Non è facile trovare, e neppure immaginare, due scrittori più diversi di Henry Miller e George Orwell. Fra loro c’erano dodici anni di differenza: ma Miller, nato nel 1891, è stato tardivo, il libro che lo rivelò, Tropico del Cancro, fu pubblicato nel 1935, quando aveva quarantaquattro anni; mentre Orwell, nato nel 1903, aveva esordito due anni prima di lui con il suo Senza un soldo a Parigi e Londra. Orwell viene visto oggi come il prototipo del perfetto scrittore politicamente impegnato degli anni Trenta; Miller fu invece ripetutamente censurato per oscenità, avendo una enfatica passione culturale per il sesso illimitato. Ma di successo non ne aveva avuto molto e la sua vera fama arrivò solo quando la Beat Generation di Jack Kerouac e Allen Ginsberg lo adottò come maestro e precursore negli anni Cinquanta. I primi apprezzamenti per Tropico del Cancro erano stati quelli di Thomas S. Eliot e Aldous Huxley, ma erano ormai dimenticati. Inaspettato e davvero interessante è il fatto che Orwell, in uno dei suoi saggi più importanti di autobiografia politica e culturale, Nel ventre della balena (1940), scelga l’impolitico e antipolitico Miller per riconsiderare e giudicare la “moda” della politica che si diffuse nella letteratura inglese del decennio 1930-40.
Il giudizio di Orwell sugli scrittori politicamente impegnati è severo. Da un lato, nel suo bilancio del decennio, dice che “la letteratura, marxistizzandosi, non si è maggiormente avvicinata alle masse”. Dall’altro osserva che c’era qualcosa di “non molto ben definito nella parola comunismo”. Si era formata cioè un’ortodossia di sinistra:
Fra il 1935 e il 1939 il Partito comunista esercitò un fascino quasi irresistibile sugli scrittori sotto i quarant’anni [...]. Per circa tre anni, infatti, la corrente principale della letteratura inglese è stata più o meno direttamente controllata dal comunismo. Come è stata possibile una cosa del genere? [...]. Il movimento comunista in Europa occidentale nacque come violenta opposizione al capitalismo, per degenerare in pochi anni in strumento della politica estera russa.
Il movimento comunista inglese era cioè “controllato da uomini mentalmente asserviti alla Russia”, il cui solo scopo era una politica estera britannica secondo gli interessi sovietici, non diversi né meno privi di scrupoli di quelli di altre grandi potenze.
Dato questo giudizio sulla “moda” politica comunista, o meglio filo-russa, Orwell trova che in un tipo umano come quello di Henry Miller tali equivoci e maschere non potevano avere nessuna attrattiva. Il punto di vista di Orwell implicava anche una valutazione letteraria. Per lui il romanzo era il genere letterario più anarchico e più inconciliabile con qualunque ortodossia: “Il romanzo è in pratica una forma di arte protestante; è un prodotto del libero pensiero, dell’individuo autonomo”. Henry Miller era essenzialmente, in un grado estremo, proprio questo: un individuo autonomo. Secondo Orwell “i buoni romanzi non sono scritti da ortodossi maniacali [...] ma da gente come Henry Miller che non ha paura”.
Il suo incontro con lui Orwell lo racconta così, senza sentirsi minimamente offeso o contrariato per l’istintiva indifferenza e riprovazione che Miller mostra per la sua scelta di andare a combattere e rischiare la vita contro il franchismo e più in generale contro tutto il fascismo europeo:
Conobbi Miller alla fine del 1936, mentre passavo per Parigi diretto in Spagna. Ciò che più mi colpì in lui fu l’assoluta mancanza di interesse per la guerra di Spagna. Si limitò a dirmi piuttosto energicamente che andare in Spagna in quel momento significava essere un idiota. Poteva capire che ci si andasse per motivi puramente egoistici, per curiosità per esempio, ma ficcarsi in quel pasticcio in omaggio a un senso di responsabilità era un’idiozia vera e propria. In ogni caso, le mie idee sulla necessità di combattere il fascismo, di difendere la democrazia, ecc. ecc., erano per lui tutte fesserie. La nostra civiltà era destinata a essere spazzata via e sostituita da qualcosa di così diverso da non sembrare più neppure umano.
Che cosa può aver portato un uomo e scrittore come Orwell a valorizzare il modo di pensare e di essere di Miller? Qui emerge, direi, il fastidio di Orwell per tutto ciò che tradisce o maschera gli istinti vitali umani più elementari e in quanto tali anche più diffusi nella “gente comune”. Aggrapparsi a idee e convinzioni ideologiche e politiche dimenticando la reale sensibilità socialmente più diffusa è perdere il rapporto con la vita ordinaria e con la sua sostanziale “passività”. Per Orwell l’irresponsabilità morale e politica di Miller non andava sottovalutata con una semplice condanna, perché aveva radici profonde che non potevano essere ignorate:
Ci sono molte specie di irresponsabilità. Di regola, gli scrittori che non desiderano identificarsi col processo storico del momento, o lo ignorano o lo combattono. Se riescono a ignorarlo, vuol dire che probabilmente sono degli idioti. Se lo comprendono fino a volerlo combattere, probabilmente sono anche abbastanza intelligenti da capire di non poterlo vincere [...]. L’opera di Miller è sintomaticamente importante in quanto evita questo e quell’atteggiamento. Egli non vuole né accelerare il processo mondiale, né si sforza di ostacolarlo, ma d’altra parte non lo ignora affatto. Direi che crede nell’imminente rovina della civiltà occidentale molto più fermamente della maggioranza degli scrittori “rivoluzionari”; solo che non si sente chiamato a intervenire.
