Gregorio Monasta, fiorentino, fisico, studioso di meccanica delle particelle e docente di Meccanica razionale all’Università di Firenze, ha precocemente lasciato ricerca e carriera per studiare medicina con l’intenzione di lavorare nei Paesi in via di sviluppo. Medico specialista in Pneumologia, Cardiologia, Anestesiologia e Rianimazione, ha lavorato molti anni in Africa (Kenya, Tanzania, Mozambico, Somalia ed Etiopia), poi in Guatemala, Perù, Salvador, Bolivia, Ecuador, Haiti e ancora Guinea Bissau, Tibet, Zimbabwe e di nuovo, recentemente, Mozambico. In alcuni di questi paesi è stato rappresentante dell’Unicef.

Hai trascorso quasi quarant’anni in Africa, Asia e America latina come medico. Puoi raccontare?
Siamo partiti nel ’68 con mia moglie, biologa. Io ero un giovane medico, ma avevo già la specialità in malattie polmonari. La prima esperienza è stata in Kenya, dove abbiamo lavorato in un ospedale missionario sull’altopiano sotto il ghiacciaio del monte Kenya, un posto bellissimo ma estremamente povero. L’ospedale era di proprietà del vescovo. Ricordo che alle dieci di sera facevo un ultimo giro per vedere i malati più gravi; ebbene, quando uscivo, il guardiano notturno spegneva il generatore di corrente che alimentava l’ospedale; dopodiché si rimaneva tutti al buio, anche noi. Di notte veniva riacceso solo se c’era un’emergenza chirurgica.
C’era anche una scuola per infermiere professionali, forse la migliore del Kenya, in cui insegnavamo anche noi. Quando sono arrivato, c’era un medico molto esperto che mi ha insegnato moltissime cose, soprattutto la chirurgia e la ginecologia. Abbiamo poi aperto una scuola per ostetriche professionali (agli esami di stato a Nairobi le "nostre” risultavano le più preparate). Nei vari reparti a comandare erano delle suore della Consolata, di una dedizione assoluta, ma di una rigidità...
C’era in particolare un problema. Nonostante la situazione di miseria, l’amministrazione dell’ospedale voleva essere in attivo. All’inizio non ci eravamo resi conto, non conoscevamo la lingua locale; avevamo studiato un po’ di kiswahili, ma non bastava.
A un certo punto abbiamo capito che loro volevano far pagare la gente per forza. Rifiutavano perfino bambini molto gravi. Dopo due anni, al ritorno in Italia abbiamo raccolto soldi e una tale quantità di attrezzature che, per risparmiare, siamo tornati in Africa in nave. Tra l’altro, a quel tempo era chiusa Suez, quindi abbiamo vissuto l’avventura di fare tutto il giro dell’Africa con nostra figlia Anna che aveva due anni; giù ci era nato un altro bambino, Lorenzo, che ha imparato a camminare sulla nave.
Il viaggio è durato più di un mese. Avevamo anche ottenuto una sovvenzione per la gestione di una pediatria gratuita. Ebbene, noi siamo arrivati con tutti questi doni, tra virgolette, per l’ospedale, per sentirci rispondere che "ai negri non si deve dare nulla gratis, se no si abituano male”. I soldi ottenuti dall’Europa compensavano adeguatamente gli introiti della pediatria a pagamento. Insomma, era proprio una questione ideologica. Comunque abbiamo continuato a lavorare anche nel secondo mandato.
Finché non sono successe alcune cose. Io la mattina facevo ambulatorio. Avevamo fatto un patto per cui i gravi e gli urgenti dovevano essere ammessi anche senza pagare, avrebbero pagato dopo. Un bambino con la leucemia o la broncopolmonite è grave. Un bambino che sta benissimo e però ha un taglio a un’arteria che schizza sangue è urgente. Questi dovevano entrare, punto. L’episodio culmine, dopo il quale siamo andati via sbattendo la porta, riguardava un bambino molto grave che avevo visto dando indicazione per "ammissione urgente”. Dopo il giro dei reparti e ambulatorio, ogni giorno tornavo a vedere quelli che avevo ammesso. Ebbene, non l’ho trovato. "L’abbiamo mandato via perché non pagavano, l’abbiamo indirizzato a un ospedale statale”. L’ospedale di Embu era a 20 miglia di distanza, pioveva. Mi sono infuriato, ho chiamato la caposala e le ho ordinato di prendere la Land Rover con la lettiga e di andare a recuperare madre e figlio. Hanno trovato la mamma, ma quando è arrivata in ospedale, il bambino che aveva sulle spalle era morto.
Qual era la situazione del Kenya dal punto di vista epidemiologico?
C’erano tutte le malattie che abbiamo noi, e in più le malattie tropicali. Le malattie tropicali erano un po’ particolari perché noi stavamo a 1.500 metri e faceva freddo. Dopo un ...[continua]

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