Nicola Parolini, Johnny, studente e Olmo Trevisan, Johnny, artigiano, entrambi ventenni, vivono a Canneto sull’Oglio, Mantova. Sono i fondatori del gruppo musicale Fuori Sistema.

Johnny. La jam, la jam session, deriva anch’essa dall’America, naturalmente; si chiama anche zulù party, si riuniscono tutti i B-boy; si compra o si affitta un palco fonico, si suona, vengono su gruppi, ne scendono altri; si fa free style, che è improvvisare la rima sul momento, si esibiscono i Johnny, si fanno ballare i breaker, con la break dance, ci sono dei pannelli a disposizione dei writers che fanno i graffiti. Insomma si riuniscono le quattro discipline dell’hip-hop. Qui siamo isolati, ma se ti allontani un attimo e vai a Parma, dove c’è l’altro membro del gruppo, trovi un casino di gruppi in città, un casino di movimenti; nel movimento cosiddetto underground, (e “sotterranei” lo sono proprio perché non son famosi in niente) ogni mese esce un prodotto. Per esempio è uscito il prodotto di Mangusta, qua nessuno sa chi è, però Mangusta là è famosissimo, come se fosse conosciuto in tutto il mondo. Ci sono gli artisti come gli Articolo 31, che sono famosi a livello nazionale, ma se uno chiede chi è Caos, lo conoscono solamente i B-boy, perché fa dei prodotti che non possono passare per radio, son duri, non son radiofonici, proprio per niente... Poi l’hip-hop è locale, nel senso che se io vado a cantare a Parma non sarò mai bravo per loro, perché per loro a Parma è bravo un tipo di Parma e tante volte si compiono degli spiacevoli e infernali guazzabugli. Nella jam, però, la gente viene da tutte le parti. E l’intento è quello di andar lì, divertirsi, ma anche imparare. La pensiamo tutti allo stesso modo, questo è il bello della jam anche se c’è sempre la sfida... L’hip-hop è un movimento strano proprio perché c’è questo grande senso di unione tra l’uno e l’altro, però tanto così basta per far scatenare una scintilla che poi per riallacciare amicizia serve un’altra vita. Se io domani ho uno screzio con qualcuno che fa hip-hop, siamo disposti a farci due album di pezzi contro, sempre come stimolo, però quando io lo vedo per strada lo guardo male, di sicuro, perché lui m’infama e io infamo lui. E’ il gioco, da cui si esce da perdente, quando tutti e due ci si dice: “ oh, daga basta, perché non ce la faccio più, mi pesa questa situazione di conflitto”, così ci si stringe la mano e lì finisce. Lì sta nella saggezza delle persone.

Johnny. La storia è cominciata cinque anni fa nel ‘94 all’età di quattordici anni, ci siamo conosciuti in prima media e allora io cominciavo ad ascoltare l’hip-hop, era uscito il primo disco degli Articolo Trentuno e un bel giorno mi è saltata l’idea, mi son svegliato e mi sono detto: “Non è possibile che io debba restare qua, in questo paese e non fare niente. Io sono a questo mondo, e con tutto il rispetto per gli operai, non voglio andare a fare l’operaio a vita, io non voglio credere di essere venuto a questo mondo per far l’operaio, per andare a lavorare dalle otto a mezzogiorno e dalle due alle sei”.
Sviky. Nel frattempo io avevo già incominciato a scrivere qualche testo...
Johnny. Era tutto rudimentalissimo all’epoca. Il 14 settembre, data storica, sono venuto a casa sua e gli ho detto: “Senti, qua bisogna far qualcosa, vogliamo far qualcosa d’importante?”, e abbiam detto: “Facciamo un disco”. Da lì siamo partiti, abbiam fatto la nostra bella gavetta, abbiamo iniziato a fare il free-style, che è improvvisazione di rime sul momento, io avevo la pianola a casa, ho incominciato a suonare. Abbiamo fatto la prima cassetta, il primo demo e abbiam venduto, ufficiali, 140 copie, incasso netto.
Sviky. Siamo partiti con la voglia di far qualcosa di diverso dagli altri, e lì si rientra sempre nel discorso di lasciare il proprio segno, un po’ come nel writing: lasciare un segno. E’ questo l’hip-hop.
Johnny. Non mi voglio ridurre a venticinque anni al bar, a bere, a giocare a carte. Non ha senso.
Sviky. La mia vita deve avere un senso e devo darglielo io per primo, non la realtà che mi circonda, devo essere io a prendermi la mia realtà. Come? Noi siamo entrati in questa cultura, che ha un discorso proprio a livello personale, di vita. C’è chi magari dopo vuol fare l’artista, il produttore di film, il fumettista; c’è anche chi va a fare il lavapiatti e diventerà pure il lavapiatti più bravo del mondo, però il concetto è quello: non rimanere nessuno per se stessi. Perché per gli altri è un discor ...[continua]

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