­Marco Sciamarella è presidente della cooperativa Allegro moderato che ha sede a Milano.

Puoi raccontare cos’è "Allegro moderato”?

Allegro moderato esiste da un paio d’anni, ma in realtà la cooperativa ha una lunga storia dietro alle spalle. Tutto è partito una ventina di anni fa su iniziativa di un prete (oggi monsignore), filosofo, teologo, che si chiama Pierangelo Sequeri, e che è pure musicista. Lui lavorava nella parrocchia di Baggio dove bazzicavano diversi ragazzi con disabilità e disagi vari. In quegli anni si iniziava a parlare di educazione speciale musicale per i soggetti con problemi. A un certo punto mise assieme un gruppo di persone, tutti volontari, musicisti, psicologi, educatori, e in maniera assolutamente sperimentale, in piccoli gruppi e con strumenti assolutamente rudimentali, raccattati nelle case, nelle soffitte, partirono. Alle famiglie che normalmente frequentavano la parrocchia l’idea è piaciuta e così si è deciso di costituire un’associazione e di strutturare dei percorsi. L’idea fondamentale era, e rimane, che anche la disabilità più grave merita un’educazione musicale di tutto rispetto.
È un po’ questa l’intuizione geniale: la persona con disabilità anche grave merita, dal punto di vista musicale, il meglio.
La persona con disabilità, soprattutto mentale, psichica, viene sempre considerata "piccola”, infantile, sottodotata, con poche risorse, tant’è che anche di fronte a una persona di cinquant’anni con handicap, ci viene da dargli del tu. L’atteggiamento è quello: se non paternalistico, sempre compassionevole. E comunque non ci si aspetta mai molto. L’approccio è "si fa quel che si può”.
Negli anni Settanta e Ottanta la cosiddetta musicoterapia era pensata soprattutto come elemento socializzante: gli mettiamo in mano un barattolo del caffè perché facciano tum tum tum e intanto loro si divertono; tutte proposte in cui la musica era completamente sottoutilizzata, anzi di musica non ce n’era. Oppure tutto un altro campo della musicoterapia usava la musica in funzione quasi psicoterapeutica, cioè come canale regressivo, utilizzando magari soltanto i parametri ritmici. Dietro c’è una concezione farmacologica della musica: ascolti Vivaldi e ti si quieta l’ansia, ascolti Mozart e ti si sviluppa più il lato destro del cervello; tutte idee senza alcun fondamento scientifico.
Voi invece gli avete messo in mano gli strumenti dell’orchestra.
Proprio così. In questi anni ci hanno spesso accusato: "Ma perché diavolo fate Wagner, perché fate Bizet, quando questa gente fa fatica a capire le canzoncine dello Zecchino d’oro!?”.
In realtà è proprio questo il paradosso: cioè è la musica ricca di pensiero, di emozioni, di struttura che si è rivelata una "protesi” molto raffinata; è proprio laddove la proposta musicale è particolarmente ricca, ampia e profonda, che anche loro trovano un varco, un qualcosa cui appoggiare, con cui dire qualcosa di se stessi, delle proprie emozioni, dei propri pensieri. Se invece la musica è povera di struttura, di pensiero e di emozioni anche loro ci trovano poco.
Come funziona?
I ragazzi fanno un triennio articolato in maniera progressiva. Il primo anno è di totale esplorazione in cui si lascia loro ampia libertà di sperimentare liberamente gli strumenti; contemporaneamente si mostrano loro le forme, quelle proprio basilari, della musica occidentale. Si tratta di pezzettini che arrivano dal repertorio colto, pezzi molto elementari nella struttura e con climi molto precisi: la marcetta, che può essere quella militare, la ninnananna, il pezzo triste, la marcia funebre, cose che hanno anche un clima emotivo abbastanza preciso.
Nel secondo anno piano piano cresce la complessità musicale: c’è una suite, si mettono assieme più brani, quindi aumenta anche la lunghezza, la tenuta temporale, la complessità degli interventi. Per esempio al violoncello il primo anno mi basta un colore, un timbro; il secondo anno ti chiedo una corda precisa, ti chiedo di tenerla, aumenta la complessità, che è fatta anche di dialogo: cioè sto zitto io, parli tu, poi parlano solo i violini, poi tu devi aspettare che ci sia il colpo di grancassa, cioè che l’architettura interna della musica e dell’orchestrazione faccia un vero e proprio discorso.
Nell’handicap mentale e psichico la parola spesso rappresenta un grosso ostacolo; il confronto diretto per molti dei nostri è un casino, la tenuta mentale davanti a un interlocutor ...[continua]

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