Krzysztof Czyzewski, è presidente della Fondazione “Borderland” (Pogranicze) e direttore del Centro “Borderland of Arts, Cultures and Nations”, con sede a Sejny, in Polonia, che in questi anni ha dato vita a un centro di documentazione, un teatro, una banda Klezmer e una casa editrice. Nel 2004 la Fondazione ha ricevuto il premio Alexander Langer. Nel 2011 Krzysztof Czyzewski ha promosso la nascita del Centro internazionale per il dialogo a Krasnogruda, nella casa di famiglia di Czeslaw Milosz.

Tutto è cominciato dopo la caduta del Muro, negli anni Novanta...
Nel 1990, assieme ad altri compagni di viaggio, abbiamo istituito la fondazione “Borderland”, una delle prime fondazioni culturali della nuova Polonia. Solo in un secondo momento abbiamo preso la decisione di spostarci dalle città in cui vivevamo in un paesino sul confine con la Lituania, Sejny, dove nel 1991 abbiamo istituito il centro “Borderland of Arts, Cultures and Nations”. Fino ad allora eravamo un gruppo di artisti e pedagoghi, una specie di ong indipendente, nel senso che ci finanziavamo attraverso aiuti esterni. La decisione di vivere e lavorare nella comunità di Sejny ha rappresentato una sorta di svolta. Dopo anni di lotta per la libertà dal regime, i nostri sforzi si sono concentrati sulla ricostruzione di una comunità, quindi sull’interdipendenza.
Quindi siete passati dalla lotta per l’indipendenza alla scelta della dipendenza?
Può suonare curioso, ma è proprio così. Fino al 1989 tutte le nostre forze erano concentrate nella lotta per l’indipendenza. In quegli anni avevamo creato le nostre “isole” di cultura alternativa, underground… per perseguire le nostre utopie, i nostri sogni, bisognava fuggire, uscire dalla comunità, allontanarsene.
Ecco, dopo l’89, invece cos’è successo?
Che è diventato rivoluzionario non scappare. La vera sfida era quella di tornare dalle persone, dal popolo, se vogliamo usare questo termine. Oggi noi, come istituzione, siamo totalmente interdipendenti, che vuol dire che c’è un dialogo aperto con le istituzioni locali e nazionali, che dobbiamo negoziare il nostro budget, ecc., proprio perché tutte le nostre attività sono concentrate in questo paesino di seimila abitanti. Abbiamo costruito qui il nostro piccolo centro del mondo, assieme alle altre persone, attraverso la partecipazione, l’impegno, e così via.
Il termine “comunità” resta controverso...
Certamente è così. Abbiamo molti amici che ci ripetono che è meglio il termine “cittadinanza”. A loro non piace proprio la parola comunità, perché può essere sinonimo di chiusura, egoismo, ecc. Naturalmente anche noi diamo valore alla cittadinanza. Però abbiamo deciso di dedicare il nostro lavoro alla ricostruzione del tessuto che tiene assieme le persone. Non solo: abbiamo scelto di lavorare con comunità di confine. Dopo la Shoah, dopo la caduta del regime comunista qui non c’era più una comunità. Tutto era finito in frantumi: ogni nazionalità, ogni minoranza si era rinchiusa nella propria fortezza. C’era una specie di arcipelago fatto di isole scollegate, segnate da pregiudizi, conflitti, memorie traumatiche, senza alcun dialogo, alcuno spazio comune, alcuna storia comune.
Cosa significa pogranicze, borderland?
La parola pogranicze nella cultura polacca, non si riferisce tanto e solo al confine in sé, al vivere sul confine tra stati nazionali, ma anche ai confini interni alle comunità, dove convivono popolazioni, lingue, religioni e culture diverse… Lavorare sui confini all’interno della comunità significa costruire ponti, attraversarli, navigare tra le isole. La storia di questo territorio è pesante: la comunità ebraica è stata sterminata durante l’Olocausto. Quando siamo arrivati, il quartiere ebraico era un deserto nel bel mezzo del villaggio. Di qui la scelta di sfidare i pregiudizi e andare a insediarci proprio lì e di far rivivere -noi non ebrei- la vecchia sinagoga bianca, ma anche la yeshiva, la scuola ebraica e altri spazi. Oggi il nostro centro culturale ha sede nella sinagoga bianca, tra la casa della cultura polacca e quella lituana. Quello spazio vuoto, disabitato, ma pieno di memorie ci sembrava perfetto per creare un luogo in cui la gente potesse tornare a incontrarsi, uscire dalle proprie isole... In questi anni sono sorte esperienze analoghe in Lituania, Ucraina, Romania, ex-Jugoslavia. I centri di dialogo multiculturale spesso nascono proprio in ex sinagoghe. Perché tutti gli altri posti sono occupati dai gruppi etnici che ...[continua]


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