Quando nel 1940 Orwell scrive il suo saggio Nel ventre della balena la guerra in Europa è già cominciata. E d’altra parte Miller, proprio nel 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, decise di tornare da Parigi in America con l’idea di scrivere un libro sul proprio paese. Il libro sarà L’incubo ad aria condizionata (1945) e avrà come epigrafi due brani del maestro spirituale induista Vivekananda (morto a trentanove anni nel 1902) in cui si lodano quegli “eroi sconosciuti” che hanno coltivato le più sublimi virtù senza farsi conoscere né fare proseliti come Buddha e Cristo. È il segno, questo, di un enorme senso di estraneità al mondo occidentale e alla sua cultura dalla quale Miller non si è mai aspettato nulla di buono, se non l’incontro con rari individui esemplarmente e passivamente vissuti. Ma ecco cosa si legge all’inizio del libro di Miller sugli Stati Uniti:
Sentii il bisogno di tentare una riconciliazione con la mia terra natia [...]. Volevo dare un’ultima occhiata al mio paese e lasciarlo senza avere la bocca amara. Non volevo fuggire, come avevo fatto una volta. Volevo abbracciarlo, sentire che le vecchie ferite erano davvero sanate, e ripartire per l’ignoto con una benedizione sulle labbra [...] il mio animo era sereno. Pensavo che se c’era qualcuno sulla Terra libero dall’odio, dai pregiudizi, dall’amarezza, quello ero io. Ero sicuro che per la prima volta in vita mia avrei esaminato New York e quel che c’era dentro senza ombra di disprezzo e di disgusto [...]. Poi si scoprì che la nave sostava prima a Boston. Quella, forse, fu una sfortuna, ma era una prova eccellente. Non ero mai stato a Boston e ero piuttosto contento che il fato mi avesse giocato un tale tiro. Ero pronto ad amare Boston [...]. Non fui solo deluso, direi, ma veramente rattristato. La costa americana mi sembrò squallida e tutt’altro che invitante. Non mi piaceva l’aspetto della casa americana; c’è un che di freddo e di austero, un che di scoraggiante e desolato, nell’architettura domestica in America. Era la casa con tutte le sgradevoli, tristi, sinistre implicazioni che questa parola racchiude per un animo inquieto. Aveva un’aria frigida e virtuosa che mi gelò il sangue [...]. Era domenica e la gente andava a passeggio, rinforzata da gruppi di studenti villani. Lo spettacolo mi nauseò. Volevo tornare al più presto sulla nave. In un’ora circa avevo visto di Boston tutto ciò che volevo vedere. Mi parve orrendo.
Un incontro con la patria che cominciava davvero male. Fra gli scrittori americani, il vitalissimo, sensuale, anarchico Miller è sia uno dei più americani, sia uno dei meno americani. Ama Parigi e l’Europa, la Grecia e tutto ciò che è lontano dalla “frigida e virtuosa” America, dalla idea americana della famiglia e dal comfort domestico. Non sopporta la “villania” di quei gruppi di studenti e in sostanza il suo, più che un giudizio, è una sensazione, una reazione istintiva, fisica. Gli aggettivi che usa parlano chiaro: trova tutto triste, freddo e austero, scoraggiante e desolato. Il suo punto di partenza non è intellettuale, ma vitale. Quando però arriva il giudizio, è così negativo da diventare radicale e visionario, una diagnosi spietata, che tuttavia non ha niente di politico:
Tornando al piroscafo superammo ponti, binari ferroviari, magazzini, fabbriche, moli e Dio sa cos’altro. Era come seguire la scia di un gigante impazzito che avesse seminato la Terra di folli sogni. Fossi almeno riuscito a vedere un cavallo o una mucca, o solo una capra stizzosa alle prese con un barattolo, sarebbe stato un immenso sollievo. Ma non c’era niente, in vista, del regno vegetale, animale e umano. Era un vasto, caotico deserto creato da mostri preumani o subumani in un delirio di aridità. Era un brutto sogno [...]. Cominciò male. La vista di New York, del porto, dei ponti, dei grattacieli, non servì a estirpare le mie prime impressioni. All’immagine di cruda, cupa bruttezza che Boston aveva evocato in me, si aggiunse un ben noto senso di terrore [...]. New York mi fece l’impressione che mi aveva sempre fatto: quella di essere il luogo più orribile sulla Terra di Dio.
La reazione di Miller ha qui qualcosa di biblico. In quel desertico caos di attività, la decantata energia americana gli appare come l’opposto della vitalità e della naturalezza. La New York in cui era nato e da cui era fuggito per vivere in Francia e in Europa, benché fosse una capitale della democrazia, non meritava di essere vista come un luogo in cui vivere. C’era qualcosa di politico nel rifiuto di Miller? Sembra di no. Ma forse anche sì.
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