Elena Antonetti è presidente dell'Associazione "laPolis - Laboratorio di cultura politica” (leparoledellapolitica.blogspot.it). Tra le sue pubblicazioni: Il lavoro tra necessità e diritto. Il dibattito sociale nella Francia tra due rivoluzioni. 1830-1848 (Franco Angeli, 2004). Ha inoltre tradotto e curato La costruzione della solidarietà, antologia di scritti di Léon Bourgeois (Rubbettino, 2011).

Come pensi si collochi attualmente la solidarietà nel lessico politico, nella dimensione culturale, ma anche nella vita di tutti i giorni?
Solidarietà è una bella parola, evocativa, piena di suggestioni. È poco definita, o almeno così si pensa, e ognuno ne dà l’interpretazione che crede: un sentimento, un auspicio, uno strumento, un orizzonte, un miraggio… Stefano Rodotà, definendola "utopia necessaria” (Solidarietà: un’utopia necessaria, Laterza, 2014), fa una rapida storia del termine e cerca di darne una lettura in grado di incidere sul tempo che viviamo. Ma la definisce "utopia”, cioè orizzonte verso cui necessariamente tendere, ma a cui non si può arrivare. Quindi non un attore reale che deve intervenire nelle dinamiche, feroci e deteriorate, che caratterizzano la vita di questi anni. Qualche anno fa, invece, Dionigi Tettamanzi ha pubblicato un libro dal titolo molto significativo Non c’è futuro senza solidarietà (San Paolo, 2009). Ecco, questa tesi, sviluppata in quelle pagine, mi sento di sposarla in pieno: la solidarietà è il fondamento del futuro, perché è il legame che tiene insieme una comunità, una società.
Se si è solidali la struttura è forte e i giovamenti dell’uno sono quelli di tutti; se non si è solidali la struttura cede, perché le debolezze dell’uno compromettono la tenuta del tutto. Questa definizione, che ne fa un concetto non solo religioso o appartenente alla sfera valoriale, ma pienamente politico, è fondamentale per capire il posto della solidarietà nel mondo di oggi. Una scelta di solidarietà non vuol dire una vita "monastica” e di rinunce, ma una vita responsabile verso gli altri, verso la società intera, e quindi verso se stessi. Attualmente, nel momento storico di grave crisi che stiamo vivendo, credo che la solidarietà dovrebbe collocarsi al centro del dibattito, dovrebbe essere il fondamento di ogni riflessione. E invece così non è, perché la tendenza è a proteggere ognuno quel che ha, per poco che sia... E si è diluito, fin quasi a spezzarlo, qualsiasi legame sociale. A voler esser cattivi, sembra quasi un disegno politico, un "divide et impera” funzionale al mantenimento dello status quo: se ognuno è preso solo dal difendere se stesso, se ognuno vede nella persona che ha accanto la minaccia alla sua tranquillità, allora si sarà perso di vista il livello collettivo e le politiche saranno sempre e solo politiche di parte e per una parte. I diritti sociali, invece, sono diritti a prestazioni che permettono a tutti di vivere dignitosamente nella società; si fondano sul presupposto che la collettività non è indifferente alla vita del singolo e riconoscono che stare in una società e accettarne le regole significa farsi carico di tutti ed essere protetti dalla povertà, dalla malattia e da tutti gli eventi che possono compromettere la nostra vita; riconoscono quindi la solidarietà necessaria che tiene insieme una collettività.
Nel tuo studio sulla genesi dei diritti sociali nella Francia di metà Ottocento, hai mostrato il nesso profondo tra solidarietà e dignità del lavoro. Come scaturisce questo legame dal punto di vista storico?
La cosa sorprendente, che scopro ogni giorno sulla mia pelle e su quella di tanti altri, è che il dibattito attuale sul lavoro, sulle tutele a esso dovute e sulla mancanza di garanzie che una larga fetta di lavoratori (in costante crescita) subisce, ricalca in modo impressionante quello della prima metà dell’Ottocento. Questa cosa è, per me, sconvolgente. Abbiamo fatto un salto all’indietro di quasi due secoli.
All’inizio della rivoluzione industriale, il tema che emerse con grande forza era quello del pauperismo, cioè dell’impoverimento progressivo della popolazione lavoratrice: il lavoro non garantiva più la sussistenza del lavoratore. Oggi parliamo di working poors, i poveri che lavorano in un periodo storico in cui lavorare non è più garanzia non solo di benessere, ma spesso nemmeno di sopravvivenza. Allora, nell’Ottocento, di fronte a questo fenomeno, si sentì l’urgenza di ripensare il concetto di povertà, ritenuta fino ad allora "colpa” ...[continua]

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