Sabine Bode ha iniziato come giornalista del Kölner Stadt-Anzeiger, in seguito ha svolto attività di pubblicista per la radio e altre testate. È autrice di vari libri sulle conseguenze di lungo periodo della Seconda guerra mondiale sulle generazioni successive.
 
Nel suo libro più recente, lei sostiene che la Germania è affetta da una particolare forma di angoscia-paura, soprattutto angoscia nei confronti del futuro. Non le sembra che questo sentimento serpeggi ormai in molti settori delle società europee e occidentali in genere? La disoccupazione, la crisi economica, l’inflazione, l’immigrazione, il terrorismo generano paure diffuse, non sono una specificità tedesca.
È vero, gli immigrati, gli stranieri, se vengono visti come invasori, generano paura, talvolta anche ostilità, dappertutto, non solo in Germania. I tedeschi però non hanno solo paura degli stranieri, ma anche paura di comportarsi male nei loro confronti. Questo ha a che fare con la nostra storia, non con la nostra storia di invasi, ma con la nostra storia di invasori. Dagli anni Novanta, al di là delle vittime dell’Olocausto, si è incominciato a riflettere sulla grande massa dei lavoratori coatti, deportati in Germania durante la guerra e del loro diritto a qualche forma di risarcimento. La memoria di questa tragedia era stata completamente rimossa, anche se la presenza massiccia del lavoro coatto non poteva certo essere ignorata. Non si è trattato allora soltanto di sostituire nelle fabbriche, grandi e piccole, gli uomini che erano al fronte con operai deportati, questi venivano impiegati in tante altre occupazioni, anche nelle piccole botteghe, addirittura nel lavoro domestico. Non so quante famiglie ne hanno approfittato, non sono state certamente poche, anche mia madre aveva preso due ragazze polacche e, quando ormai la guerra sembrava volgere al peggio, voleva portarsele con sé fuggendo verso Occidente. Di questa vicenda non si è mai più parlato in famiglia.
Ciò che è rimosso, non viene però cancellato. I tedeschi sanno sulla propria pelle che cosa vuol dire la deportazione, sia per esserne stati vittime, sia per le azioni di cui si sono essi stessi macchiati. Consapevolmente o meno, la paura di approfittare degli immigrati, di trattare male gli stranieri, mi sembra molto presente anche in questo momento. È difficile far affiorare questa angoscia/paura nascosta e io mi sforzo di parlarne per innescare una presa di coscienza, che è l’unico modo per superarla.
L’elaborazione della memoria della guerra, della Seconda guerra mondiale in particolare, ma anche più recente della guerra in Bosnia, è un compito al quale non ci possiamo sottrarre. Soprattutto in Germania, la guerra nella ex-Jugoslavia e anche quelle medio-orientali, hanno fatto riaffiorare le angosce del passato, le immagini degli eccidi hanno rievocato spettri che sembravano sepolti.
Mi sembra, però, che in Germania, a partire dagli anni Sessanta, si sia fatto uno serio tentativo di rielaborazione della recente storia passata. Molto di più, ad esempio, di quanto non si sia fatto in Italia nei confronti del fascismo. Non tanto a livello di ricerca storica e di cultura accademica, quanto a livello collettivo, ad esempio, nell’insegnamento scolastico.
Questo è vero e ha una data precisa, il ’68. Ma un conto è l’elaborazione culturale e un conto è quanto avviene a livello emozionale e collettivo. Molti paesi devono fare i conti con l’antisemitismo, ma lo sterminio sistematico riguarda solo i tedeschi. Tutte le nazioni hanno i loro problemi col proprio passato, ma la Germania ce li ha più di tutti gli altri.
Le lunghe ombre della guerra sono ancor oggi visibili, non tanto nel paesaggio, quanto nella costituzione mentale anche di coloro che non l’hanno vissuta. Dopo l’oblio (e la rimozione) c’è stato il ritorno della memoria, indotto soprattutto dalla generazione di giovani nati nel dopoguerra da genitori che il nazionalsocialismo e la guerra li avevano vissuti da adulti e che quindi ne avevano avuto la responsabilità, come veniva loro rinfacciato dai figli e dalle figlie. La "storia familiare” assume una rilevanza "morale” nei rapporti tra le generazioni.
Quando la rivelazione dei campi di concentramento e di sterminio è diventata di dominio pubblico, la generazione nata tra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta, la generazione del dopoguerra, di coloro che non hanno vissuto l’infanzia durante la guerra, ha incominciato a ...[continua]

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