Edoardo Albinati (Roma 1956) ha pubblicato presso Longanesi due libri di narrativa, Arabeschi di vita morale (1988) e Il polacco lavatore di vetri (1989) e per Mondadori una raccolta di poesie dal titolo Elegie e Proverbi (1989).

Si sente dire, sempre più spesso, che la rivitalizzazione della letteratura deve passare attraverso un rinnovato confronto con la realtà, qualcosa come un nuovo “impegno”, una nuova poesia civile. Cosa ne pensi?
Espressioni come questa sembrano presupporre che questo confronto sia stato chiuso, il che è tutto da dimostrare. Io sento continuamente questi appelli, che sono poi richiami all’ordine, anche nel senso reazionario del termine, a ritornare alla realtà, a riguardare la realtà, come se ad essa un giorno fossero state girate le spalle. C’è qualcosa di molto strumentale in questa questione della poesia civile. Soprattutto perché credo che la letteratura non sia tutta dello stesso segno, così come non si può dire che la musica rock sia tutta per il bene e l’amore dell’umanità. Esiste senz’altro una letteratura di “fondatori” o di “legislatori” o di “scrittori civili” nel senso lato del termine, ed ovviamente Dante è uno di questi, però la letteratura è fatta anche da distruttori, da scompaginatori, da gente che ha buttato giù i castelli. In linea generale, per quante buone intenzioni si possano mettere in campo, un buon romanzo o della buona poesia tenderanno sempre a scompaginare le buone intenzioni, a metterle in dubbio, a minarle. Anche i più propositivi ed ideologici scrittori finiscono per mettere tra parentesi la loro stessa ideologia. Penso allo scrittore in potenza più ideologico fra quelli che conosco, cioè a Tolstoj, il quale, in realtà, continuamente contraddice la sua tesi ed in questo consiste la sua forza di scrittore. Quando uno scrittore è perfettamente conseguente di solito è uno scrittore mediocre. Dunque il paradosso della letteratura è, se vogliamo, che essa porta con sé come argomento, come contenuto, un bagaglio di idee, ma la grandezza, quando c’è in letteratura, è che queste idee vengono bruciate, polverizzate dall’opera stessa. Inversamente abbiamo delle opere puramente di tipo istruttivo, agiografico, politiche in senso stretto. Lo specifico della letteratura è quindi che l’idea scompare dentro l’opera, si brucia in essa. Se invece sopravvive all’opera, vuol dire che è più forte l’idea dell’opera ed in questo caso non siamo più nella letteratura, siamo in un’altra cosa. Il letterario è proprio l’ambito in cui le affermazioni categoriche vengono continuamente rimescolate da diverse voci. L’esempio più tipico sono i romanzi di Dostoevskij, non solo per la loro struttura polifonica, ma soprattutto perché le idee sono continuamente in lotta fra loro e l’autore non è rinvenibile, non è chiaramente identificabile in una posizione o in un’altra.
La radicalità di uno scrittore non è dunque un semplice fatto di idee...
Uno scrittore che abbia delle idee ben precise non è quasi mai un grande scrittore. Potrà forse, a livello conscio, avere delle idee ben formate, ma quando lavora si trova sempre ad imitare le voci. Lo scrittore è un imitatore, il suo compito è imitare le voci: tutte le voci quindi anche tutte le idee. La misura della sua radicalità è quindi data dal coraggio con cui si consacra a questo compito. Questa è la sua unica incombenza, che è una incombenza di tipo radicale, giacobino, ma che non ha assolutamente niente a che vedere con la sua radicalità ideale e politica. Molto spesso scrittori mediamente conservatori, dal punto di vista della politica vera e propria, erano estremamente radicali come scrittori (penso a Flaubert o allo stesso Dostoevskij).
E’ dunque molto problematico questo sospirato confronto con il reale?
Si perché in questo modo si tende a dare per scontato un concetto volgare di realtà e si pensa alla letteratura soltanto come ad un fatto descrittivo.
Non credo ci sia peggiore letteratura, o peggior cinema, di quella che crede che la realtà sia quella delle copertine di “Panorama” o de “l’Espresso”. Il problema della letteratura è che essa ha molto stinto sul giornalismo. O meglio, si vede oggi quanto il giornalismo italiano sia letterario. Il giornalismo è senz’altro il genere che oggi, in Italia, si occupa meno della realtà. Se pensate ai grandi giornalisti italiani vedrete che sono tutte persone che non fanno giornalismo, ma fanno letteratura, cioè quella che si vorrebbe fosse la letteratura. Fanno l’elzeviro ...[continua]

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