Natasa Rasic, giovane avvocato, lavora presso il Fond Za Humanitarno Pravo (Humanitarian Law Center) di Belgrado.

Quali sono oggi le attività principali dell’Humanitarian Law Center?
Allo stato attuale l’Hlc conta quattro uffici in Kosovo, uno in Montenegro e uno in Vojvodina, a Novi Sad. Io sono uno dei quattro avvocati di parte civile del centro di Belgrado e ho il compito di coordinare lo staff del dipartimento legale.
Lo staff qui è misto: serbi, albanesi kosovari, come pure musulmani bosniaci e croati. Questa è stata fin dall’inizio l’opzione fondamentale, infatti quando Natasa Kandic ha dato vita al centro, ha scelto come collaboratori persone di tutte le nazionalità. Noi da anni lavoriamo assieme, o meglio conviviamo proprio, dato che trascorriamo qui la maggior parte del nostro tempo, dalla mattina alla sera tardi, e spesso anche il sabato e la domenica; però stiamo bene assieme, ci divertiamo anche, siamo la prova che anche in Serbia è possibile convivere, che non siamo tutti xenofobi, nazionalisti o estremisti.
Venendo alle attività, devo dire che oggi grande attenzione è concentrata nel sostenere sul piano legale i giovani di Otpor. Perché i partiti politici, anche quelli dell’opposizione, pur avendo i propri uffici legali, si occupano solo dei propri membri, trascurando completamente questi ragazzi. Per cui noi allo stato attuale siamo l’unica organizzazione che fornisce loro assistenza legale e che è pronta ad aiutarli 24 ore su 24: hanno i nostri numeri di telefono e ci possono chiamare a qualsiasi ora, anche di notte, se qualcuno di loro viene arrestato o tenuto in custodia.
Secondo la nostra costituzione, chiunque ha diritto ad avere il proprio avvocato sin dal primo momento in cui venga arrestato. Tuttavia spesso non ci viene permesso di comunicare con loro per le prime 72 ore, perché il nostro codice non segue le disposizioni costituzionali; è assurdo ma è così. A volte siamo costretti a rimanere delle ore davanti alla stazione di polizia, in attesa che vangano rilasciati. Comunque questo per loro è importante, perché anche se sanno che non possiamo entrare nell’edificio, quando escono ci dicono sempre che in qualche modo, sapendoci lì, si sentivano più protetti.
Se la polizia si accanisce comminando loro condanne più pesanti siamo soliti avviare un’azione legale contro la Repubblica della Serbia e contro il Ministro degli Interni per la loro detenzione illegale.
Questo serve anche a mettere le cose in chiaro: è importante infatti essere consapevoli che secondo la costituzione, loro hanno la libertà d’espressione delle loro idee politiche, di mettersi assieme e di opporsi al regime.
Otpor oggi rappresenta la minaccia più grave per il regime, per la loro popolarità e per le azioni che intraprendono, perché con la loro campagna stanno cercando di spezzare il cerchio di inerzia e paura che da tempo blocca i cittadini della Serbia. Del resto, loro vogliono solo vivere in un paese “normale”, democratico e stanno lottando con tutte le loro energie per realizzare questo desiderio, che è poi un semplice desiderio di normalità; non vogliono infatti conquistare il potere come i partiti politici, vogliono solo poter vivere decentemente nel proprio paese. E probabilmente è proprio questa la ragione per cui il regime ha così paura di loro. Già in centinaia sono stati arrestati e noi siamo molto coinvolti in quest’impresa.
Oltre a questo, l’attività che dura da più tempo è l’assistenza legale per tutti quelli i cui diritti umani sono stati violati in ragione della loro nazionalità o credo politico; per tutti quelli che vengono minacciati dalle autorità dello stato. Il nostro staff comprende anche degli avvocati kosovari albanesi e tre di loro vengono quasi ogni settimana qui in Serbia per difendere i loro assistiti in tribunale e per far visita ai prigionieri albanesi ancora detenuti nelle carceri serbe.
Questi tre avvocati hanno un carico di lavoro incredibile. L’anno scorso quando i detenuti albanesi sono stati trasportati qui dalle prigioni del Kosovo, il nostro ufficio ha rappresentato l’unico tramite per le loro famiglie rimaste in Kosovo. Nei primi due mesi seguiti all’uscita dell’esercito e della polizia dal Kosovo e al dispiegamento delle truppe della Kfor, molti di loro risultavano scomparsi e le loro famiglie non sapevano se fossero stati arrestati o uccisi. E’ stato un periodo di grande tensione e caos, le linee telefoniche erano sempre occupate; le famiglie ci chiam ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!