,3% di questi lavoratori che ha alle spalle una storia lavorativa compresa tra i 35 e 40 anni) danno conto della possibilità (come accade in pratica da decenni) dei lavoratori di accedere a qualche forma di anticipo pensionistico e, soprattutto, di far valere una base contributiva tale da assicurare un trattamento più elevato.
La faglia del pensionamento: un terremoto annunciato
Dalle relazioni e dalle relative tabelle emergono considerazioni di carattere generale inerenti al ruolo cruciale della demografia sugli equilibri del sistema pensionistico. È attesa tra pochi anni (una ventina) la “faglia” tra il pensionamento dei baby boomer e la presenza sul mercato del lavoro di generazioni esigue, a seguito della denatalità. La metafora della faglia rende bene l’idea dei sommovimenti -lenti ma ineluttabili, e potenti- che sono in corso. Ci stiamo avviando verso la conclusione di un processo nel corso del quale aumentano il numero e l’importo delle pensioni (e quindi della spesa pensionistica) mentre arrivano sul mercato del lavoro generazioni penalizzate non solo dai mutamenti intervenuti sul versante dell’occupazione e del reddito, ma anche dalla denatalità.
Misure correttive sono possibili, ma con difficoltà, tanto maggiori considerando la portata e i tempi dei problemi che abbiamo di fronte. Per quanto riguarda le pensioni, un adeguamento dell’età pensionabile alle attese di vita può, quanto meno, dilazionarne il numero. Invece, per quanto concerne l’ampliamento della base dei lavoratori attivi e contribuenti conviene distinguere due aspetti. Da una parte si può, e forse si deve, puntare su nuovi interventi di sostegno alla natalità, ma va preso atto che, anche se avessero successo, sarebbero comunque necessari decenni per un adeguato “ripopolamento” delle persone in età da lavoro. Andrebbe dunque presa in seria considerazione l’altra, più rapida ed efficace opzione: quella di una maggior presenza di stranieri nella società e nel mercato del lavoro.
Nei prossimi vent’anni assisteremo a un vistoso calo della popolazione in età di lavoro, a fronte di un incremento di 2,5 milioni (suddiviso circa a metà per uomini e donne) di nuove ...[continua]
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